Prima di lavorare per Il Nuraghe Blu, Babbo è stato venditore ambulante e, come Nonno, contrabbandiere di sigarette e di altre cose.
Tipo: accendini, che Nonno chiamava macchinette.
Bombolette per accendini, che Nonno chiamava sa nafta delle macchinette.
Musicassette di tutti i cantanti italiani, sardi e stranieri senza il bollino Siae. Anche per autoradio Stereo 8. Anche quella con l’inno del Cagliari l’anno dello scudetto. Molte di Celentano, Morandi e Villa.
Nonna Giovane ascoltava sempre quella che faceva:
Chi non lavora,
non fa l’amore.
Il finanziere che ha arrestato Babbo sul verbale le aveva chiamate: «cassette pirata».
Vendevano roba da vestire, roba da mangiare, roba da divertirsi.
Tipo: tute da ginnastica della Addas, che Nonno e Babbo chiamavano le canadesi.
La Adidas non l’ha mai scoperto.
Ma soprattutto il frate: gli schiacciavi la testa e dal saio gli usciva il pirillone, che Nonno e Babbo chiamavano Fra Cazzo da Velletri.
Che ridere, quel pupazzetto lí.
Babbo, gli zii e Nonno erano una squadra perfetta. Poi Babbo è stato cacciato dalla società che prima ancora era di Nonna Vecchia, anche se secondo me lei Fra Cazzo da Velletri non l’ha mai venduto.
Nonna Vecchia in quartiere gestiva, durante la guerra, la borsa nera. Quando Babbo me l’ha raccontato io ho immaginato Nonna Vecchia che andava in giro con una borsa enorme, come una fata stregona, fino al quartiere dei nobili, in Castello. Che sta sul colle piú alto della mia città ed è veramente un castello con le torri, i bastioni e le mura.
A caro prezzo la mia nonnina vendeva quello che i cuccurus cottus, le teste calde del rione, trovavano o rubacchiavano in tempi di carestia, perché sono sempre stati gente furba e dominatrice.
Babbo mi ha detto che però Nonna Vecchia ha sempre saputo fare le distinzioni e al vicinato vendeva al prezzo giusto. Pure agli artigiani di Villanova e ai pescatori della Marina. Ai ricchi no.
Quando è uscito di galera Babbo ha smesso di fare il contrabbandiere. Anche se non aveva parlato e svelato gli affari di famiglia, i fratelli convinsero il Nonno a tenerlo fuori. Con l’aiuto di Nonna Giovane e buona pace di Nonna Vecchia, che quell’ospedale l’ha lasciato solo per farsi portare al cimitero. Un anno dopo che ero andato a vivere dalle Ciliegine.
L’ultima frase di Nonna Vecchia è stata: «Siamo una famiglia piena di vergogne».
E non credo si riferisse a me.
La mia vergogna è arrivata molto dopo. Quella mattina, sulla spiaggia. Quando Nonna Vecchia già riposava da tanto nella Casa di Nostro Signore.
Non credo si riferisse nemmeno al fraticello.
«Nonna, sono le consorelle di Sant’Efisio che cuciono l’abitino a Fra Cazzo da Velletri?»
Quella volta, l’unica, mi aveva rifilato un sonoro ceffone.
Babbo ha lavorato anche come bagnino, ma solo per una stagione. A settembre il proprietario dello stabilimento si è innervosito e pure ingelosito e gli ha detto di ritenersi libero. Poi con un’ascia ha fatto a pezzi il pattino con cui Babbo portava la moglie in alto mare a fare un giretto.
Babbo ha venduto collane e spille di perline e bracciali di rame alle fiere di paese.
È stato in Puglia per la raccolta dei pomodori, in Piemonte per la vendemmia, in Trentino per la raccolta delle mele. E da lí è tornato artista di strada. Ma si è stufato subito.
Ha anche fatto la guida turistica non autorizzata ai villaggi nuragici. Chissà dove le aveva imparate le storie del popolo di Nur. Noi a scuola, in prima media.
È stato anche tassista abusivo di Gabillac.
Te le ricordi le Gabillac? Erano come i taxi: portavano i paesani in città e li riportavano in paese per poche lire a testa. Erano blu, lunghe come station-wagon, ma in quegli anni ancora non esistevano le station-wagon. Avevano tre file di sedili e stavano in piazza del Carmine, vicino alla stazione dei treni, fra i piccioni e i piringini.
All’epoca in cui ci sono salito io, di Gabillac ne erano rimaste solo due, vecchie come i loro autisti. Uno era cosí grinzoso che sembrava una tartaruga.
«Nonna Giovane, perché si chiamano Gabillac?»
«Perché ci viaggiano i gabilli».
«E chi sono i gabilli?»
«Quelli che vivono nei paesi».
«Quindi, anche io che sto dalle suore in paese sono gabillo?»
«Sí, Peppino. Sei un gabillo».
«Beeello».
«Mica tanto, e chiamami Nonna punto e basta. Tanto, ora che la Vecchia è morta, non si fa confusione».
