Daisy rimise il latte nel frigorifero, richiuse piano lo sportello e prese la tazza. Quando si girò per uscire dalla cucina, però, sulla porta c’era Melissa. Il caffè si rovesciò dalla tazza sul pavimento di pietra. – Per favore. Io volevo solo…
Melissa non aveva intenzione di muoversi, affondò le mani nelle tasche della felpa col cappuccio e si dondolò avanti e indietro sui piedi come se le parole che stava per dire dovesse spremerle fuori da sé. – Mi dispiace per ieri.
Le scuse erano cosí inaspettate che Daisy non sapeva cosa rispondere.
– Non volevo dire quelle cose, OK? Ho parlato senza pensare.
– Non ha importanza. Davvero. Ho solo bisogno di tornare in camera mia.
– Aspetta –. Melissa era arrabbiata. Tutto questo le era costato un sacco e voleva che le venisse riconosciuto lo sforzo. – Essere gay va benissimo. Io non ho pregiudizi.
– Non sono gay –. Daisy si rese conto troppo tardi di averlo quasi urlato. Si interruppe e tese l’orecchio, terrorizzata che in sala da pranzo potesse esserci qualcuno. Le tremavano le mani. Posò la tazza. – Per favore. Non voglio parlarne.
– Sí, be’, forse dovresti.
All’improvviso una fitta di solitudine estrema. Melissa era l’unica a saperlo, non c’era nessun altro a cui lo potesse dire. Daisy allungò le braccia verso di lei. – Ho bisogno che tu sia mia amica –. Voleva che l’altra la abbracciasse ma non riusciva a dirglielo.
– Datti una calmata, bellezza, – disse Melissa.
Daisy si vide ferma in cucina, con le braccia tese come lo zombie di un cartone animato. Per la seconda volta aveva fatto la figura dell’imbecille. Si precipitò fuori spingendo da parte Melissa. Sentí l’altra che diceva: – Sei cosí incredibilmente fuori, cazzo, – poi si ritrovò nell’ingresso e corse su per le scale.
– «Abergavenny. Un tempo Gorbannia. – Alex girò pagina. Un’antica parola britannica che significa “fiume dei fabbri”».
– Britannica?
– Cioè pertinente ai Britanni.
– Cosa ti sei fatto alla mano?
Alex si guardò le nocche con noncuranza. – Ho giocherellato un po’ con quel rullo che c’è in legnaia. – Si era già preparato la spiegazione. – Sono fortunato ad avere ancora tutte le dita attaccate.
Dominic si era impossessato della guida. – Sorge tra due montagne, il Sugar Loaf e il Blorenge.
– Il Blorenge?
Sulla porta comparve Richard. Alex nascose la mano ferita sotto il tavolo. Richard gli passò accanto e gli diede una pacca sulla spalla e Alex pensò «Vaffanculo».
– Il barone di Hamelin, – disse Dominic. – L’albero di Jesse. Bla, bla. Parrucche di lana di capra. Rudolf Hess.
– Ti stai inventando tutto?
– Parola di lupetto.
Entrò Benjy con una scodella di cereali alle nocciole e si sedette vicino a Dominic, appiccicandosi al padre perché era ancora provato dalle paure della notte precedente, che la luce del giorno non aveva dissipato del tutto.
– Ehi, ragazzo.
– Qualcuno per caso ha visto Daisy stamattina?
– No.
– Melissa?
– Che c’è?
– Hai visto Daisy stamattina?
– È scesa a prendere il caffè. Sembrava di uno strano umore.
– Faccio un salto di sopra a vedere come sta.
– Ehi. La città ha ospitato i Campionati Nazionali di Ciclismo. 2007 e 2009.
– La Parigi del Galles.
– Dai, non fare la stronza.
– Torno fra un’ora, – disse Richard, tracannando un bicchiere d’acqua. – Mi faccio una doccia rapida e possiamo partire.
– Buon divertimento.
– Non perderti, – disse Alex.
