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Come le società scelgono di morire o vivere

  1. 584 pagine
  2. Italian
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Come le società scelgono di morire o vivere

Informazioni su questo libro

Piú di mille anni fa alcuni Vichinghi, guidati da Erik il Rosso, partirono dalla Norvegia e si stabilirono in Groenlandia. Lí fondarono colonie, dissodarono la terra, allevarono animali e costruirono chiese fantastiche. Perché quasi cinque secoli dopo se ne persero le tracce? E perché sparirono molti altri popoli del mondo? Lo spettacolo delle rovine delle antiche civiltà ha in sé qualcosa di tragico. Popoli un tempo ricchi e potenti sono scomparsi, magari nel volgere di pochi anni, lasciando come testimonianza solo qualche romantico masso sparso nella giungla. In questo saggio Diamond cerca di capire come i collassi del passato abbiano potuto verificarsi, e si chiede se la società contemporanea sia in grado di imparare la lezione, evitando disastri analoghi nel futuro. Il punto di partenza è un approfondito esame dei casi di chi non ce l'ha fatta, dai maya agli anasazi, dagli abitanti dell'isola di Pasqua a quelli dell'Australia. Che lezioni trarne? Siamo davvero in pericolo? Le risposte di Collasso sono equilibrate e mai catastrofiche, ma comunicano tutta l'urgenza di scelte non piú differibili, se vogliamo continuare ad ammirare con serenità le rovine di chi ci ha preceduto.

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Informazioni

Parte seconda

Il passato

Capitolo secondo

Il crepuscolo degli idoli di pietra

I misteri della cava. Storia e geografia dell’isola di Pasqua. Uomini e risorse alimentari. Capi, clan e cittadini comuni. Piattaforme e statue. Scolpire, trasportare, innalzare. La foresta scomparsa. Conseguenze sulla società. Gli europei e i misteri. Perché era fragile l’isola di Pasqua? L’isola di Pasqua come metafora.
Nessun altro luogo che ho visitato mi ha fatto un’impressione piú spettrale di Rano Raraku, la cava di pietra dell’isola di Pasqua dove furono scolpite le famose statue gigantesche. Per cominciare, l’isola è il luogo abitabile piú isolato del mondo. Le terre piú vicine sono le coste del Cile, che si trovano 3700 chilometri a est, e le isole polinesiane del gruppo di Pitcairn, 2100 chilometri a ovest. Quando nel 2002 ci sono andato in aereo partendo dal Cile, il volo è durato piú di cinque ore, interamente trascorse a sorvolare l’immensa distesa del Pacifico. Al tramonto, quando ho finalmente avvistato dall’oblò quel briciolo di terra, fiocamente illuminato dalla luce del crepuscolo, ho tirato un sospiro di sollievo: ero molto preoccupato e mi chiedevo se saremmo stati in grado di trovare l’isola prima di notte e se il nostro aereo avrebbe avuto abbastanza carburante per tornare in Cile, in caso avessimo mancato il bersaglio, oltrepassandolo senza vederlo. È difficile immaginare che un’isola come quella di Pasqua possa essere stata scoperta e colonizzata dagli esseri umani prima dell’arrivo, negli ultimi secoli, dei velieri europei.
Rano Raraku è un cratere vulcanico di circa 550 metri di diametro; vi si accede attraverso un sentiero che dal bassopiano che circonda il vulcano sale ripido fin sull’orlo della bocca, per poi ridiscendere, sempre ripidamente, verso il lago paludoso situato sul fondo del cratere. Oggi nessuno vive nelle sue vicinanze. Lungo il sentiero, sulle pareti sia esterne sia interne del cratere, si incontrano 397 statue raffiguranti, in modo stilizzato, un torso umano maschile senza gambe e dalle lunghe orecchie. Le statue misurano, per la maggior parte, dai 4,5 ai 6 metri, anche se la piú grande è alta 21 metri (piú di un palazzo di cinque piani), e pesano dalle 10 alle 270 tonnellate. Si possono scorgere i resti di una strada, un tempo usata per il trasporto delle statue, che fuoriesce dal cratere passando attraverso una stretta gola a forma di V nella parte bassa dell’orlo del vulcano. Da qui si irradiano verso nord, sud e ovest, in direzione delle coste dell’isola, altre tre strade larghe piú di 7 metri e lunghe fino a 14,5 chilometri. Lungo queste strade si trovano altre 97 statue, che sembrano essere state abbandonate durante il trasporto fuori dalla cava. Sulla costa, e talvolta anche nell’interno dell’isola, si trovano circa 300 piattaforme di pietra, un terzo delle quali un tempo sorreggevano (o erano collocate vicino a) altre 393 statue. Fino a pochi anni fa le statue non erano in posizione eretta, ma giacevano tutte al suolo; molte parevano essere state fatte cadere apposta, con l’intenzione di separarne la testa dal busto.