A me piaceva essere gabillo. Almeno ero qualcuno.
Perché poi suor Clementina mi ha spiegato che in realtà si dovrebbe dire cabillo: deriva da caballo, dalla lingua degli spagnoli, che ci hanno dominato per quattrocento anni, e vuol dire cavallo. Uomo che arriva a cavallo.
«Quindi cavaliere, sorella?»
«Sí, Peppino».
«Beeello».
Però cugino Stefanino, prima che salissi sulla Gabillac per tornare dalle suore, mi lanciava i piringini sulla schiena con la sua cerbottana e urlava: «Gabillo! Gabillo!»
Io non sapevo ancora il vero significato e non gli avevo potuto rispondere a tono. Né strozzarlo: lo avevo promesso proprio a Nonna Vecchia quando mi avevano portato in camera mortuaria a vederla. Sennò, se ritornavo dimoniu, quello ritornava al pronto soccorso.
I piringini, Marisa, ce li abbiamo solo in città. Fanno male perché sono duri e verdi. Sono le bacche cadute dagli alberi di piazza del Carmine.
Dopo il periodo della Gabillac, Babbo ha avuto quello da organizzatore di concerti. Per le feste dei comunisti, le feste del santo patrono e le sagre.
Ma a questo, Marisa, questo a cui ho appena dato l’intera busta con ogni bendidio del Nuraghe Blu, Babbo un concerto non gliel’avrebbe mai potuto organizzare.
Non puoi avere idea di chi è. E mi dispiace che uno cosí si serva da noi. Che consumi la mia merce.
Stanotte, quando mi hanno aperto la porta, sapendo a chi andavo incontro, dato che zio Mino mi aveva fatto mille raccomandazioni, mica mi aspettavo che si presentasse lui. Credevo che mi facesse trattare con un assistente isterico e biscia. Invece no, è venuto di persona. Mi ha ringraziato unendo le mani come in segno di preghiera e mi ha fatto pure un mezzo inchino.
– Namasté.
Stanotte Marisa sono quello all’ultimo posto dell’ultimo autobus dell’ultima corsa. E non mi pesa.
Perché ho una cuffia nell’orecchio e una no: devo pur sempre restare vigile. Ho nelle tasche tutto l’incasso della serata.
Non mi pesa perché ho la musica nelle orecchie. La musica e il lettore che mi ha regalato il mio cliente.
– Namasté, Peppino.
Mi ha detto che le case produttrici gliene mandano tanti in omaggio, ne ha la casa piena, e se mi faceva piacere me lo regalava. Non ho fatto neppure in tempo a dire di sí che già me l’aveva messo in mano.
– Un omaggio per la tua gentilezza, Peppino.
Grazie, signore.
Potrei anche infilarmi tutte e due le cuffie e non badare al mondo che mi circonda e ai suoi pericoli.
Sull’autobus di questa notte per fortuna non sono quello che deve tenere d’occhio chi sale e controllarmi la manica destra, dov’è nascosta la Guspinesa. Sono quello che sottovoce ripete le parole delle canzoni: escono da una scatoletta, corrono per i fili, arrivano alle cuffiette e passano alle mie orecchie e poi all’anima.
Me l’ha insegnato Babbo: la musica parla all’anima.
Babbo mi ha insegnato anche che con la musica si fanno i soldi. Il mio cliente di questa notte è uno che con la musica ha guadagnato tanto. E continua a guadagnare. Non è certo come quelli che Babbo portava a suonare nelle piazze dei paesi.
Lo so io, lo sai tu, Marisa. Se uno ha i soldi o no, lo si capisce a tavola. Quelli, quando a fine concerto Babbo li portava al ristorante, per poco non si mangiavano anche le gambe del tavolo.
Te lo ricordi quando i musicisti sono venuti alla festa nostra alla Casa delle Ciliegine? E hanno cantato per noi dopo pranzo? E abbiamo fatto il trenino urlando:
Aggiungi un posto a tavola,
ché c’è un amico in piú.
Eh, te lo ricordi? Emilio, poverino, era già molto grave. E Brunella era la prima della fila.
Era stato bello festeggiare la fine delle elementari, l’esame di quinta andato meglio a te che a me. Ma male a Calabrese, che lo ripeteva già per la seconda volta.
Babbo è sempre stato magico. Chissà come ha convinto le Ciliegine a far mangiare i suoi musicisti con noi, a farli esibire per noi dopo la frutta, prima di andare sul palco della piazza e provare i loro strumenti e le luci.
Chissà come ha convinto madre Binocolo a lasciarci prendere le nostre seggiole e piazzarle sotto il palco per ascoltare le prove.
«Ha! Ha! Uno-due! Ha! Ha! Prova microfono!»
Solo io e te.
Brunella si è aggrappata forte alla mia gamba, voleva venire anche lei. E suor Tempesta le ha dovuto stringere con forza la nuca per farle mollare la presa.
«Sono un popolo forte, i Mongoli», ha detto Calabrese, guardandoci con gli occhi dell’odio. Perché lui in paese, sotto il palco, non è potuto v...