No, non è questa la storia di due innamorati. E nemmeno di una società per azioni: ma solamente quella di due cani segugi dal pelo fulvo.
Vissero sino a qualche tempo fa vicino al mio paese, in una casa presso il bosco, isolata e tranquilla, dove non giungono rumori di motociclette o di altre diaboliche macchine. Solo di notte, tre volte alla settimana, si sente volare alto un aeroplano di linea che ogni tanto accende e spegne i lumi come una lucciola in un campo di segala. Ma il suo rumore non disturba; è familiare anzi, e, quando il vecchio Cristiano lo sente, smette per un attimo di tirare nella pipa dicendo:
– Eccolo –. E mentalmente gli manda l’augurio di buon viaggio.
Eravamo dopo la Liberazione e i tre fratelli, Piero, Giacomo e Bruno, consegnati i mitra e le bombe all’autorità, ripresero la scure. Ritornarono al bosco, questa volta, per lavorare da uomini liberi. Lavoravano e intanto ripensavano alla caccia. In quegli anni appena passati i cacciati non erano stati gli animali del bosco e perciò, questi, avevano prolificato indisturbati. Sovente, lungo i sentieri, schizzavano le lepri; e i caprioli, fattisi sicuri, non s’impaurivano piú tanto alla vista dell’uomo.
Un meriggio, mentre il sole incombeva alto sul nero degli abeti trasudanti resina, i tre fratelli si sdraiarono sul muschio a riposare nell’ombra. Non parlarono di partigiani e di fascisti ma bensí di lepri, caprioli, urogalli e piú spesso di cani. Ricordavano i due segugi della casa, uccisi dai tedeschi durante una perquisizione: non erano riusciti a trovar uomini e allora, tanto per sparare e per impressionare avevano ucciso, ridendo, i due cani davanti ai piedi del vecchio padre.
– Dobbiamo trovare un cane o due per quando si aprirà la caccia, – diceva il piú vecchio dei fratelli masticando un fuscello. – È un peccato lasciar uccidere dagli altri tutti questi animali che girano per i boschi.
Loro, quasi, si sentivano i tenutari di quei boschi, vi erano nati dentro e vi avevano combattuto perché i tedeschi non li distruggessero rapinando il legname.
– Già, – diceva il piú giovane, – ma dove li trovi adesso due cani pronti per la caccia? E poi, chissà cosa costeranno –. Intanto frugava con uno stecco tra le ceneri del fuoco ormai spento per cavarne una bracia e accendere la sigaretta.
– Sta’ zitto cucciolo –. Cosí lo chiamavano perché era il piú giovane anche se in effetti era il piú alto e muscoloso dei tre. – Sta’ zitto! Che ne vuoi sapere tu di cani se quando noi andavamo a caccia non eri ancor nato?
Il giovane continuò a frugare tra le ceneri anche dopo aver trovato la bracia. Giacomo riprese:
– Domenica andremo a cercare per i paesi qui attorno e qualcosa speriamo trovare. O sette o diciassette i cani bisognerà averli.
– Giusto, – confermò il piú vecchio.
La domenica successiva, invece di venire a messa in paese, partirono per tre direzioni differenti.
Allora non c’erano né corriere né motociclette e i chilometri si dovevano fare a gambe e ognuno, secondo il piano prestabilito, andò per contrade e paesi vicini dove era noto che una volta esistevano compagnie di segugisti. Ma purtroppo la guerra aveva ucciso anche qui e chi possedeva un cane lo teneva caro.
Alla sera, i tre fratelli si ritrovarono in casa stanchi e sfiduciati. Solo il piú vecchio aveva avuto una mezza promessa da Toi Ambrosini chiamato Bufera, gestore di una trattoria sulla strada per la pianura. Si trattava di una cucciolina di pochi mesi nata da Falco e Selva, due cani puri ma oramai vecchi.
La domenica successiva andarono a prenderla: era ben poca cosa per una caccia che si presentava laboriosa e abbondante, ma non c’era da scegliere. A guardarla risaltavano subito le gambe gracili e tremanti, il corpo smilzo e poco sviluppato. Ma aveva anche il muso lungo e affilato, le orecchie lunghe e mobili e soprattutto gli occhi vivi e intelligenti, non proprio comuni per un cane della sua razza.
La presero fiduciosi di quegli occhi e dopo aver contrattato il prezzo, dopo aver bevuto un litro a confermare il contratto, il piú vecchio dei tre la sollevò per la collottola e la ripose in un vecchio zaino. La piccola non guaí. Buon segno.
