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Il disperso di Marburg
Informazioni su questo libro
« Il disperso di Marburg... una grande lezione umana, civile e letteraria». Corrado Stajano, «Corriere della Sera» *** «Un'atmosfera di suspense... una "ricerca impossibile" che attraversa con la forza di un romanzo una cruciale zona grigia della nostra storia collettiva». Alberto Papuzzi, «La Stampa» *** «Revelli ha scritto un libro importante, che si legge con commozione... un nuovo gradino nella riconciliazione fra la recente storia tedesca e quella italiana». Jens Petersen, «Frankfurter Allgemeine Zeitung» *** Con tre interventi di Rossana Rossanda, Goffredo Fofi e Jens Petersen.
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9788806183967eBook ISBN
9788858409602Il disperso di Marburg
La leggenda del «cavaliere solitario»
La prima volta che sentii parlare del «tedesco buono», del cavaliere solitario, risale a una ventina di anni fa. Ricordo per filo e per segno come appresi quell’incredibile storia dal sapore di fiaba che doveva insediarsi nel profondo del mio animo per non uscirne piú.
Mi dedicavo, in quei tempi, al Mondo dei vinti, e anche se non volevo piú saperne della mia guerra e della guerra degli altri ero però sempre molto attento al tema delicato e controverso dei rapporti tra le formazioni partigiane e le popolazioni contadine. Non mi bastavano le storie di vita che andavo annotando quando giravo in lungo e in largo la mia provincia, ogni occasione era buona per cogliere al volo una conferma, una notizia.
Incontrai Marco per caso, e senza tanti preamboli lo coinvolsi nel discorso che mi stava a cuore. Gli dissi: «Secondo te, che sei un ex partigiano e un contadino, fino a che punto, in quei venti mesi della malora, la gente di campagna condivideva le nostre scelte?»
Marco avvertí che la mia domanda era insidiosa, e rispettando la regola contadina che consiste nel non dare mai una risposta immediata, istintiva, si rifugiò nella prudenza. «Se la gente di campagna era schierata dalla nostra parte?» si domandò e mi domandò per guadagnare tempo. E intanto mi osservava attentamente, come se attendesse un mio suggerimento, un cenno di risposta. «Era schierata dalla nostra parte, – disse infine, – anche se viveva tra l’incudine e il martello, nella paura continua delle rappresaglie».
Le rappresaglie, questa la molla che spinse Marco a raccontarmi l’episodio piú emblematico che gli suggeriva la memoria.
«Nell’estate del ’44 avvenne un fatto che pochi ricordano e che forse neanche tu conosci», esordí con il piglio sicuro di chi ha finalmente trovato la storia giusta da raccontare.
«Un ufficiale tedesco, tutte le mattine alla stessa ora, usciva a cavallo dalla caserma di San Rocco1, e seguendo sempre lo stesso itinerario raggiungeva la strada che unisce il santuario della Madonna degli Angeli alla cappella della Crocetta. Nei pressi di Tetto Graglia c’è una stradina che scende lungo la ripa e poi si perde nella striscia di terra compresa tra l’altopiano e il greto del Gesso2. Il tedesco imboccava questa stradina, superava il sottopassaggio della ferrovia Cuneo-Borgo3, poi si inoltrava nell’aperta campagna.
Era un uomo tranquillo, sembrava una brava persona. A volte sostava sull’aia della nostra cascina, dove scambiava qualche parola con i bambini. La gente non lo temeva, si era abituata a vederlo comparire sempre alla stessa ora.
Un mattino quel tedesco venne ucciso, non si è mai saputo da chi, poco lontano dalla nostra casa. Il suo cavallo ripercorse il solito itinerario e arrivò, solo, al cancello della caserma. Iniziò allora un rastrellamento che durò l’intera giornata, e meno male che non trovarono il morto, altrimenti sarebbe successo il finimondo. Avrebbero ucciso almeno dieci persone innocenti e bruciato tutte le case dei dintorni».
Non avevo mai ascoltato una storia cosí insolita, cosí estranea alla mia esperienza di guerra. E mentre Marco parlava, altre immagini si affollavano davanti ai miei occhi, come le sequenze rapide di un film muto. Immagini infinitamente piú tristi, piú cupe. Altro che il «tedesco buono»!