Era ben deciso a non tornare a casa senza aver corso regolarmente, con tutti i soldi che aveva speso, e poi aveva bisogno di stare solo per un po’. Non era solo la faccenda di Louisa. Se avesse picchiato Alex… Ci sarebbe stato forse modo migliore di mettersi contro tutti quanti? Doveva fare un passo indietro e prendere le distanze dalle cose.
Si accovacciò sul sentiero di ardesia che dalla porta principale conduceva al cancello di ferro, tirò le linguette delle scarpe da corsa e le allacciò con un doppio nodo. L’aria quella mattina era umida ma per qualche ragione piú limpida e trasparente. I verdi intensi del fogliame. Era una cosa che in città non vedevi, la luce che cambiava di continuo. Camminò fino al muretto dove appoggiò un piede e poi l’altro, a turno, per allungare i tendini posteriori del ginocchio. La casa sembrava un’estensione del paesaggio, la pietra ricavata dalle colline gallesi, le travi da una foresta che avresti anche potuto vedere salendo in cima a Offa’s Dyke, il muschio, la ruggine, le bolle scoppiate dell’intonaco sbiadito che documentavano il suo passaggio attraverso il tempo e la furia degli elementi, come le cicatrici e i cirripedi sullo scafo di una petroliera.
Avrebbe corso piano su per la strada, camminato per la parte piú ripida della collina e poi avrebbe ricominciato a correre una volta oltrepassato il parcheggio di Red Darren, risparmiando energia, questa volta, invece di sprecarla in una dimostrazione privata di machismo mancato. Controllò l’orologio. Le 9:17. Guardandosi intorno si sentí deluso e allo stesso tempo sollevato che nessuno lo stesse guardando mentre si avviava.
Dominic passò davanti alla porta del soggiorno e vide Melissa seduta sul divano. Entrò e si fermò di fianco a lei. Stava disegnando il tavolino appoggiato alla parete. Ogni volta che vedevi Melissa disegnare quasi ti sentivi in dovere di dirle quanto era brava perché lei potesse poi snobbare il complimento. Melissa si comportò come se non l’avesse visto. – Cos’è successo ieri a Daisy?
– Non so di cosa tu stia parlando.
– Sí che lo sai.
– Credevo non stesse bene –. Si stava godendo quel braccio di ferro.
– Stai dicendo una bugia.
– Questa è un’accusa abbastanza seria. Spero che tu abbia le prove per sostenerla.
– Chi è piú probabile che dica la verità, tu o Daisy? – A modo suo, se la stava godendo anche lui.
Lei si mise a ridere. – Piuttosto divertente. Date le circostanze.
– Non giriamoci intorno. Ieri è successo qualcosa che ha ferito molto Daisy, e Daisy è la persona a cui voglio piú bene al mondo.
Melissa posò la penna e si girò a guardarlo. – È meglio che tu non lo sappia, fidati.
– Fidarmi di te?
– Dico sul serio, meglio per te se non lo sai.
– Mettimi alla prova.
Lei si appoggiò allo schienale e sospirò. – È lesbica –. Pronunciò la parola scandendo le sillabe.
– Cosa?
– Ha cercato di infilarmi la lingua in gola. E non è il mio genere, temo.
Fu come se avesse ricevuto un pugno. Era vero, giusto?
– Credo che abbia problemi ad accettarlo –. Era tutta una commedia, quella finta preoccupazione.
– Tu… – Doveva andarsene prima di perdere il controllo. – Tu chiudi quella boccaccia, piccola iena.
Entrò nella sala da pranzo. Erano tutti raccolti intorno al tavolo. Alex alzò una mano facendogli cenno di avvicinarsi. Lui si girò e salí di sopra, due gradini alla volta. Andò in bagno, chiuse a chiave la porta e si sedette sul water. Un vecchio ricordo di quando si nascondeva in bagno da bambino, il conforto di quella stanza, l’unica della casa in cui ci si potesse chiudere a chiave, in alto il radiatore, due barre arancione nella loro gabbietta d’argento, le piccole ventose di gomma verde a cui erano appese le salviette bagnate. Era cosí ovvio, a pensarci. Doveva andare a parlare con Daisy. Il fatto che lui lo sapesse l’avrebbe terrorizzata o confortata? Forse era meglio non dire niente, perché sotto la confusione provava un disgusto che non si sarebbe mai aspettato, un senso di innaturalezza, lo stesso disgusto che provava per la Chiesa, quegli estranei che venivano a reclamare sua figlia per portarsela via.
