Tutti in classe
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Tutti in classe

Un maestro di scuola racconta

  1. 152 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Tutti in classe

Un maestro di scuola racconta

Informazioni su questo libro

Ci sono cose che i bambini non dicono ai genitori. Ecco perché esistono i maestri. Non conoscono Giovanni Falcone né Paolo Borsellino, e non sanno perché il 25 aprile è festa. Ignorano chi sia il presidente della Repubblica, anche se la sua foto è appesa in tutte le aule, e sulla Seconda guerra mondiale hanno letto poche righe nei libri di testo, o al massimo visto qualche film. In compenso sono maghi del computer, amano le storie avventurose e non si stancano mai di riflettere, ascoltare, sperimentare, dire la loro. Sono i nostri figli.
Con una scrittura appassionata e divertente, Alex Corlazzoli traccia per la prima volta il ritratto di questa generazione. Dalla storia imparata a ritmo di Gaber alle lezioni di democrazia, uno dei maestri piú rivoluzionari d'Italia ci trascina tra i banchi di scuola, per svelarci cosa sognano e cosa pensano i nostri bambini, cosa sanno e cosa ignorano del mondo che li circonda. E per farci scoprire che, in fondo, abbiamo sempre qualche cosa di nuovo da imparare. Anche su di loro.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806214807
eBook ISBN
9788858410738

Educazione tecnologica

«Maestro, sei su Facebook?» È una delle prime domande che sento quando entro in una nuova classe. Una volta che i miei allievi sanno come mi chiamo, se ho una moglie e dove abito, la domanda è inevitabile e serve a comprendere se faccio parte dei maestri moderni o di quelli della vecchia guardia. Un quesito che giro subito ai miei piccoli «uomini e donne», che mi stanno davanti con gli occhi sgranati, incuriositi dall’arrivo di una sorta di marziano per la scuola italiana: maestro maschio, giovane, con iPhone, iPad e quotidiano in mano. «Voi usate internet? Avete Facebook?» Ci vuol poco a scoprire le loro carte: tutti o quasi hanno un personal computer, i piú piccoli sanno cos’è Facebook, vorrebbero già chattare a otto anni con i loro amici, «mettere su» – come dicono nel loro gergo – le fotografie del compleanno o delle vacanze. Ma non si può. Per ora guardano il profilo della mamma con invidia.
In quinta elementare, il film cambia. Per parlare con loro posso usare due linguaggi: la lingua italiana – che, nonostante le critiche dei detrattori, i bambini conoscono allo stesso modo delle generazioni precedenti – o quella di internet. Qualche volta ho «accesso» ai loro sms o al mondo segreto dei bigliettini. Per capire o per rispondere ai loro messaggi devo impostare la mia testa su un nuovo canale: 4ever, abbreviazione dell’inglese forever («per sempre»); c6?, omofono della domanda «ci sei?»; cmq, contrazione di «comunque»; k contrazione di «che».
I figli della rete sono nati nell’epoca 2.0, poco dopo l’entrata di internet nelle nostre case: il rilascio dei primi browser è datato 1994 (Netscape Navigator) e 1995 (Internet Explorer). Il social network piú diffuso al mondo, Facebook, è sbarcato nel pianeta degli adulti quando i miei primi alunni avevano sei anni, nel 2004. Chi è nato nel terzo millennio non ha mai fatto una telefonata da una cabina. «La prima volta che ho chiamato qualcuno, l’ho fatto con il cellulare», mi spiega Maruska, che ha dieci anni. I miei alunni, poi, non hanno mai messo le dita su una Olivetti Lettera 22, ma usano pollice, indice e medio per digitare parole su un touch screen. Hanno imparato a leggere l’ora sul cellulare, e non certo sulle sveglie o sugli orologi.
Quando abbiamo fatto un laboratorio di educazione all’immagine andando in giro per il piccolo paese di Bottaiano a fotografare i volti rugosi di alcuni anziani e l’antica Villa Obizza, ormai abbandonata, i bambini sono arrivati con una moderna macchina digitale, suscitando nel maestro un po’ di nostalgia per la vecchia Polaroid che scattava le istantanee.
