La bellezza delle cose fragili
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La bellezza delle cose fragili

  1. 344 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La bellezza delle cose fragili

Informazioni su questo libro

Kweku Sai è morto all'alba, davanti al mare della sua casa in Ghana. Quella casa l'aveva disegnata lui stesso su un tovagliolino di carta, tanti anni prima: un rapido schizzo, poco piú che un appunto, come quando si annota un sogno prima che svanisca. Il suo sogno era avere accanto a sé, ognuno in una stanza, i quattro figli e la moglie Fola. Una casa che fosse contenuta in una casa piú grande - il Ghana, da cui era fuggito giovanissimo - e che, a sua volta, contenesse una casa piú piccola, la sua famiglia.
Ma quella mattina Kweku è lontano dai suoi figli e da Fola. Tra loro, adesso, ci sono «chilometri, oceani, fusi orari (e altri tipi di distanze piú difficili da coprire, come il cuore spezzato, la rabbia, il dolore calcificato e domande che per troppo tempo nessuno ha fatto)». Perché il chirurgo piú geniale di Boston, il ragazzo prodigio che da un villaggio africano era riuscito a scalare le piú importanti università statunitensi, il padre premuroso e venerato, il marito fedele e innamorato, oggi muore lontano dalla sua famiglia? Lontano da Olu, il figlio maggiore, che ha seguito le orme del padre per vivere la vita che il genitore avrebbe dovuto vivere. Lontano dai gemelli, Taiwo e Kehinde, la cui miracolosa bellezza non riesce a nascondere le loro ferite. Lontano da Sadie, dalla sua inquietudine, dal suo sentimento di costante inadeguatezza. E lontano da Fola, la sua Fola. Ma le cose che sembrano piú fragili, come i sogni, come certe famiglie, a volte sono quelle che si rivelano piú resistenti, quelle che si scoprono piú forti della Storia (delle sue guerre, delle sue ingiustizie) e del Tempo.
L'esordio di Taiye Selasi è un romanzo su una famiglia contemporanea, un affresco potente e vertiginoso del mondo globalizzato (non a caso è stata proprio lei a coniare il termine, subito entrato nel linguaggio comune, di «afropolitan» per descrivere quei figli dell'immigrazione degli anni Sessanta e Settanta, brillanti, privi di complessi d'inferiorità, lontani da ogni stereotipo «etnico»), ma anche un'elegia, delicata, intima, sulla perdita e sulla bellezza. *** «Fatevi scappare La bellezza delle cose fragili e vi perderete uno dei migliori nuovi romanzi della stagione». «The Economist» *** «Questo libro sembra contenere il mondo intero, non lo dimenticherò mai». Elizabeth Gilbert, autrice di Mangia, prega, ama

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806208028
eBook ISBN
9788858410486

Parte terza

1.