A casa si abituò subito. La misero in stalla, al caldo, su paglia asciutta vicina alla vitella. Qualche volta sgattaiolava attraverso la porta socchiusa ed entrava in cucina a farsi coccolare; specialmente alla sera quando ritornavano dal lavoro. Di solito andava a posare la testa sulle ginocchia del piú vecchio quando stava mangiando e lo fissava con quegli occhi parlanti come fosse in adorazione di lui. Ma Piero faceva poche moine. Quando aveva finito di mangiare puliva il piatto con un pezzo di mollica e lo porgeva delicatamente alla cagnetta, e bastava che le accarezzasse un po’ la testa con la mano odorosa di resina che vedevi la cucciola fremere tutta per l’emozione.
La chiamarono Alba a speranza di giorni nuovi dopo tanti anni neri. In luglio di quell’anno toccò di morire a Nardin Rodeghiero chiamato Gambe, grande appassionato quanto sfortunato cacciatore solitario. Cosí il suo segugio bastardo di due anni, sul quale aveva tanto sperato e fantasticato, rimase senza padrone. Non era questo un gran bel cane, anzi, piuttosto rozzo e grossolano. Il corpo massiccio e poco slanciato, le orecchie troppo piccole, gli occhi parevano tonti, la coda grossa e arcuata. In compenso, aveva un torace poderoso, garretti solidi e robusti, zampe larghe e dure: tutto l’insieme dava l’aspetto di un animale robusto e sano forse appunto perché non di razza pura. Ma gran ladro era; lo sapevano le case dei vicini, la macelleria del paese e il pizzicagnolo che al venerdí esponeva il baccalà. Sapeva entrare nelle case: si appoggiava all’uscio con le gambe anteriori, abbassava la maniglia, spingeva cautamente la porta con il muso, guardava dentro e, se c’era via libera, era un attimo vederlo uscire con in bocca qualcosa di proibito.
Diventò la disperazione della povera vedova perché le lamentele dei vicini gli portarono l’intimazione della guardia comunale: o pagare la multa, o ucciderlo, o venderlo.
La notizia arrivò sino alla casa vicino al bosco e un sabato sera il piú giovane venne in paese dalla vedova per sentire se fosse disposta a venderlo. Questa ben volentieri lo cedette, e senza alcun compenso. Disse solo: – Fatemi mangiare una volta lepre.
Bruno lo legò con una funicella e lo condusse a casa. Quando arrivò era sul tramonto; gli altri due fratelli lo avevano visto venire da lontano e gli si avviarono incontro. Rimasero male e non dissero niente. Il vecchio padre, seduto nell’orto a fumar la pipa sotto il ciliegio, sbruffò forte il fumo e brontolò tra i denti: – Che razza di bestia ci porti? – Disse «bestia» e non cane e non animale.
Questa bestia, appena entrata in cucina, annusò negli angoli e pulí rapidamente la coppa del cibo che avevano preparato per Alba. Annusò ad una ad una tutte le persone senza dimostrare alcun sentimento e quando Piero slegò Alba e la fece entrare in cucina, la bestia l’annusò ben bene da tutte le parti e finalmente scodinzolò.
Quella sera stessa deliberarono di chiamarlo Franco perché dimostrava d’essere furbo, libero e sfacciato.
Una domenica mattina, sul finire dell’agosto – mancavano quindici giorni all’apertura della caccia –, condussero Alba e Franco fino all’orlo del bosco e li misero con il muso dove rincasando a sera avevano visto uscir il lepre al pascolo. Li misero proprio con il muso sul sentiero e tenevano basse le teste per farli annusare. Poi li liberarono dal guinzaglio. Alba fiutò, sbuffò, scodinzolò e saltellò lí attorno come per giocare, quindi diede un paio di guaiti e partí difilato sulla traccia. Franco la seguí abbaiando. Bene, erano a posto.
Dopo una mezz’ora Alba ritornò fremente, stupita e stanca; zoppicava sulle esili gambe non ancora mature per l’età e non ancora use al bosco. Franco, invece, ritornò di lí a due ore con un palmo di lingua a penzoloni ma non affatto stanco e con le zampe intatte come avesse sempre corso sul muschio.
I tre fratelli erano contenti, non avevano bisogno di altri cani.
Nei giorni che precedettero l’apertura, ogni sera, a turno, prendevano la bicicletta e pedalavano per strade sassose e, per quanto possibile, impervie, facendosi seguire dai due segugi per allenarli. Franco correva avanti e indietro, a destra e a manca, facendo arrampicare sugli alberi tutti i gatti che incontrava. Dimostrava di essere mai stanco: un demonio scatenato era. Alba metteva fuori un palmo di lingua e non si allontanava mai dalla bicicletta. Quando rientrava si buttava sfinita sotto la tavola.