Il mangianastri, le musicassette, i dischi, persino i cd sono materiale da museo per la generazione Duemila. Ho provato a portare in classe i vecchi vinili della colonna sonora di Furia cavallo del West, Mazinga Z, Heidi, e il mio mangiacassette arancione: i miei allievi li hanno guardati come se fossero reperti archeologici trovati negli scantinati della scuola. «Maestro, come facevi ad ascoltare la musica con quel coso? Si sente troppo male. E poi queste canzoni ci sono sull’iPad!» Dall’inizio della nuova era, lettori mp3, memorie flash e masterizzatori dvd hanno segnato il declino del supporto magnetico. La prima generazione di iPod è stata lanciata nel 2001, e da allora l’ascolto della musica ha subito una vera e propria rivoluzione.
Quanto alle cartine e alle mappe, i miei allievi le vedono solo a scuola, appese al muro. Per muoversi con mamma e papà, per capire dov’è una città o dove andranno in vacanza, usano il navigatore.
Mentre in aula discutevamo i dati diffusi sul quotidiano «La Stampa» in merito all’uso di internet, Maria ha disegnato su un foglio una sorta di schermo con una serie d’icone: messaggi, musica, iBooks, internet, Google, impostazioni, Tg4, foto, video, giochi, Facebook, note, radio, biblioteca, documenti, calcio, film, negozio, Mc (che sta per McDonald’s), calendario, immagini, YouTube, email, Safari, iTunes. In un foglio mi ha descritto la sua vita, ha riassunto il mondo della sua generazione.
Nell’esistenza di chi è nato nel terzo millennio è entrata anche la mela di Steve Jobs, soprattutto dopo il 2007, data del lancio del primo iPhone: se per mio padre, cresciuto nel secondo dopoguerra, e per molti miei colleghi, arrivati nel mondo della scuola negli anni Settanta, quel simbolo non ha un particolare significato, per i miei allievi è sinonimo d’innovazione. La sanno riconoscere, è come l’emblema della Nike. E avere un telefono o un tablet con il marchio di Steve Jobs «fa figo».
L’oggetto dei desideri dei miei alunni è l’iPad. Le letterine rivolte a Santa Lucia e Babbo Natale non contengono piú richieste di giochi in scatola o dell’ultimo modello di macchina telecomandata né di Playstation o Xbox 360, ma preghiere per vedere sotto l’albero l’ultima versione dell’iPad. Uno dei miei allievi mi ha fatto leggere una sua letterina a Babbo Natale:
Caro Babbo Natale,
mamma e papà mi hanno detto di scriverti questa lettera perché quando sarai nella Italia potrai passare anche a casa nostra. Tra l’altro ci siamo trasferiti da poco nell’appartamento nuovo in via Roma e se non trovi la strada puoi chiamare il papà. Quest’anno mi sono comportato bene, lo dice anche la maestra Francesca. Ho preso bravissimo in matematica e immagine, quasi sempre bravo in italiano. E non ho quasi mai litigato con mia sorella. Voglio che mi porti anche a me il aipad come quello che ha papà. Ho visto al supermercato dove andiamo con la mamma e la zia il SuperPaquito che ha anche tutti i giochi.
Chissà quante missive di questo genere avrà ricevuto Babbo Natale nel 2012: tutti pazzi per i baby tablet. Un’idea che sembra avere già avuto un gran successo in America, dove Vinci, il modello della Samsung, ha conquistato anche i bimbi da zero a cinque anni. A inventarlo è stato il professor Dan Yang dopo aver osservato sua figlia di pochi anni manovrare con naturalezza uno smartphone.
«Ora papà ha il suo iPad e io ho il mio», spiegano i miei allievi di terza. Lo vogliono per sentirsi già adulti. D’altro canto, quando si è bambini, si gioca a fare i grandi. E nel Duemila ci si diverte a fare le mamme e i papà non piú con il carrello della spesa e la finta cassa, ma con l’iPad. I miei ragazzi salutano con particolare entusiasmo il mio arrivo in classe perché, oltre al quotidiano e alla borsa, sottobraccio ho proprio questo oggetto, che diventa protagonista delle mie lezioni e dei momenti di svago. Spesso mi chiedono di giocare a Fifa 2013. Confesso: l’ho scaricato per curiosità e poi mi sono ritrovato a divertirmi con loro.
Mi sono chiesto molte volte: faccio bene a giocare a scuola con l’iPad insieme ai miei ragazzi? La risposta è stata sí. Ho deciso di esserci. Al contrario di quei maestri che all’intervallo fanno i carabinieri in un angolino dell’atrio, io gioco con loro. E la differenza sta proprio nella preposizione «con». I bambini se ne accorgono: «Maestro, tu parli come noi e ti metti a giocare».
