Mille anni al mondo mille ancora
Che bell’inganno sei anima mia
E che grande questo tempo
Che solitudine
Che bella compagnia.
F. DE ANDRÉ e I. FOSSATI
Ombre talora veste.
Seduto nella penombra, Giorgio fissa lo strumento che ha di fronte. È un oftalmometro, ha detto la Mamma, non devi aver paura, e questo signore non ti farà niente, è un oculista, un medico, come me e come il Babbo. Ma lui non ha paura: osserva quell’affare, che con le due luci, rossa e verde, gli sembra un piroscafo, e intanto con la bocca imita, piano piano, il suono di una sirena. Luce rossa a sinistra, luce verde a dritta, cioè a destra; glielo ha spiegato il Babbo a Genova, e quando si esce dal porto bisogna suonare la sirena. Ma che ci fa un piroscafo, e cosí piccolo, proprio lí, che non c’è nemmeno una vasca come ai giardini, dove lui vara i suoi incrociatori, d’estate?
Lo sgabello è scomodo e Giorgio si dimena, subito trattenuto dalla mano della Mamma. La stanza è buia e negli angoli potrebbero nascondersi i Thugs, gli Strangolatori, per balzargli addosso, con il loro laccio di seta. E lui è disarmato: la Mamma lo ha costretto a lasciare a casa il pugnale di gomma che porta anche nella cartella della scuola. Non sta bene, gli ha detto, oggi andiamo dall’oculista, e agli oculisti i pugnali non piacciono; e aveva la faccia seria, di quando le si deve ubbidire.
Ma poi gli fanno cambiare sgabello e lo fanno sedere davanti a una lampada dal taglio di luce abbagliante, che vortica come i pianeti, quando lui, al comando della sua astronave, sta per attaccare la flotta degli invasori.
Ecco, dice l’oculista dopo un lungo silenzio, abbiamo finito. Sporgendosi da dietro i suoi strumenti, gli solleva il mento con due dita e lo scruta. Vai a sederti di là, dice, ti spiace? No che a Giorgio non dispiace. Può sgranchirsi i muscoli intorpiditi, e in sala d’attesa nella borsa della Mamma troverà il libro che sta leggendo. L’oculista accosta la porta e la voce della Mamma va e viene, si mescola agli ululati di Zanna Bianca e ai richiami sul pack.
Come sta Giorgio, allora? Te l’ho portato solo per un controllo, sai, nella sua classe hanno tutti gli occhiali e mi sono preoccupata. L’oculista non ha risposto subito. Si sente un mormorio appena, poi deve essersi alzato, perché la porta è stata chiusa del tutto. Giorgio scivola nella lunga traversata in slitta, lassú nello Yukon, che è proprio un bel posto, con tutta quella neve, e i lupi e i cani e le zuffe.
Quando la Mamma esce, ha gli occhi rossi e parla con una voce strana. Poi si soffia il naso e sorride. Prima di ritornare a casa, lo porta a mangiare un gelato, proprio lí, sotto lo studio dell’oculista. Mentre Giorgio affonda il cucchiaio nella panna, la Mamma gli passa una carezza sulla fronte. Ha ancora gli occhi rossi, la Mamma.
Chiudete gli occhi e vedrete.
J. JOUBERT
1.
Fu nella primavera del ’78, durante una lezione di radiologia, che le lastre proiettate nell’aula rammentarono a Giorgio Aguirre, studente di medicina, le ombre del mestiere paterno. L’aula era immersa nel buio e sullo schermo scorrevano le immagini di un omero fratturato in due punti. Frattura a legno verde, disse dall’oscurità la voce del professore, la tipica frattura, come sapete, che può procurarsi un bambino che cade dalla bicicletta. Arti fragili, ancora indecisi sul loro destino di cartilagini o di ossa.
L’emiciclo scricchiolava e odorava di legno, e Giorgio, figlio di una pediatra e di uno pneumologo di fama, ricordò certi pomeriggi invernali trascorsi nello studio del Padre, in via Magenta. Il Professore, come lo chiamava la Madre, indugiava tra le lastre dei suoi pazienti; le sfogliava come funebri riviste d’arte o le contemplava alla lampada del diafanoscopio: la linea che indicava l’infrazione d’un osso; una caverna nel grigio cotonoso d’un polmone; il nodo amaro d’un carcinoma. Nelle mezze ore prima di cena (rigorosamente alle venti, con il Professore in cravatta, la Madre in abito da passeggio e Giorgio in pantaloni all’inglese di flanella grigia), il Professore accoglieva Giorgio bambino nella penombra dello studio, tollerandone o forse ignorandone la presenza alle sue spalle, appollaiato sullo sgabello girevole. Quelle radiografie erano allora parse a Giorgio un universo segreto: ombre e luce sfumavano in immagini che lui metteva da parte, giusto perché tornassero buone quel giorno di lezioni, sorprendendolo come gli odori della sua infanzia. Che ogni casa avesse il suo odore era cosa che Giorgio sapeva da tempo, e del profumo della casa paterna facevano parte anche le apparenze lattiginose che scorrevano sullo schermo.