Lamptey dorme in equilibrio in riva all’oceano, a meno di un metro dalla spuma, con le gambe incrociate e gli occhi chiusi, i palmi delle mani sulle rotule, la schiena dritta, il cane randagio in attesa, paziente, gli occhi fissi sull’acqua, il mento sulle zampe. L’oceano che si muove, pigro, avanti e indietro, arrivando fino a un punto nei pressi delle zampe per poi scivolare via, pochi centimetri e basta di movimento netto, indeciso, ridisegna i confini per poi rotolare indietro. Forse l’acqua non desidera venire avanti, in un atto di conquista, possedere un pezzo di terra piú grande in riva al mare? Sottomettere un altro po’ di sabbia bagnata? A quanto pare no. Avanti, indietro – cambiamenti effettivi di pochi centimetri, e le nuvole, annoiate da questo spettacolo, cominciano a sbadigliare.
Entrano rivoli di luce, debole, grigia, senza colore, la cui sola caratteristica distintiva è il non essere buio. Una stella, che lampeggia lentamente, vivace per contrasto, avvisa il cane in attesa che è arrivata l’alba. Il cane scatta sulle zampe, si stiracchia nella posizione di adho mukha svanasana, poi lecca la sua scia fino ai piedi dell’uomo addormentato.
Il giardino è vuoto, a parte le sue ombre. L’uomo sente ma non vede perché gli occhi ormai non sono piú buoni. Il problema sono le cataratte, questo lo sa, ma non gliene importa. Importa tantissimo al chirurgo, invece, che si offre di aiutarlo. (Un amico, un’operazione completamente gratuita, per il signor Lamptey questo e altro. Il chirurgo è stupido, per quanto ostinato e gentile. Una combinazione insolita, ostinazione e gentilezza. Una persona insolita, il chirurgo).
Gli uccelli.
Sono raggruppati nella fontana, e praticamente ricoprono tutta la statua. Tubano piano e frullano le ali. Una decina, una ventina, trenta addirittura. Un convegno. Entra in giardino e prima sente, poi vede.
– Buongiorno, – dice agli uccelli, inchinandosi educatamente. Loro tubano piano e frullano le ali. – Davvero? – dice, leggermente scosso e molto addolorato.
Il cane piagnucola triste e si siede ai suoi piedi.
Una luce lampeggia nella «casa con un buco in mezzo». Una forma che si vede dalla finestra, rotonda, che si muove lentamente. La donna, giovane, grassoccia, con il viso che sembra un cuscino con dei bottoni al posto di occhi, naso e bocca, altrettanto gradevole e morbida. Gli piace, questa donna. Non c’è niente che non si possa amare in lei. Di solito gli piace avere qualcosa che non gli piace, perché trova noiose le cose piacevoli, ma non ha piú l’età, è troppo vecchio per questo sforzo, e troppo giovane per affettare tedio. Quando lui avrà novant’anni quella donna non le piacerà piú. La prenderà in giro per il suo pessimo inglese e per le natiche quasi indipendenti che si muovono una per volta; dirà che il paese non potrà mai andare avanti finché la gente comune si muove in questo modo. Senza una linea. Cosce e spalle senza ambizione che ballonzolano, senza spigoli, un’ameba, una forma primitiva di vita. Come l’oceano. Lui la guarda muoversi nell’ombra e sente per lei qualcosa di morbido come le sue forme.
Arriva in cucina dove accende un’altra luce. Rimane ferma qualche istante, una nuvola dietro il vetro. Arriva alla porta della veranda e si ferma, poi apre la porta ed esce con un bicchiere in mano, latte e Milo. Piange, e questo lui lo vede grazie alla luce della luna, il seno trema leggermente sotto il raso, ma sembra non accorgersi di tutti gli uccelli nella fontana, né dell’uomo vicino al mango, a piedi nudi, vestito con una stoffa color zafferano. Torna dentro e spegne tutte le luci, la cucina, la camera da letto, un’ombra di luce.
Lui tira fuori la sua stuoia dalla base del mango e si siede. Padma asana.
Le quattro e cinque.

II.

Sono in volo verso il Ghana; la testa di Taiwo è sulla spalla di Kehinde, la testa di Kehinde sulla testa di Taiwo, prima di svegliarsi e separarsi. Olu sta seduto dritto, con le braccia sui braccioli, la gamba che ballonzola leggermente, la mano di Ling sulla coscia. Sadie, dietro di loro, senza nessuno accanto, con la testa sul finestrino, le gambe sotto il sedere, guarda svogliatamente le nuvole, anch’esse svogliate; l’alba è una linea piatta, rosso vivo su sfondo nero.

III.