Cambia poco se ci divertiamo insieme con i mattoncini della Lego o con Fifa 2013. L’importante è non lasciarli soli. Scelte che mi sono costate qualche vicissitudine, come quando, dopo la mensa, i miei alunni erano riversi sulla cattedra urlando: «Dài, maestro, pressa, pressa, tira, dài!» Improvvisamente ho sentito: «Buongiorno». Era la vicedirigente con il direttore amministrativo della scuola. Per fortuna hanno capito la mia filosofia. Piú o meno.
Le mie prime esperienze da maestro risalgono al 1999. Facevo il giornalista in un quotidiano locale e l’insegnante per accumulare punteggio al concorso d’abilitazione. In redazione erano già arrivati i personal computer, la connessione aveva cambiato il modo di fare giornalismo. A scuola ancora non si vedevano i cellulari. Nei laboratori d’informatica giravano ancora i cd. Le chiavette Usb non esistevano.
Sette anni dopo entravo nel mondo della scuola con un contratto annuale da precario: i miei primi alunni avevano nove anni. Li ho visti crescere, cambiare grazie anche alla tecnologia. Li ho educati a usare l’email e i social network, in un laboratorio d’informatica dotato di personal computer donati da un’azienda che non li usava piú, senza lavagna multimediale, con una connessione da epoca dei Flintstones. Ho visto sotto i miei occhi l’evoluzione da homo sapiens sapiens a homo sapiens online.
I primi segnali sono arrivati quando i genitori o i parenti hanno iniziato a regalare il cellulare ai bambini per la comunione o per la cresima. Tra il grande sconcerto degli insegnanti, i piccoli cybernauti arrivavano in classe con modelli di Nokia, Ericsson e Samsung ormai scomparsi dalla faccia della terra. Oggi, in una classe quinta delle elementari, su diciannove allievi solo cinque non hanno il cellulare. Ne hanno persino uno personale. «Ma tu, Valeria, che cosa lo usi a fare?», ho chiesto a una bimba di quarta. «Maestro, ma io sono fidanzata, mando sms». Chiaramente stiamo parlando, nella maggior parte dei casi, di smartphone o videotelefonini. A dieci anni può capitare che un bambino abbia già cambiato un paio di telefoni passando dal modello base a quello piú tecnologico, con chat e touch screen.
In quarta o quinta elementare portano il cellulare in classe, lo nascondono in cartella. Lo usano al parco quando escono a giocare. Conoscono alla perfezione le sue funzioni. Quando permetto, nei momenti di pausa dalle lezioni, di usare il mio iPhone, Giorgia scatta fotografie, accede a Google, ascolta la musica; Matteo mi chiede se ho qualche gioco; Luca insiste perché scarichi l’ultima applicazione. A volte mi guardano stupiti e mi chiedono: «Come, questa non ce l’hai?» Esattamente come facevo io con le figurine.
È capitato con WhatsApp, un’applicazione per iPhone con la quale si possono mandare messaggi gratuitamente. Non sapevo che esistesse finché Tommaso, che ha dieci anni, mi ha illuminato sulla via della Apple, informandomi di questa novità. Sono le strategie che i ragazzi usano per riuscire a messaggiare tra loro senza bruciarsi la paghetta. Ed ecco svelato l’arcano che i genitori non capiscono: i loro figli come fanno a essere sempre con le dita sullo schermo senza spendere troppo di ricarica?
Il telefonino viene soprattutto utilizzato per assolvere alla sua funzione basilare: chiamare ed essere chiamati dai genitori. Basta vedere i piccoli in gita: quando vanno da Ricengo a Crema (a cinque chilometri dalla scuola), chiamano mamma e papà, li informano su dove sono, su cosa stanno vedendo: non si sa mai che arrivi l’uragano Katrina proprio mentre sono «lontani» da casa. Merendina e cellulare non mancano mai come viatico.
Per il resto, i bambini mandano sms, fanno fotografie, giocano e ascoltano la musica con il telefonino. È tutto virtuale: non c’è piú nessuno che stampa una foto, che compra un disco o scrive una lettera a mano. Quando vedo le maestre d’italiano che insegnano a scrivere con precisione ed eleganza in corsivo, penso sempre che forse, prima o poi, non servirà piú, perché nessuno prenderà in mano carta e penna.