Dall’orlo del cratere ho potuto scorgere la piattaforma piú vicina e piú larga (chiamata Ahu Tongariki), su cui nel 1994 l’archeologo Claudio Cristino ha ricollocato le statue cadute, per mezzo di una gru in grado di sollevare piú di 50 tonnellate. Cristino mi ha spiegato che il compito si è rivelato arduo anche con l’aiuto di quel moderno macchinario, visto che la statua piú grande di Ahu Tongariki pesava 88 tonnellate. La popolazione polinesiana che abitava un tempo l’isola, però, non possedeva gru, ruote, macchinari, strumenti di metallo, animali da traino o altri mezzi per trasportare ed erigere le statue, e poteva contare soltanto sulla forza dei propri muscoli.
Le statue che sono rimaste nella cava si trovano a diversi stadi di realizzazione. Alcune sono ancora tutt’uno con il sostrato roccioso in cui venivano scolpite; sono già abbozzate ma con i dettagli delle orecchie e delle mani ancora mancanti; altre sono terminate e separate dalla roccia, e giacciono distese sulla china del cratere al di sotto della nicchia da cui sono state ricavate; altre ancora si trovano rizzate in piedi. L’effetto spettrale è dato dall’impressione di trovarsi in una fabbrica abbandonata all’improvviso e per misteriose ragioni dai suoi operai che, gettati via gli attrezzi, hanno lasciato le statue nello stadio di realizzazione in cui si trovavano. Sparpagliati a terra si trovano ancora gli strumenti di pietra (picconi, trapani e martelli) con cui veniva realizzato il lavoro. Intorno alla statua ancora attaccata alla roccia si può vedere la buca in cui prendevano posto gli scalpellini, e sono visibili delle tacche di pietra a cui probabilmente si appendevano le zucche svuotate per conservare l’acqua da bere. Alcune statue sembrano essere state spezzate o sfigurate deliberatamente, come se gruppi di scultori in lite tra loro si fossero messi a farsi dispetti a vicenda. Sotto una è stato trovato l’osso di un dito umano, probabilmente frutto della disattenzione di uno dei trasportatori. Chi scolpí le statue, anche a costo di evidenti fatiche? In che modo quei massi giganteschi di pietra furono trasportati in giro per l’isola e alzati in piedi? Perché, alla fine, tutte le statue furono buttate giú dal piedistallo?
I molti misteri dell’isola di Pasqua si presentarono subito agli occhi del primo europeo che vi mise piede, l’esploratore olandese Jacob Roggeveen. Egli avvistò l’isola il giorno di Pasqua (che quell’anno cadeva il 5 aprile) del 1722, e la battezzò con il nome che le sarebbe rimasto. Partito dal Cile con tre grandi navi e arrivato dopo diciassette giorni di navigazione nel Pacifico, senza aver incontrato alcuna terra, Roggeveen si domandò come avessero mai fatto i polinesiani che lo accolsero sull’isola a raggiungere un posto cosí remoto. Oggi sappiamo che per arrivare da est, a partire dalla piú vicina isola polinesiana, ci si impiega altrettanto tempo. Ma Roggeveen e i successivi visitatori europei constatarono con sorpresa che gli isolani possedevano solo piccole e inaffidabili canoe, lunghe non piú di 3 metri e in grado di trasportare soltanto una o al massimo due persone. Nelle parole dell’olandese:
Le loro imbarcazioni sono fragili e malfatte. Sono messe insieme con tante piccole assi e all’interno sono rivestite di tavole di legno leggero, che essi legano abilmente insieme con delle fibre attorcigliate molto sottili, ricavate dalla pianta di cui ho parlato sopra. Ma siccome non sanno come rendere impermeabili le giunzioni, perché non conoscono la tecnica e non hanno materiali adatti, le loro canoe non tengono l’acqua, e sono costretti a passare metà del tempo a sgottare.