I fazzolettini di carta appallottolati, la mosca che zampettava sul davanzale. Daisy non aveva mai pensato di uccidersi, nemmeno prima di scoprire che era un peccato mortale. Adesso capiva il seducente potere dell’oblio. Ma se si fosse risvegliata all’inferno? Un piatto di risotto freddo e colloso sul tappeto vicino al letto. Aveva lasciato il caffè al piano di sotto, vero? Perché nessuno era salito a trovarla? Non poteva essere gay perché essere gay era peccato. Certo, sembrava una cattiveria, ma chi era lei per decidere? «I precetti del Signore sono saldi, e sono tutti giusti». Non si scopre l’amore di Dio per poi discutere dei dettagli. Ci si sottomette, si dice: «Sono ignorante, non so quasi nulla, sono un essere umano». Certo se ne sarebbe accorta prima, non era come un’allergia alle punture delle api, qualcosa di cui si è ignari finché non si rischia la vita. Doveva telefonare ai suoi amici in chiesa. Poteva andare in camera di Alex e Benjy, dove prendeva il cellulare. Meg, Anushka. Lesley, magari. Loro avrebbero capito come nessuno lí era in grado di fare. E allora perché non ci riusciva?
Le mancava Lauren. Le mancava Jack. Aveva bisogno di qualcuno che fosse semplicemente interessato, qualcuno che dicesse: «Raccontami», non: «Devi fare cosí». Ma Lauren era chissà dove a Gloucester e aveva perso il numero quando le avevano rubato il vecchio cellulare. Solo a pensarci provò un dolore che la costrinse ad aggrapparsi al comodino finché non fu passato. Jack. Prese il cellulare dalla borsa. Appartamento B, 47, Cumberland Street. Poteva chiamare il servizio informazioni. L’idea era come una sottile colonna di luce nel buio della cella.
Bussò alla porta di Alex e Benjy. Nessuna risposta. Allora entrò e salí in piedi sulla sedia magica all’angolo opposto della stanza. – Desidera ricevere il numero con un sms? – Le tremavano le mani, come se fosse una questione di secondi. Otto, sette, sette, zero…
– L’utente non è momentaneamente raggiungibile. Se desidera lasciare un messaggio…
Vide Jack che si alzava da tavola al Blue Sea. «Traditrice del cazzo». Tutti che li guardavano, anelli di calamari e ketchup, la bottiglia d’aceto rovesciata, il liquido che usciva. Il dolore sulla faccia di lui, e qualcosa che non riusciva a vedere bene, una sagoma ai margini del suo campo visivo che scivolava via ogni volta che girava la testa. Non ce la faceva, perciò schiacciò il tasto per interrompere la chiamata e si sedette sulla sedia. Sembrava che nella stanza fossero entrati i ladri, un cassetto era addirittura stato estratto e capovolto. I jeans sporchi di Benjy erano sul tappeto, girati al contrario e con un paio di mutande rosse infilate sopra, assieme al cartone schiacciato di uno yogurt da bere e ad alcuni disegni a pennarello che raffiguravano un massacro.
Aveva calcolato abbastanza bene, cinquanta passi di corsa, cinquanta di marcia, alternati, su fino in cima. Trenta minuti, niente male. Aveva detto che sarebbe stato fuori un’ora ma adesso che aveva le gambe piú sciolte era riluttante a tornare. Mezz’ora in piú o in meno non avrebbe fatto nessuna differenza e al ritorno sarebbe andato molto piú veloce. L’indomani le gambe gli avrebbero fatto un male cane ma si sentiva meglio di quanto si fosse sentito tutta la settimana. Un ricamo di sentieri ghiaiosi lungo la costa della collina, raffiche di vento. Erano saliti fin lí solo due giorni prima ma com’era tutto diverso adesso, l’impressione di essersela guadagnata, quell’altezza, la perdita di qualunque senso delle proporzioni quando non si intravede piú alcun oggetto umano.