Per i primi alunni che ho avuto, e che oggi sono all’inizio delle superiori, lo smartphone è una parte essenziale della vita. Loro messaggiano, chattano, cercano informazioni, scaricano e fanno video, ascoltano musica, fotografano, «cuccano», si innamorano, si odiano, si mandano a quel paese, si danno appuntamenti, grazie al telefonino. Non lo mollano mai. Quando si alzano, ancor prima di mettere i piedi giú dal letto, accendono il cellulare. Anzi, la maggior parte non lo spegne nemmeno durante la notte: potrebbe arrivare un sms di tale importanza da cambiare la vita. Mentre fanno colazione, partono i primi messaggi.
Non so se vi è mai capitato di prendere uno degli autobus o dei treni che questi giovani usano per andare a scuola. Tratta Crema-Treviglio: circa venti minuti di viaggio. Ho visto ragazzi che non staccavano gli occhi dal cellulare un solo istante. Riescono persino a camminare con il telefonino in mano senza inciampare, senza finire contro un palo.
Una fotografia realistica, tuttavia, non può far passare l’idea che la maggior parte dei miei ex alunni viva solo di cellulare. Non è cosí. Mi ritrovo di tanto in tanto a far lezione di giornalismo, di educazione alla legalità o di altro ancora alle superiori. In uno degli ultimi incontri in un istituto tecnico, ho notato che su quaranta ragazze solo due o tre non potevano fare a meno di digitare l’ennesimo sms, magari al fidanzato, mentre mi ascoltavano.
Quando guardo la mia classe e ripenso al mio primo giorno da maestro, posso dire con certezza che in sette anni è avvenuta una rivoluzione sociale: i bambini hanno arricchito non l’immaginario ma la loro vita reale con nuovi prodotti tecnologici. Disegnano cellulari e personal computer. È come se fossimo su un altro pianeta. Come se stessimo facendo un viaggio, ma senza sapere con precisione dove ci porterà. Alla guida della navicella spaziale ci sono i bambini, che hanno intuito il loro compito: trasportarci in una nuova era.
Avere uno smartphone, nella maggior parte dei casi, significa poter accedere da subito al meraviglioso mondo di internet. Questa parola, che non esiste nel mio vecchio vocabolario d’italiano DeAgostini, stampato nel 1982 – lo tengo sulla scrivania accanto al dizionario dei sinonimi e contrari –, è nel dna della generazione Duemila.
Chi è nato nel 1975, come me, ha visto i personal computer sbarcare negli uffici. Il mio primo pc è stato un Commodore 64, commercializzato dal 1982 al 1993. I primi articoli, nel 1995, li battevo su una macchina da scrivere elettronica dell’Olivetti, per poi spedirli via fax. Non avrei mai pensato di poter inviare un testo dall’altra parte del mondo in pochi secondi mentre sono in metropolitana o in spiaggia. Da piccolo non riuscivo a immaginare che un giorno avrei fatto a meno della cornetta e che avrei avuto un telefono con il quale acquistare direttamente un viaggio aereo, ascoltare musica, scattare fotografie e girare video.
La generazione dei miei allievi è cresciuta con internet. Nelle case degli italiani è arrivato in ritardo, ha bussato nel 1996 ed è entrato tra il 1999 e il 2000. La generazione 2.0 sta crescendo con un dizionario diverso rispetto a quello del passato: email, social network, link, YouTube, acquisti online sono termini che fanno parte del linguaggio quotidiano.
A otto anni hanno già ben chiaro a che cosa serve quello schermo che papà si porta sempre appresso come fosse una vecchia agenda. «C’è sempre meno lavoro, e mio padre lo cerca su internet. Sai, maestro, puoi anche trovare moglie con Google. Basta che metti maestro, carino, giovane, con la barba, cerca fidanzata».
C’è anche chi, nel mostrarmi le proprie capacità tecnologiche, precisa: «Io compro i vestiti in rete». È chiaro che i bambini non lo possono fare. Ma quando vedono mamma e papà acquistare oggetti online, si immedesimano. All’intervallo li ho visti giocare a fare acquisti su un immaginario computer, che, in realtà, era lo schienale della piccola sedia di legno. Altro che la vecchia scatola di Indovina Chi?
I bambini ci guardano. Imparano, smontano e rimontano le informazioni che arrivano sui loro banchi da almeno tre generazioni diverse: quella di mamma e papà, quella dei maestri autodidatti dell’era tecnologica e quella dei fratelli piú grandi, i primi figli dell’epoca 2.0.