Cristiano, il padre, seguiva con interesse i figli e i cani in queste azioni preparatorie e intanto, dal volo e dal numero degli uccelli, pronosticava un’abbondante stagione di caccia.
Venne la vigilia. Fucili e cartucce erano pronti da un bel po’: quella sera misero tutto in ordine sul tavolo in cucina e andarono a dormir presto.
Ma gli uomini non dormirono. I tre si rivoltavano nei letti e le ore non passavano mai: avrebbero voluto morire quella sera e resuscitare al mattino. E il vecchio ricordava tanti anni addietro quando era lui ad aspettare l’alba per andare a caccia con i suoi fratelli diventati ora ricchi al di là del Gran Mare. Che a quest’ora forse, nella loro comodità meccanica rimpiangevano la povera casa vicino al bosco.
Si alzarono che era ancor buio e l’ampia cucina fu ripiena della loro impazienza. I cani fiutavano qualcosa di nuovo ed erano eccitati e frementi quanto i loro padroni. Il vecchio tirava come un dannato nella pipa spenta e ogni tanto andava all’uscio a guardare verso il nero del bosco e verso il cielo a sentire l’aria.
Al primo albore, mentre Bruno, il piú giovane dei tre, teneva i cani al guinzaglio, gli altri due si avviavano per postarsi nel bosco agli incroci dei sentieri.
I due cani tiravano forte, specialmente Franco, e Bruno, a volte, doveva trattenerli con forza irrigidendo i muscoli delle gambe. Ma Alba e Franco continuavano ugualmente a tirare anche se il collare li soffocava, anche se la voce tentava di calmarli. Quando giunse il segnale convenuto li lasciò liberi. Dapprima stettero un attimo immobili, stupiti ed increduli e come volessero accumulare energie; poi Alba, come già un mese prima, saltellò quasi volesse giocare, quindi annusò la rugiada, alzò la testa e, immobile con il corpo, la girò attorno fiutando alto. Franco partí giostrando tra gli abeti ficcando ogni tanto il muso nel sottobosco. Ad un certo punto Alba fermò la testa, aspirò avidamente dalle narici aperte e dilatate: fremette dalle labbra ai polpastrelli e scagnando levò il lepre.
Lo inseguí subito abbaiandogli con voce esile e staccata. Giunse anche Franco. Da quel momento iniziò un concerto a due voci che per anni, nell’autunno, echeggiò per i boschi e le valli della zona. Franco aveva una voce dal timbro baritonale e possente, rapida e inesauribile; Alba come di soprano acuto: esile staccata e stanca da sembrar svogliata. Infilarono cosí il sentiero e sparirono dentro il bosco.
Il lepre davanti a loro correva a balzi lunghi ed elastici come se nelle gambe posteriori avesse delle potenti molle che scattavano, lanciandolo avanti, ogni volta che toccava terra. L’anima di Bruno andò dietro alla muta e intanto stringeva e accarezzava il fucile.
Poco dopo si sentí lo sparo. Uno solo. Buono. E dopo giunse il grido di Piero: Mortoo!! e il silenzio dei cani.
Aveva sentito la muta avvicinarsi. Con il corpo immobile portò lentamente il fucile in linea di sparo e vide quindi dal sentiero venirgli incontro il lepre: grosso, con le orecchie ritte, a balzi rapidi e lunghi ché subito dietro gli erano i cani.
Come si accorse di qualcosa d’insolito al crocicchio dei sentieri si era fermato bruscamente puntandosi sulle gambe anteriori e abbassando il posteriore. Tentò di voltare nel fitto e sentí il piombo spezzargli le ossa.
I cani gli furono subito sopra e anche il terzo dei fratelli. Alba annusò e con il muso fece rotolare sul terreno quel corpo inerte dall’odore cosí forte. Franco lo addentò e sentí le ossa scricchiolargli sotto i denti. Piero a stento glielo strappò di bocca. Vennero anche gli altri due e il piú giovane, a pieni polmoni, rivolto verso la casa gridò: Mortooo!! ché lo sentisse anche il vecchio padre che certamente aveva già udito lo sparo. Quindi Piero levò il coltello, aprí il lepre, ne estrasse gli intestini e li divise in parti uguali per i due cani che avidamente aspettavano qualcosa.
Quattro lepri scovarono quel giorno Alba e Franco e quattro lepri capitombolarono sotto i colpi precisi dei tre fratelli. Ma il quarto, prima di venire a tiro, fece molta strada. Parecchi chilometri. E Franco s’era tanto allontanato per inseguirlo che nemmeno piú s’udiva il suo abbaiare. Solo a tratti, portata dal vento, veniva la sua voce da oltre i dossi dei boschi.