Come è possibile sopravvivere a un viaggio per mare di due settimane e mezzo con simili imbarcazioni, portando con sé soltanto sementi, polli e acqua potabile?
Al pari di tutti gli occidentali che in seguito hanno visitato l’isola, me incluso, Roggeveen si scervellava per capire come fossero state erette quelle enormi statue. Per citare ancora una volta il suo diario: «Le immagini di pietra ci fecero grande meraviglia, perché non riuscivamo a capire come questo popolo, sprovvisto di legno spesso e robusto necessario alla costruzione di un qualsiasi strumento meccanico, e completamente privo di funi resistenti, fosse stato capace di erigere tali effigi alte 9 metri e larghe in maniera proporzionata alla loro altezza». Roggeveen aveva visto giusto: qualunque metodo gli indigeni avessero usato, avevano avuto bisogno di legno robusto e funi resistenti ricavate da grandi alberi. L’isola da lui visitata, tuttavia, era una terra desolata senza neanche un albero o un arbusto che superasse i 3 metri di altezza: «All’inizio, da una certa distanza, avevamo creduto che l’isola di Pasqua fosse un deserto, poiché avevamo scambiato per sabbia la sua erba ingiallita, il fieno e gli arbusti inariditi e bruciati; il suo aspetto devastato non potrebbe fare altra impressione che quella di una singolare povertà e aridità». Che cosa era accaduto a tutti gli alberi che un tempo dovevano esserci stati? Per scolpire, trasportare e innalzare le statue ci volevano molti uomini, che dunque dovevano vivere in un ambiente sufficientemente ricco da poterli sostentare. Il numero e la dimensione delle statue, di per sé, fanno pensare a una popolazione molto piú numerosa di quella incontrata dai visitatori europei tra Otto e Novecento, pari a poche migliaia di persone: che cosa era accaduto a tutti gli altri? E soprattutto come si nutrivano, dato che sull’isola visitata da Roggeveen c’erano soltanto insetti e qualche gallina domestica? La passata presenza di una società complessa si deduce anche dal fatto che le risorse dell’isola sono variamente distribuite sul suo territorio: la cava di pietra è situata nei pressi del versante est; il tipo migliore di pietra per costruire utensili si trova a sud-ovest; le spiagge migliori per la pesca sono localizzate a nord-ovest; infine, il terreno agricolo migliore si trova a sud. L’estrazione e la distribuzione di tutte queste risorse richiedeva sicuramente un sistema sofisticato di gestione economica: come si è potuto sviluppare in una zona talmente povera e desolata, e che cosa ne è stato di quella organizzazione?
Tutti questi misteri hanno fatto scrivere fiumi di inchiostro per almeno tre secoli. Molti europei non riuscivano a credere che i polinesiani, «semplici selvaggi», avessero potuto creare le statue o quelle piattaforme di pietra cosí ben costruite. L’esploratore norvegese Thor Heyerdahl, restio ad attribuire tali capacità a popoli provenienti dall’Asia attraverso l’Oceano Pacifico, sostenne che l’isola di Pasqua era stata invece colonizzata da evolute società provenienti da est, ovvero da indiani sudamericani che, a loro volta, furono civilizzati di là dall’Atlantico dalle società piú evolute del Vecchio Mondo. La famosa spedizione del Kon-Tiki di Heyerdahl e gli altri suoi viaggi in zattera avevano lo scopo di provare che tali contatti transoceanici preistorici erano stati possibili, e di avvalorare la tesi che vedeva affinità tra le piramidi dell’antico Egitto, le colossali strutture architettoniche in pietra dell’impero inca nel Sudamerica e le gigantesche statue di pietra dell’isola di Pasqua. Il mio interesse verso l’isola di Pasqua è sorto piú di quarant’anni fa dalla lettura del libro di Heyerdahl, con il resoconto delle sue avventure e la sua romantica interpretazione della storia di quest’isola. Mi pareva allora che quelle idee fossero davvero avvincenti. Qualche anno dopo lo scrittore svizzero Erich von Däniken avanzò un’ipotesi molto piú radicale: poiché era convinto che in passato astronauti extraterrestri avessero visitato piú volte la Terra, dichiarò che le statue di Pasqua erano l’opera di alieni dotati di avanzate tecnologie, che rimasero arenati sull’isola e che furono infine salvati.