Fola porta dentro il raccolto, dal giardino alla cucina, è ancora buio: non riusciva a dormire ed è andata fuori a tagliuzzare un po’ in giro, nella terra spugnosa, umida per l’alba, fiori gocciolanti e terriccio; posa i rametti sul ripiano della cucina e si pulisce le mani. Riempie quattro piccoli vasi con la giusta quantità d’acqua, infila due ramoscelli in ogni vaso e mette due vasi in ogni camera. Su ogni comodino, cosí. E sta per andarsene quando improvvisamente pensa: Le camere non bastano.
Ci sono solo queste due piccole, a parte la sua camera da letto, una carenza che fino a quel momento non aveva percepito, perché aveva sempre pensato (o meglio sognato), che se fossero andati tutti insieme a farle visita, le ragazze si sarebbero prese il letto matrimoniale, e i ragazzi i due letti gemelli. Ora che c’è Ling, è anche una questione di galateo. Lei sa che sono adulti, francamente a lei non importa nulla, sarebbe felice se loro cercassero un po’ di sollievo dal dolore ballando insieme per riprendere fiato, ma lui è sempre cosí scrupoloso, Olu, sempre cosí preciso, fa sempre una preghiera di ringraziamento prima di cena, va in chiesa la domenica e compagnia bella (non che lei sia una pagana, Gesú è un caro amico per lei, ma uno con cui parlare proprio cosí, come un amico, un amico saggio e gentile dall’aria distaccata, il suo Gesú non è quello di Olu, un uomo severo col muso lungo e i capelli lunghi) e lei non vuole farlo sentire a disagio, in imbarazzo, anche perché Olu non ha mai portato Ling a casa sua. Olu sta meglio in camera con Kehinde, meno motivi di vergogna e impaccio al momento di coricarsi, meno sofferenza, ma questo lascia in sospeso la questione di dove mettere Ling perché non può certo far dormire un ospite sul divano. Metterla insieme a Taiwo potrebbe essere un gesto quasi di scortesia, perché Taiwo tende a essere sgarbata con le altre donne (non che lei stessa se la cavi meglio con il genere femminile: le donne di solito la trovano troppo distante o troppo orgogliosa, insufficientemente brillante, e lei si stufa delle loro tragedie, dei cosmetici, delle storie d’amore, dei musi lunghi, dei capelli lunghi), e Fola ci tiene che Ling si senta parte della famiglia, per quanto possa essere insolito, nel loro caso, il concetto di «famiglia». Meglio in camera da letto, nel letto matrimoniale con Sadie – Sadie a cui piacciono le donne, magra, carina, come Ling; Sadie a cui piacciono le cose da femmine, prestarsi il sapone, condividere segreti –, ma Taiwo, senza un letto, si sentirebbe esclusa. E non potrebbe forse sentirsi a disagio, Sadie, in imbarazzo, a dividere il letto con una donna del genere, dal momento che ha preso a comportarsi come Olu, in modo un po’ puritano, e non ha ancora detto espressamente ciò che è chiaro ormai da un pezzo? Non che le importi qualcosa di chi amino i suoi figli – o dove, se è per questo: nel letto per gli ospiti o sul divano –, l’importante è che siano felici, o perlomeno non troppo infelici, nelle condizioni in cui lei li ha messi al mondo, eccetera eccetera, e non peggio. Se alla piccola piacciono le ragazze o questa particolare ragazza, questa Philae (che sembra una persona allegra e un po’ svagata e quindi incapace di spezzare il cuore a qualcuno in modo irreparabile), allora benissimo, perfetto, ma tutto questo come si traduce in termini di ripartizione delle stanze, si chiede Fola. La piccola è in grado di dormire tranquillamente insieme a una donna? O potrebbe prendere questa cosa come un tentativo da parte di Fola di farle capire che lei sa. O piuttosto, che lei pensa di sapere. Forse lei non sa niente di Sadie, in realtà – Sadie, e non la piccola, non deve chiamare «piccola» sua figlia. Ha vent’anni, come ha detto lei stessa, li compie…
– Ieri –. Lo dice in un soffio ad alta voce, con una fitta in alto a sinistra.
Ieri era il suo compleanno.
Ha dimenticato il compleanno di Sadie.
Si copre la bocca, scuote la testa. Proprio quel giorno. Ride non sapendo cos’altro fare, esce dalla stanza e torna in cucina.
Non importa. Sadie dormirà con lei nel letto grande; peggio per Olu e i suoi problemi nei confronti del sesso. Sta per chiamare Amina, ma poi si ricorda che è troppo presto. Prende la farina e comincia a preparare una torta.