Oltre le tapparelle che avevano oscurato l’aula, c’era il sole, quel 9 maggio del ’78, e un pulviscolo sottile nell’aria. Nell’uscire, Giorgio sentí i compagni discutere animatamente di una certa Renault 4 rossa, ritrovata in via Caetani, a Roma. Ma nel tumulto Giorgio pensava alla frattura a legno verde. Aveva visto la linea scura tra i monconi dell’arto disassato prima che la bacchetta del docente la indicasse. Un brivido gli aveva percorso la schiena e lui era rimasto a osservare la lastra come un oggetto familiare e alieno, sentendo che il suo futuro era legato a quel mondo di ombre. Era stato un riconoscimento repentino e assoluto, la moneta spezzata che viene fatta combaciare con la metà perduta.
Il problema però era la medicina, fin dalla prima autopsia. Il professore di anatomia patologica, quel mattino dell’anno precedente, aveva parlato delle vie nervose e, nel descriverne i meandri, aveva continuato, inconsapevole, a sbucciare un cervello estratto dalla formalina. Ogni tanto, con un gesto meccanico, si liberava d’un frammento di meninge incastratosi sotto le unghie. Giorgio era uscito dalla sala settoria con lo stomaco contratto e la mente vuota, e aveva iniziato a ridurre il ritmo degli esami.
Giorgio s’è fermato all’inizio del corridoio. Gli studenti sciamano dall’aula, lo urtano, senza che lui si renda conto della calca e del vociare che sale. Di fare il medico non se ne parla, tanto meno il radiologo: formazione iperdensa sospetta a livello del lobo apicale del polmone destro o magari dell’epifisi distale del femore sinistro. Si consigliano ulteriori accertamenti. No, non se ne parla nemmeno; ma come la mettiamo con i vecchi? Con la Madre, soprattutto, e con il suo desiderio di un figlio medico?
Riprende a camminare, scaccia una mosca verdazzurra che gli passeggia sulla mano. Gli studenti corrono verso le scale, illuminati dal sole. C’è una baraonda che non capisci se sia di festa o d’allarme, certo di evento che spezza la giornata, la rivolta come la manica d’una camicia, e nell’aria quel nome – Aldo Moro – risuona con ritmo di mitraglia. Giorgio affretta il passo, andando a urtare una ragazza bionda che s’è arrestata bruscamente. Lei si volta: Un corteo, facciamo un corteo, lo investe, gli occhi febbrili. Un corteo? E per cosa? Ma sei scemo? Hanno ammazzato Moro. La ragazza alza la voce e la mano sinistra stretta a pugno: Assemblea straordinaria, assemblea straordinaria per organizzare il corteo, grida, e intorno a Giorgio si fa silenzio. Poi il clamore si leva, assordante. Assemblea, sí, e corteo, corteo, cor-te-o, cor-te-o, cor-te-o.
Giorgio si fa strada a fatica fino al cortile dell’ospedale, tra gruppi di parenti e malati in lettiga. All’uscita, un capannello di studenti ascolta una radio portatile col volume al massimo, uomini e donne sconosciuti gli uni agli altri s’interrogano con occhi smarriti. Da quel vortice lento si stacca un’infermiera: è corta e pingue e gli si avvicina. Ma è vero che hanno trovato il cadavere di Moro? In via Caetani, a Roma? Lui fissa le rughe di quel volto dove il fondotinta si sfarina in polvere cerea; osserva, sulla fronte della donna, un voluminoso porro da cui spunta a forza un pelo, nero e setoloso. Nel bagagliaio di un’auto, insiste lei. Giorgio non risponde, l’infermiera lo guarda come si guarda un idiota; sbuffa e gli volta le spalle, raggiungendo gli studenti.