Le spiegazioni piú recenti e piú attendibili preferiscono concentrarsi sui picconi di pietra e sugli altri attrezzi trovati inequivocabilmente a Rano Raraku, piuttosto che su ipotetici arnesi spaziali. Oggi pensiamo che le statue siano state erette dagli antenati dei polinesiani che ancora abitano sull’isola, piuttosto che dagli incas o dagli egiziani, di cui non si hanno tracce. Questa versione della storia, ricostruita alla luce di piú recenti ricerche, è romantica ed emozionante almeno quanto quelle delle zattere di Heyerdahl o degli extraterrestri; ed è molto piú significativa per noi, grazie ai paralleli che si possono tracciare con il mondo moderno. È la storia ideale per dare inizio a questa serie di capitoli sulle società passate, visto che è il caso piú prossimo, tra quelli a noi noti, a un disastro ecologico «puro» che si è realizzato in completo isolamento.
3. L’Oceano Pacifico, Pitcairn e l’isola di Pasqua.
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Pasqua è un’isola vulcanica dalla forma triangolare, originatasi a partire da tre vulcani che emersero dal mare, in stretta prossimità l’uno all’altro, in periodi differenti e che sono rimasti inattivi per tutto il tempo dell’occupazione umana dell’isola. Il vulcano piú vecchio, Poike, eruppe circa 600 000 anni fa (o forse 3 millioni di anni fa, secondo un’altra tesi) e forma ora l’angolo sudorientale, mentre la successiva eruzione di Rano Kau formò l’angolo sudoccidentale. Circa 200 000 anni fa, infine, il Terevaka, il vulcano piú giovane situato all’angolo settentrionale, eruttò la lava che ora copre il 95 per cento della superficie dell’isola.
Ha un’estensione di 171 chilometri quadrati e un’altitudine massima di 509 metri, niente di eccezionale secondo gli standard polinesiani. Il profilo montuoso dell’isola è prevalentemente dolce e privo di quelle valli profonde che caratterizzano ad esempio le Hawaii. A eccezione dei pendii scoscesi dei crateri e dei coni di scorie vulcaniche, ho constatato che su Pasqua è possibile camminare con sicurezza e in linea dritta quasi dappertutto, mentre alle Hawaii e alle isole Marchesi un tale tipo di percorso mi avrebbe condotto velocemente giú per un dirupo.
La posizione subtropicale alla latitudine di 27° sud (approssimativamente alla stessa distanza dall’equatore di Miami e Taipei, che però sono a nord) conferisce all’isola di Pasqua un clima temperato, mentre la recente origine vulcanica è la ragione del suo suolo fertile. Di per sé, questa fortunata combinazione di caratteristiche vantaggiose avrebbe dovuto rendere l’isola di Pasqua un paradiso in miniatura, libero dai problemi che assillano il resto del mondo. Invece la sua posizione geografica fu piú di ostacolo che altro alla colonizzazione umana. Il suo clima subtropicale è caldo se paragonato agli inverni europei e nordamericani, ma piuttosto freddo rispetto a gran parte della Polinesia. A eccezione della Nuova Zelanda, delle isole Chatham, Norfolk e Rapa, tutte le altre terre colonizzate dall’uomo nel Pacifico sono situate piú vicine all’equatore dell’isola di Pasqua. Per questo motivo alcune colture tropicali tipiche polinesiane vi crescono a stento, e l’oceano circostante è troppo freddo per le barriere coralline che potrebbero altrimenti crescere e proliferare con il loro corredo di pesci e crostacei. Come ho riscontrato con Barry Rolett nel corso delle nostre lunghe escursioni sul Terevaka e sul Poike, Pasqua è un luogo ventoso, il che ha sempre creato problemi ai contadini, perché il vento fa cadere i frutti dell’albero del pane prima che siano maturi. L’isolamento ha fatto sí, tra l’altro, che Pasqua fosse priva non soltanto dei pesci che vivono nelle barriere coralline ma di pesci in generale: ce ne sono solo 127 specie, contro le piú di mille delle isole Figi. Tutti questi fattori geografici determinarono una quantità di fonti di sostentamento minore rispetto a quasi tutte le altre isole del Pacifico.