Manifestai a Marco il mio stupore, poi lo tempestai di domande che rimasero però senza risposta perché lui non era stato un testimone diretto, parlava per sentito dire. Se è vero che questa storia l’aveva sentita raccontare non una ma cento volte dai suoi familiari e dai vicini di casa, è altrettanto vero che il tempo frantuma e poi disperde la verità, e quel che rimane diventa leggenda, mito.
«Non metto in dubbio una sola delle tue parole. Vorrei però capire meglio come sono andate le cose, – dissi infine a Marco. – Trovami qualcuno che sappia, che ricordi. Un giorno o l’altro mi farò vivo e riprenderemo il discorso».
Non mantenni la promessa. Invischiarmi in un’indagine che non si preannunciava né facile né indolore per verificare che cosa? Se la guerra era giusta o ingiusta? Non ne valeva la pena. Non intendevo ridiventare prigioniero del mio passato, non volevo che le mie ferite mal rimarginate riprendessero a sanguinare come allora. Era meglio dimenticare che ricordare troppo.
«La guerra era la guerra, – mi dicevo, – e in quei venti mesi ogni tedesco ucciso voleva dire una pallottola ben spesa, un nemico in meno». Ma quell’episodio dai contorni incerti era molto di piú di un fatto d’arme, e non riuscivo a esorcizzarlo facilmente.
L’immagine di quel cavaliere solitario che s’intratteneva a scherzare con i bambini mi infastidiva, mi sembrava troppo leziosa per essere autentica. Rivedevo davanti agli occhi i bambini ebrei di Stolbtzj4, ridotti come passeri a cui avessero spezzato le ali, e continuavo a pensare che tutti i tedeschi, e non solo le SS di Stolbtzj, erano bestie, non uomini. Ma questa reazione istintiva, rabbiosa, non mi portava lontano. Non bastava a rimuovere quell’immagine del «tedesco buono», che introduceva una nota di disordine nell’ordine delle mie certezze.
«Forse non erano tutti uguali i tedeschi», mi dicevo nei rari momenti di serenità, ma a denti stretti, come se temessi di concedere troppo a un nemico che meritava solo odio e disprezzo.
Passarono gli anni, ma ogni tanto capitava che quella storia inquietante tornasse ad aggredirmi, ributtandomi nel mio passato.
Tutte le volte che intravvedevo la caserma di San Rocco era come se un filo la unisse al posto dell’imboscata. Avevo trascorso alcuni mesi in quella caserma, nell’inverno 1941-42, prima che ci inviassero sul fronte russo. Ma non mi perdevo nei ricordi di allora. Mi chiedevo invece chi fosse quel tedesco che si era comperato la morte nella lontana periferia di Cuneo, e proprio di fronte a Boves.
Quando la fantasia mi prendeva la mano, mi immedesimavo pericolosamente in quel «disperso», e lo vedevo giovane, ma già segnato dalla guerra, già stanco «dentro» come un vinto. Proprio com’ero io dopo l’esperienza del fronte russo. Ma non appena la pietà sembrava prendere il sopravvento, scattava l’allarme, e interrompevo i miei sogni a occhi aperti.
1 San Rocco Castagnaretta, frazione di Cuneo. Le cosiddette «Casermette funzionali», oggi Caserma Ignazio Vian, distavano tre chilometri da Cuneo e seicento metri dal cuore della frazione di San Rocco, un gruppo di case raccolte intorno alla chiesa parrocchiale. Progettate nel 1939, in previsione della guerra contro la Francia, le «Casermette funzionali» di San Rocco erano rimaste incomplete perché considerate inutili dopo il 10 giugno 1940.
2 Il torrente Gesso. Al di là del torrente, ai piedi del trapezio montuoso della Bisalta, la «città martire» di Boves, semidistrutta prima dalle SS di Joachim Peiper il 19 settembre 1943, poi il 31 dicembre 1943 e il 1° gennaio 1944 da reparti tedeschi impegnati piú in operazioni di strage che di rastrellamento.