Dunque le Brigate Rosse hanno ucciso Moro. Nel cortile, l’odore di fenolo dell’ospedale si mescola al sentore che proviene dagli obitori sotterranei. Tutti lo percepiscono, ma nessuno ne fa mai cenno. Giorgio sente il sole di maggio che gli scalda la pelle; ha una mosca sul polso, verdazzura come quell’altra: chissà se è la stessa. Gli studenti si sono riuniti in un embrione di corteo; la ragazza bionda che ha urtato poco prima ora tiene tra le mani un megafono e li incita alla lotta. A Mirafiori, al Lingotto, dai compagni operai, andiamo, compagni studenti. Fa un cenno verso di lui, per richiamarlo, mentre il seno le si alza e abbassa a ogni frase ed è, indiscutibilmente, bellissimo, e lei inclina il busto in avanti, carica il peso del corpo sulla gamba sinistra, pronta alla marcia, solleva il megafono come una bandiera, è lei stessa una bandiera.
Dall’ospedale si dovrebbe quindi andare a Mirafiori, al Lingotto, dove si costruiscono le automobili. Automobili, cioè macchine: macchine e non uomini, rotture e non fratture.
Giorgio sorride alla ragazza e, con calma, le volta le spalle e s’avvia verso l’uscita secondaria.
2.
Rincasando a tarda sera, la Madre lo trova in camera, immerso nel trattato di radiologia del Giuliano. Giorgio studia la lastra di un torace opponendola in controluce alla lampada da tavolo. Non s’è accorto di lei e nella casa buia non c’è alcun rumore.
La Madre lo osserva, appoggiata allo stipite della porta. Segue le linee di quel volto, che è quello di suo figlio e del quale sempre si stupisce e sempre si domanda come abbia fatto, proprio lei, a farlo, a miscelare quel preciso castano nei suoi occhi, che è anche il suo e quello di nessun altro. Il ciuffo scuro che gli ombreggia la fronte è tirato all’indietro, perché nulla gli confonda la vista. Considera accigliato la radiografia, la ruota di novanta gradi, la raddrizza, abbassa lo sguardo sul volume che ha davanti. È proprio lui, suo figlio.
Stai studiando?, domanda la Madre. Giorgio solleva il capo, la fissa con un sorriso. Sí, perché? Cosí, chiedevo. Ti stupisci? Credevo fossi al corteo, con gli altri studenti. Tu ci sei andata? Sono uscita dall’ambulatorio mentre passavano e li ho seguiti. Siamo finiti al municipio. Poi sono tornata. Tuo Padre arriva prima, stasera, e non ho ancora preparato niente per cena.
Giorgio ha di nuovo chinato il capo sul libro, assorto, non l’ascolta piú. Da quando studi fino a cosí tardi? Non mi sono accorto dell’ora. Non devi affaticarti la vista. Ci vedo benissimo. Sí, ma non affaticarti lo stesso. Ti preoccupi sempre troppo; e poi, bisogna che mi dia una mossa, se voglio laurearmi in corso. La Madre lo guarda oltre il cono di luce della lampada, ne vede solo i capelli che sono ricaduti a nascondergli il volto. Ma sei già al quarto anno e sei indietro con gli esami del terzo. Come farai a laurearti in corso?
Recupererò.
3.
Il giorno della laurea – una tesi sulla diagnostica radiologica dell’asbestosi – Giorgio indossa un abito grigio acquistato per l’occasione e una cravatta blu a pois bianchi, scelta dalla Madre, che siede in prima fila ad ascoltarlo.
Giorgio parla con scioltezza, enumera i dati epidemiologici, li confronta, trae le sue conclusioni. Molto bene, concede infine lo stesso professor Giuliano; poi, stringendogli la mano, Lei è il figlio di Aguirre, sussurra. La discussione è terminata, manca solo la formalità del conferimento della laurea, ma non ci sono dubbi. Si tratterà d’un centodieci, probabilmente con lode.
Giorgio sorride a Giuliano. Mi sembrava di ascoltare suo padre, dice l’altro. Giorgio annuisce, nel dovuto silenzio. Accanto a lui, la Madre, in tailleur blu, lo guarda sconcertata. Questo pigro figliolo ce l’ha fatta a laurearsi in tempo, e pure bene; non me lo sarei mai aspettata e nemmeno suo Padre, che a un certo punto ha detto Di questo qui non ne faremo niente, e io invece lo sapevo che ci avrebbe dato delle soddisfazioni. Ma cosa gli sarà successo?
Il professor Giuliano si china verso Giorgio. E al futuro ha già pensato? Nel mio reparto c’è sempre posto per un ragazzo di talento. Giorgio tace ancora, un istante di troppo per essere davvero rispettoso. Poi solleva lo sguardo e risponde. Amo la radiologia, dice, e vorrei lavorare in un’azienda meccanica. Una qualsiasi azienda in cui si faccia il controllo radiologico di pezzi e macchinari. La Madre alza le sopracciglia, strattonandolo per un braccio. Ecco, lo sapevo. Ma intanto il collega di patologia medica ha già richiamato l’attenzione del professor Giuliano: un nuovo laureando è seduto di fronte alla commissione e Giuliano, senza aver sentito la risposta, si allontana con un inchino alla Madre e un buffetto alla guancia di Giorgio.