C’è poi il problema della piovosità, in media pari a circa 1270 millimetri all’anno: evidentemente abbondante per gli standard dell’Europa mediterranea e della California meridionale, ma esigua per la Polinesia. Ad aggravare le limitazioni imposte da una modesta quantità di precipitazioni, si aggiunge il fatto che la pioggia filtra velocemente nel poroso suolo vulcanico di Pasqua. Di conseguenza, le riserve di acqua dolce sono scarse: l’isola può contare soltanto su un ruscello sporadico che scorre lungo le pendici del monte Terevaka, secco al tempo della mia visita; su paludi o stagni situati sul fondo dei tre crateri vulcanici; su pozzi scavati dove la falda freatica è vicina alla superficie; infine, su sorgenti di acqua dolce che gorgogliano sul fondo dell’oceano nelle vicinanze della costa o tra le linee dell’alta e della bassa marea. Gli abitanti dell’isola, tuttavia, riuscirono a procurarsi acqua a sufficienza per bere, per cucinare e per coltivare i campi, anche se con molta fatica.
Heyerdahl e Von Däniken non hanno attribuito la dovuta importanza ad alcune prove schiaccianti che dimostravano che gli abitanti dell’isola di Pasqua erano tipici polinesiani provenienti dall’Asia e non dalle Americhe, e che la loro cultura (statue incluse) era chiaramente di origine polinesiana. Anche la lingua che parlavano era polinesiana, come aveva già capito il capitano Cook nel corso della sua breve visita all’isola nel 1774, quando un uomo tahitiano che lo accompagnava fu in grado di comunicare con i locali. In particolare, si trattava di un dialetto orientale imparentato con l’hawaiano, il marchesano e soprattutto con il cosiddetto proto-mangarevano. Ami, asce di pietra, arpioni e altri arnesi erano tipicamente polinesiani e assomigliavano, in particolare, ai primi modelli marchesani. Molti loro teschi mostrano una caratteristica peculiarmente polinesiana conosciuta come «mandibola arcuata». Quando si analizzò il DNA estratto da dodici scheletri sepolti nelle piattaforme di pietra dell’isola, tutti i campioni prelevati mostrarono una delezione di nove coppie di basi e tre sostituzioni di basi, mutazioni presenti nella maggior parte dei polinesiani. Due di queste tre sostituzioni di basi non sono presenti negli amerindi e questo smentisce, dunque, la tesi di Heyerdahl dell’origine americana. Gli abitanti dell’isola coltivavano le banane, il taro, le patate dolci, la canna da zucchero e il gelso da carta, specie caratteristiche della Polinesia e prevalentemente originarie dell’Asia sudorientale. Anche l’unico animale domestico, il pollo, era tipico della Polinesia e fondamentalmente dell’Asia, come lo erano anche i ratti che arrivarono clandestinamente con le canoe dei primi colonizzatori.