Allora si diedero il grido, e decisero di ritornare. Avevano un lepre ciascuno. Alba, stanca morta e tremando sulle gambette esili e gracili, li seguiva passo passo sul sentiero del ritorno quando improvvisamente si sentí piú vicino l’abbaiare di Franco. Lestamente si postarono ma Franco arrivò loro incontro sfiatato e sfiancato, mogio mogio e senza il lepre. Aveva perso la traccia qualche centinaio di metri prima dove il lepre, che era riuscito a prendere una certa distanza, aveva fatto il nodo. Ossia aveva intrecciato la sua corsa in varie direzioni e, infine, con un lungo balzo s’era acquattato. Rimisero i fucili in spalla e s’avviarono decisamente verso casa. Erano le dieci passate e la caccia, per quel giorno, era da considerarsi finita. I cani camminavano dietro a loro; ad un tratto Alba si fermò, annusò come la prima volta e corse decisa dentro il bosco: guaí tre volte e il lepre schizzò fuori. Il piú giovane, che era davanti, fu il piú lesto a sparare e quello fu il quarto a cadere. Un maschio con i baffi lunghi e grigi, duri come setole di porco.
Il vecchio aspettava sulla porta di casa e fumando la pipa guardava verso il bosco. Li vide venire dal sentiero e chiamò verso la cucina da dove venivano rumori di pentole e di fuoco. Disse:
– Ehi donna, guarda i tuoi figli!
Prima che cadesse la neve novantaquattro lepri e tre caprioli avevano finito la loro corsa: fermati per sempre dai fucili dei tre fratelli. Erano segnati giorno per giorno sul lunario appeso dietro la porta della stalla, sotto il quadro di sant’Antonio abate.
In ottobre vennero le beccacce, in novembre la brina, in dicembre le cesene e la neve. Quella notte un silenzio fondo e malinconico avvolgeva tutte le cose; si sentiva la neve sul bosco, sui prati, sul tetto della casa, nelle stesse stanze tiepide e una cosa dolce e intima arrivava sin dentro il cuore. Il vecchio si alzò per primo, spalancò la porta della cucina: gli uccelli nelle gabbie sbatterono le ali, una cesena zirlò. Aprí le braccia e respirò profondo: la neve venne a posarsi sulle sue mani e sul capo.
E incominciò il lungo inverno. In questa stagione un odore buono e sano impregna la casa e i suoi abitatori; in una stanza attigua alla cucina s’accumulano trucioli d’abete e mastelli di legno che gli uomini lavorano. Le pile di varie misure si alzano fin sotto il soffitto e, quando raggiungono il carico d’una slitta, vengono caricate e portate al paese per la spedizione. Non ne esce un buon guadagno ma il tempo passa lesto ed è bello sentirsi tra le mani il legno pulito e nitido e vedere i trucioli che saltano vivi sotto i coltelli affilati e sentire l’odore di resina nel naso e la voce calda del vecchio che racconta della sua guerra. Storie vecchie, ché oramai le sanno anche i muri. Ma è bello sentire una voce che racconta. Alba e Franco dormivano acciambellati tra i trucioli e ogni tanto alzavano la testa per ascoltare o andavano a sfregarsi or contro le gambe di uno ora dell’altro.
I tre fratelli, oltre alla caccia, avevano un’altra passione: correre sugli sci. Ogni giorno, per qualche ora, calzavano gli sci da fondo leggeri e stretti e si rincorrevano, come giocando, per i prati e i boschi. Divennero bravi e incominciarono a gareggiare e a vincere. La pista passava vicino alla casa: saliva proprio lí davanti, costeggiava l’orto, sfiorava il bosco e correva via veloce sulla neve cristallina e secca. Quando c’erano le gare i due vecchi, con Alba e Franco, stavano sull’uscio della cucina per vederli passare. Li scorgevano ancora da lontano e dall’andatura distinguevano uno dall’altro; sparivano poi nella valletta, sbucavano dal bosco e salivano su. Il vecchio controllava i tempi sulla sveglia e si dimenticava persino di accendere la pipa lasciando che i fiammiferi gli bruciassero le dita. Quando passavano vicino diceva sottovoce: Forza. La vecchia non diceva niente. Alba e Franco correvano loro incontro, li seguivano per la pista e abbaiavano come per incitarli a correre piú forte e a vincere. Forse i cani pensavano che traccia fosse mai quella che i loro padro...