La dottoressa Irma Revelli guarda il figlio, che pare interessato solo ai riflessi lucidi delle scarpe nuove, inglesi, con la mascherina traforata. Poi, in silenzio, lasciano l’aula, escono nella strada assolata e tiepida, e si dirigono verso il caffè dove li attende il Professore. Lo intravedono quasi subito, seduto nel dehors, di fronte al suo Punt e Mes. Gli fa compagnia un uomo elegante, magro, dai capelli brizzolati. Anche dall’altro lato della strada si nota come quell’uomo, che con gesti misurati sorbisce il suo Martini, abbia la palpebra sinistra abbassata, simile a una bandiera a mezz’asta. Nel vederlo, la Madre ha un moto di fastidio. C’è anche l’ingegner Benussi, l’amico di tuo Padre. Il costruttore? Proprio lui, che non so come faccia a stargli simpatico, al Babbo. Sono cosí diversi, in effetti. Altroché diversi, è un disonesto, quello là, un pirata; non dire niente delle tue idee mentre c’è lui, Giorgio, chissà che cosa sarebbe capace di tirar fuori: ne parliamo stasera a cena.
Ne parlano piú tardi, nella sala in penombra. La Madre affetta l’arrosto, mentre il Professore, dopo l’annuncio del figlio, s’è nascosto dietro il giornale. Giorgio tace, il capo chino, e fa palline con la mollica. La Madre depone le fette di carne nei piatti, attenta a non esagerare col sugo, aggiunge il purè di patate e le carote a rondelle. Si osservano con cauta gentilezza. Infine, la dottoressa Irma siede, si taglia un primo boccone, posa la forchetta, Parliamone, allora, della tua idea, sbotta. Giorgio spezzetta il pane. La mia idea è questa, Mamma, ve l’ho già detto. E mi dispiace, ma non intendo cambiarla. Ma che dici, Giorgio, ne sei proprio convinto? Sí, Mamma. Ma ora sei un medico; pensa a tutti gli anni spesi, alla fatica, a quel che direbbero gli zii. Ci penso, Mamma, ma non voglio fare il medico. Ma come, vuoi stare tutto il tempo davanti alle lastre, a rovinarti gli occhi? Proprio tu? Ma caro, insomma, hai sentito Giorgio? Digli qualcosa.
Il Professore abbandona il giornale, lancia uno sguardo all’unico bicchiere di vino concessogli la sera, come cardiotonico naturale, si schiarisce a piú riprese la gola, finché arriva lo squillo del telefono a evitargli quella conversazione. C’è un’urgenza in ospedale, e c’è solo il tempo per un bacio sulla fronte della Madre. Poi il Professore esce, e Giorgio e la dottoressa Irma rimangono in silenzio, davanti ai loro piatti.
La conclusione di tutto, qualche settimana dopo, fu un ritemprante viaggio a Parigi della Madre, mentre il Professore, distrattamente e inaspettatamente, mise in moto conoscenze e appoggi, tra cui l’ingegner Benussi, al fine di trovare l’ambito posto di operaio metalmeccanico.
Vivo tra forme luminose e vaghe che ancora non sono tenebra.
J. L. BORGES
1.
Fa caldo, nella sala raggi dell’officina, un cubicolo di cemento spesso, privo di finestre. Dal soffitto incombe un vecchio ventilatore che smuove appena un’aria densa come le acque del Mekong e solleva lanugini polverose che rimangono per un attimo sospese e poi ricadono.
Nell’officina si producono le fiancate di elicotteri per uso civile, e il controllo di produzione viene effettuato radiologicamente. Giorgio ha abbandonato la catena ed è scivolato inavvertito in sala raggi. Lo affascinano quei lastroni di lamiera, accumulati nel magazzino che ha appena attraversato. Riconosce il loro odore acidulo e fresco, ci gira intorno, ne spia i collaudi, nascondendosi nel buio del laboratorio, immobile e silenzioso come uno scaffale.
Che ci fai, qui?, ruggisce il padrone, voltandosi. Tu devi stare alla catena. Sono in pausa, Capo. E vieni a passarla qui dentro? Mi piacciono le radiografie. E bravo, si fa meno fatica che a imbullonare, vero? Prova un po’ a guardare quella, tu che fai il f...