IV.

– Perché tua madre si è trasferita in Ghana? – gli chiede Ling. – Pensavo che fosse nigeriana.
Olu pensava che Ling stesse dormendo. Le sorride, cambia posizione. – Per cambiare un po’ aria.
Dietro di loro, Sadie, che ascoltava, dice sottovoce: – Per colpa mia.
Taiwo, dal sedile esterno, sbircia fuori dal finestrino. – Non sei tornata, – dice Kehinde, guardando anche lui.
– L’ho detto ad alta voce? – chiede subito Taiwo, con uno scatto all’indietro. Kehinde non aveva intenzione di disturbarla. Scuote la testa. – Perché è una cosa che mi capita, – borbotta lei accigliata, strofinandosi la fronte.
«Semplicemente sento quello che pensi», dice lui nella sua testa.
– No, non sei in grado di leggermi nel pensiero, – aggiunge lei, allungandosi per tirare giú la tendina del finestrino, e chiude gli occhi.

V.

Un aereo che passa.

2.

Fola fa un salto al MaxMart per prendere le candele. La cassiera le fa un sorriso scialbo. – Sí, signora. Da questa parte –. Guarda le candele e ride. – No, non questo tipo. Quelle piccole, per una torta di compleanno.
– Abbiamo solo queste.
Arriva in aeroporto, innervosita da tutto quel silenzio. Accende la radio. Che sembra non funzionare. Poi all’improvviso dal rumore di fondo sbuca un gospel, una nota stonata, un suono derelitto come uno stridulo grido di aiuto. Cambia stazione. Mormoni evangelici. Cambia di nuovo. La Bbc, tutte brutte notizie. Spegne la radio e guarda il traffico. Il solito ingorgo sulla nuova Spintex Road. Abbassa il finestrino e guarda in direzione dell’incrocio dove c’è un vigile che a quanto pare sta solo peggiorando le cose; grida: – Bra, bra, bra, stop, – con gesti contraddittori, perché il nuovo semaforo non funziona (non c’è corrente). Tira su il finestrino e comincia a canticchiare, senza rendersene conto, Great Is Thy Faithfulness, un paio di battute, poi si ferma. Come mi è venuta?, pensa perplessa, dando un colpo di clacson. Proprio quel canto religioso che lui cantava sempre prima di andare al lavoro, intonatissimo; ma se lei faceva qualche commento su come cantava bene, lui scuoteva la testa, ridendo, «Sono solo onde sonore», e stop.
L’atrio degli arrivi è pieno di gente che torna in patria per il Natale e sbarca col cappotto e tonnellate di bagagli. Fola si fa largo tra la folla di quelli che aspettano, non brusca, ma decisa, con fare tipicamente nigeriano. E rimane lí ferma. Sa di essere in anticipo di una trentina di minuti, ma non ce la faceva ad aspettare sola in casa con la torta in cucina, già pronta, come se anche la torta stesse aspettando qualcosa. Meglio lí: la vicinanza ad altre persone, la folla, gli esseri umani, le zie che piangono alla vista dei nipoti prodighi mezzi addormentati, che si fanno largo tra la folla per afferrare, abbracciare, piangere, dare il benvenuto, il solito spettacolo della felicità delle donne anziane. Meglio lí, a sudare, circondata dalle chiacchiere, dal basso costante dei cuori che battono in attesa, centinaia di cuori, tutti insieme che aspettano il ritorno a casa di una persona cara. Corpi. Familiari. Fola pensa ora che non ha mai detto a Kweku quanto fossero familiari quelle cose per lei, e i pensieri vagano come fanno nel caldo mentre si aspetta in piedi, fermi, immersi nel tempo immobile, un vuoto in cui, vedendo che c’è spazio, entra il Passato. Qualche movimento, leggero, che allontana dall’attimo presente e allora via, comincia a vagare e dal giorno presente ritorna a quel giorno:
all’aeroporto, lo stesso aeroporto:
– Attenta! Siamo in Ghana!
– Caro mio, io sono di Lagos.
E non è la prima volta che vengo qui.
Perché non gliel’aveva detto? Non era certo un segreto. Lui sapeva che lei era fuggita all’inizio della guerra, che aveva lasciato Lagos per poter finire gli studi e si era presentata alla Lincoln University con i jeans a zampa d’elefante, ma non le aveva mai chiesto come, come ci era arrivata in Pennsylvania, come se la vita di Fola fosse cominciata nel momento in cui era cominciata la loro vita insieme; e lei non gli aveva mai offerto risposte nottetempo, dopo che lui aveva fatto le sue immersioni e la stringeva a sé, tutto bagnato. All’epoca le sembrava una cosa normale stare lí, viva nel presente e morta nel passato, con quell’uomo nel suo letto, nel suo cuore, nel suo corpo, ma senza che lui entrasse nei suoi ricordi né lei in quelli di lui. Era quasi come se avessero fatto un giuramento – che non coinvolgeva solo loro, ma tutta la loro cerchia alla Lincoln, intelligentissimi nipoti di servi, brillanti immigrati fuggiaschi –, un giuramento per difendere il loro comune diritto di rimanere in silenzio (e quindi di non rimanere le persone che erano un tempo, quegli individui in frantumi, calpestati, carichi di vergogna, che vivevano nei racconti e morivano nel silenzio). Un giuramento tra persone che avevano sofferto. Ma valeva anche tra persone che si amavano?
Fola non lo sa. Forse. Questo lei non gliel’ha mai detto. Il dolore, per esempio. «Basta», diceva, e lui interpretava questo «basta» come «fermati», e infatti si fermava: riemergeva piano in superficie, tornava su, pensando che lei era esausta quando in realtà era il contrario: lei temeva che lui potesse stancarsi. Lei soffriva perché non le bastava mai. Non le bastava, mai, non si saziava mai di lui, di nulla: di aprirsi, di essere aperta, di aspettare di essere riempita, ma non lo diceva, lo abbracciava e basta, distesa in silenzio, mentre lui le dormiva accanto, soddisfatto, quando invece lei ne voleva ancora. Perché non gliel’ha detto? Questa come anche altre cose. Perché non ha mai detto di sí quando le chiedeva di accompagnarlo a quelle feste a Cambridge con i colleghi in pantaloni cachi, i cubetti di formaggio sugli stuzzicadenti, le cameriere immigrate e il bambino d’ordinanza che saltava fuori dopo i drink per eseguire Für Elise alla perfezione e poi andare di corsa a nanna. Sí, erano noiosi. Ma la cosa piú straziante era vederlo cercare l’approvazione di uomini di gran lunga inferiori a lui, vederlo con i suoi pantaloni cachi, uguali a quelli degli altri, stirati di fresco, con gli occhietti sgranati nella speranza che anche lui un giorno si sarebbe sentito cosí a suo agio nel mondo. Perché non gliel’ha detto? «Non devi cercare di fare colpo su di loro, – avrebbe potuto dirgli, – la tua bravura parla da sola». Invece di «i piatti», o «Sadie ha il saggio di danza» o «Olu ha bisogno di aiuto per lo stand della fiera della scienza». Invece del silenzio, protettivo, distruttivo, come parassiti che rosicchiano un fiore, i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La bellezza delle cose fragili
  4. Albero genealogico
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza
  8. Ringraziamenti
  9. Il libro
  10. L’autrice
  11. Copyright