È normale che un ragazzino di dieci anni abbia un account email. Mario, un mio alunno di quinta, mi scrive, allegandomi un link: «Maestro, senti che belle le tre sigle piú famose di Dragon Ball. Ci vediamo». Ho ascoltato le magnifiche musiche del cartone animato piú amato dalla generazione Duemila rispondendo con un: «Mi piace. Davvero belle». C’è anche chi usa l’email per darmi comunicazioni urgenti alle nove di sera passate: «Maestro, io non so cosa fare perché devo ancora studiare due pagine di storia, ma stasera non ho voglia. Come faccio? Se ti va bene, visto che venerdí andiamo in gita, le due pagine le posso studiare per la settimana prossima? Quello che voglio chiederti è se tu venerdí interroghi. A proposito, non dirlo a nessuno». Chiaramente nemmeno ai genitori. Segreto mantenuto: maestro muto come un pesce… E in quarta una mia alunna mi scrive: «Ma quando dici che mi comporto male, che disturbo, è la verità? Ciao, a lunedí!»
Alunni di oggi e di ieri mi contattano per sapere come sto. Mi chiedono consigli, consulenze sulla scuola, mi raccontano cosa hanno fatto nel weekend, mi avvisano dell’incidente di un amico o di un problema che hanno avuto. Qualcuno mi manda addirittura un messaggio per farmi sapere che le medie sono piú belle delle elementari. È il loro modo di comunicare, di restare in contatto, di condividere. Chi usa il loro linguaggio è nel loro mondo. Chi non ha l’email, chi non risponde, è fuori. È su un altro pianeta.
Oggi la sfida è proprio questa: essere parte di loro. Essere gli eredi di Gutenberg e allo stesso tempo dialogare con i figli della rete. Le nostre generazioni non possono restare separate. Bisogna colmare un divario che in Italia esiste ancora. E a mettere una toppa al digital divide sembrano essere proprio i piú giovani, i bambini. Non è raro sentire genitori che chiedono al figlio di dieci o undici anni: «Come si fa ad andare su internet con questo aggeggio?» Oppure: «Manda l’sms tu, che sai usare il telefonino».
Tuttavia la quota di case che dispone di un accesso a internet in Italia resta ancora bassa, poco piú di una su due. Sembra impossibile nel Duemila, ma anche in questo caso il divario sociale si fa sentire e ha ripercussioni sui bambini: le famiglie piú tecnologiche sono quelle in cui il padre è un dirigente, un imprenditore, un libero professionista, un quadro o un impiegato. In quelle case ci sono l’iPad e l’Adsl. Ci si connette per lavoro, per vedere film, per imparare, per viaggiare, per scoprire una mostra. Agli altri bambini non manca il personal computer, ma non è detto che lo usino per navigare.
Quando affido loro un compito come studiare il capoluogo dell’Emilia Romagna andando sul sito del Comune di Bologna, c’è sempre qualcuno che alza la mano e mi ricorda: «Maestro, io a casa non ho internet». Sono bambini che rischiano di essere discriminati dagli altri per deficit tecnologico. E c’è anche chi, al contrario, è una sorta di baby Bill Gates, e a otto anni fa da maestro a mamma e papà. Si può intuire durante le riunioni con i genitori. Mi è capitato di chiedere loro l’email per comunicare i preventivi di una gita. «La mia casella di posta elettronica è quella di mio figlio», mi ha risposto una mamma. Oppure: «Non la so. Domani se la faccia dare da Luigi».
Ma che cosa fanno su internet i nostri ragazzi?
Basta stare una settimana con chi è nato tra il 1996 e il 2003 per capire che non possono rinunciare a Facebook, il social network piú diffuso al mondo che, assieme ai videogiochi, è il fulcro della vita della generazione Duemila. Lo stupefacente mondo di Zuckerberg strega tutti: dai bambini agli adolescenti non c’è nessuno che non sappia cosa sia, che non abbia il desiderio di avere un profilo o che non ce l’abbia già, nonostante l’età...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Tutti in classe
  3. Premessa
  4. Campanella d’entrata
  5. Educazione alla cittadinanza
  6. Storia
  7. Ricreazione
  8. Geografia
  9. Italiano
  10. Mensa
  11. Religione
  12. Educazione tecnologica
  13. Educazione all’affettività
  14. Uscita
  15. Consigli di lettura per grandi e piccini
  16. Ringraziamenti
  17. Il libro
  18. L’autore
  19. Copyright