3 Borgo: per Borgo San Dalmazzo. Piccolo centro all’imbocco delle valli Vermenagna, Gesso, Stura, a otto chilometri da Cuneo e a cinque da San Rocco.
4 Località della Bielorussia, tra Brest-Litovsk e Minsk, dove la mia tradotta della 46a Compagnia, Battaglione Tiràno, V Alpini, sostò il 26 luglio 1942 durante il viaggio verso il fronte russo.
1986
Il gioco della memoria
La tradizione vuole che ogni 25 aprile, dopo le solite cerimonie ufficiali, la ricorrenza si trasformi in festa con le «bande» che si ricompongono e si ritrovano, una qua e l’altra là, nelle valli partigiane, come per rinnovare un patto di antica amicizia.
Fu proprio un 25 aprile, quello del 1986, che quando meno me l’aspettavo scattò la trappola.
Eravamo in molti a Tetti di Dronero1, un centinaio, e a tutto pensavo, meno che all’episodio del «tedesco buono». Ma quando arrivò l’ora del pranzo qualcosa mi spinse a unirmi a Marco e ai suoi compagni di San Rocco, Oreste, Aldo, Benvenuto2, Giorgio, Franco, Nino.
L’ambiente non si prestava certo a uno scambio sereno di domande e risposte, nell’unica sala della trattoria al brusio iniziale era subentrato il frastuono. Ma aspettai il momento giusto, poi dissi a Marco: «E quel tedesco che andava a cavallo? Ne sono trascorsi degli anni dal giorno in cui mi hai raccontato la sua storia. E i testimoni?» Marco, la cui pazienza era infinita, mi elencò i nomi e i cognomi delle persone che aveva interpellato a suo tempo, poi concluse: «Qualcosa ricordano. Erano e credo siano ancora disposti a parlarne con te. Certo che dopo oltre quarant’anni...»
Coinvolsi anche gli altri ex partigiani di San Rocco nel discorso, e il confronto a piú voci diventò subito vivace, perché tutti conoscevano per sentito dire quell’episodio, e ognuno voleva dire la sua.
Le versioni del fatto piú o meno coincidevano. Ma c’era un punto controverso: era un tedesco la vittima di quell’imboscata, o era un ucraino, un armeno, un georgiano? Perché la caserma di San Rocco era un porto di mare dove si alternavano i reparti piú diversi: reparti in transito da o per la Francia, e reparti specializzati nelle operazioni di rastrellamento, che non appena ultimato il loro compito si spostavano in altre zone d’impiego.
Non era comunque l’identità della vittima il motivo che rendeva animata la discussione, quel militare ucciso rimaneva infatti sfocato sullo scenario dell’imboscata, come una comparsa destinata a rimanere anonima. Era invece il cavallo che balzava insistentemente in primo piano, forse perché era l’unica immagine di vita in quell’episodio di morte.
«Conosco le persone che sanno, – mi disse Nino. – E se chi sa parla, la verità salta fuori». Oreste continuava a ripetere: «Ma che intelligente quel cavallo... Questa storia è un giallo che va risolto».
Tre giorni dopo, in una casa amica nei dintorni di San Rocco, incontravo Luigi e Sandro, i testimoni convocati da Nino.
Luigi prese la parola per primo. «Abitavo qui in San Rocco, – disse, – ma tutte le mattine andavo nei pressi di Tetto Graglia a raccogliere l’erba di nessuno lungo i fossi. L’avrò visto passare almeno una dozzina di volte quel tedesco. Ma forse non era un tedesco, forse era un polacco, un maresciallo polacco».
Un maresciallo, e per di piú polacco? Il dubbio che si riferisse a un altro episodio mi spinse a chiedergli che stagione fosse.
«C’era la segala alta, era il mese di maggio. Alla fine di aprile avevano chiuso la mia scuola, l’Avviamento di via Barbaroux, per metterci delle truppe dentro, cosí potevo andare per erba anche al mattino».
«Guarda che ti sbagli, – si inserí Nino. – Era poco pri...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Il disperso di Marburg
- Perché l’Italia si disfa del passato?
- Il nemico ritrovato
- Il nemico ritrovato
- Il disperso di Marburg
- Il libro
- L’autore
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