– Porca puttana –. Il piede sinistro gli cedette all’improvviso e si ritrovò a scivolare giú da una parte, interrompendo la caduta col palmo della mano sinistra che andò a sbattere su un sasso. – Porca puttana –. Si lasciò rotolare sulla schiena e attese che un nugolo di stelle finisse di attraversargli la retina. Si guardò la mano, l’abrasione irregolare e tutta cosparsa di ghiaia che gli segnava il palmo e già cominciava a sanguinare. Gli ricordò la scuola, le bici che sbandavano, le cadute quando ci si arrampicava sui giochi al parco. Lentamente si mise a sedere. Aveva una distorsione alla caviglia, difficile stabilire se fosse grave o no. Aspettò un minuto, poi si mise a quattro zampe e si alzò con cautela, usando solo la gamba destra. Trasferí una parte del peso sul piede sinistro e sussultò: brutte notizie. Provò a camminare e si rese conto che riusciva a malapena a saltellare sbandando di qua e di là. Ci avrebbe messo un’ora e mezza a tornare? Due ore? Gli altri non avrebbero apprezzato.
Bassa pressione. Cielo viola livido, il vento come un treno, il paesaggio improvvisamente vivo, gli alberi che lottavano piegandosi, fasce di colori che si alternavano attraversando veloci l’erba lunga, il cielo come una coperta tirata sopra la valle. Un sacco di fertilizzante bianco e vuoto danza sul fianco della collina. Il martellio dei vetri alle finestre, lo sfiato della caldaia che tintinna e sbatte. Una tegola si solleva dal tetto, fa capriole lungo il muro del giardino e si infilza nel terreno come la pinna di un piccolo squalo. Il clangore dei bidoni nella legnaia mentre sfidano le corde elastiche che li tengono fermi.
Ed ecco che arriva, come un’immensa tenda grigia calata dalle colline, i campi macchiati e oscurati. Un rumore come di ghiaia umida schiacciata contro un vetro. Le grondaie si riempiono e ribollono, e l’acqua esce a fiotti dai pluviali. Una sventagliata di gocce sulla panchina, i gradini di pietra e il tetto lucido della Mercedes. La pioggia si raccoglie e comincia a scorrere nei solchi del viale d’accesso, sgocciola giú per il camino, risuona e sfrigola sul metallo rovente della stufa, filtra attraverso il vecchio mastice che sigilla le vetrate a piombo e forma pozze sui davanzali. L’acqua cade quasi orizzontale adesso, è un grafico vivente della forza del vento. Scomparsi tutti i punti di riferimento esterni, niente piú orizzonte, niente linee fisse. La casa è sospesa in aria, cavalca la tempesta, sorretta da qualcosa che non è solo aria né solo acqua, il Kansas è un ricordo lontano, i confini attraversati e spazzati via, la terra migliaia di metri piú sotto.
Benjy è fermo davanti alla finestra della sala da pranzo, affascinato dalla pura presenza delle cose, e il mondo fuori dalla sua testa per una volta è piú chiassoso e insistente del mondo dentro. Le gocce corrono giú per i vetri protetti dalle inferriate screziando il mondo, tutto è verde e argento, il picchiettio della pioggia sulle finestre ora è piú lieve ora piú forte, mentre l’immensa tenda liquida di perline oscilla avanti e indietro.
L’Arca di Noè. «E Dio disse: distruggerò il mondo perché gli esseri umani sono corrotti». Gli animali entrarono a due a due, marmose e vedove nere, Jafet e Dafet e Bafet. E tutti gli altri rimasero uccisi, come nello tsunami, macchine e muri e alberi si riversarono giú per la strada, la gente venne fatta a pezzi in un’enorme trituratrice bagnata. E quando la colomba si fosse alzata in volo sopr...