L’espansione polinesiana fu la migrazione per mare piú rilevante della preistoria umana. Fino al 1200 a.C. l’espansione dei popoli antichi dalla terraferma asiatica, attraverso le isole indonesiane fino all’Australia e alla Nuova Guinea, non si era spinta nel Pacifico oltre le isole Salomone. In quel tempo, un popolo di navigatori e di coltivatori, forse originario dell’arcipelago delle Bismarck a nordest della Nuova Guinea, identificato dagli archeologi per via di una caratteristica produzione di ceramica (la cosiddetta «cultura di Lapita»), percorse quasi mille chilometri in mare aperto verso est, raggiungendo le Figi, Samoa e Tonga e diventando cosí l’antenato dei polinesiani. Anche se i proto-polinesiani non conoscevano la bussola e non possedevano attrezzi metallici e strumenti per la scrittura, erano maestri nell’arte della navigazione e nella tecnologia delle canoe a vela. Presso siti datati al radiocarbonio, numerosi indizi archeologici, quali ceramiche e attrezzi in pietra, rovine di abitazioni e di templi, resti alimentari e scheletri umani, recano testimonianza delle date e delle rotte approssimative della loro espansione. Intorno al 1200 d.C., i polinesiani avevano ormai raggiunto ogni lembo di terra abitabile in quel vasto triangolo oceanico i cui vertici sono le Hawaii, la Nuova Zelanda e l’isola di Pasqua.
Un tempo gli storici ritenevano che tutte queste isole fossero state scoperte e colonizzate per caso da pescatori finiti accidentalmente fuori rotta. Oggi invece è chiaro che l’espansione verso nuove terre fu meticolosamente programmata. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe nel caso di viaggi per mare il cui tragitto è determinato dalla forza delle correnti, la maggior parte della Polinesia è stata colonizzata da ovest verso est, ovvero in una direzione contraria a quella delle correnti e dei venti predominanti, che vanno da est a ovest. Nuove isole potrebbero essere state scoperte dai marinai mentre navigavano controvento verso l’ignoto, in una direzione da loro prestabilita, oppure mentre aspettavano che i venti predominanti cambiassero direzione. Trasferimenti di molte specie di colture e animali domestici, dal taro alle banane, dai maiali ai cani e ai polli, dimostrano in modo irrefutabile che quegli insediamenti erano stati ben pianificati dai colonizzatori, che portavano con sé dalla madrepatria tutti i prodotti ritenuti indispensabili alla sopravvivenza.
La prima ondata di espansione della cultura proto-polinesiana di Lapita si propagò verso est, attraverso l’Oceano Pacifico fino alle Figi, Samoa e Tonga, che sono situate soltanto a pochi giorni di viaggio l’una dall’altra. Una distanza maggiore separa queste isole da quelle della Polinesia orientale: le Cook, le isole della Società, le Marchesi, le Australi, Tuamotu, le Hawaii, la Nuova Zelanda, Pitcairn e l’isola di Pasqua. Soltanto dopo la cosiddetta «Lunga Pausa» di circa 1500 anni, quella distanza fu infine colmata, non si sa se grazie a miglioramenti apportati alle canoe o alla tecnica di navigazione, al cambiamento delle correnti oceaniche, all’emersione di nuovi isolotti in seguito all’abbassamento del livello del mare, oppure semplicemente grazie a un caso fortuito. Intorno al 600 o 800 d.C. (la data precisa è ancora dibattuta), le isole della Società, le Cook e le Marchesi, che sono le piú accessibili dalla Polinesia occidentale, furono colonizzate e diventarono a loro volta la base di partenza per la scoperta delle restanti isole. Con l’insediamento in Nuova Zelanda attorno al 1200 d.C., che comportò un viaggio di piú di 3000 chilometri in mare aperto, la colonizzazione delle isole abitabili del Pacifico era finalmente completa.
Quale rotta fu seguita per raggiungere l’isola di Pasqua, la piú orientale di tutte? I venti e le correnti avrebbero probabilmente impedito un viaggio diretto partendo dalle popolose Marchesi, i cui abitanti pare siano stati responsabili della colonizzazione delle Hawaii. È piú probabile, invece, che il punto di partenza sia stato Mangareva, oppure le Pitcairn e Henderson (di cui parleremo nel prossimo capitolo), che si trovano a circa metà strada tra le Marchesi e l’isola di Pasqua. L’affinità tra le lingue, la somiglianza tra una statua rinvenuta a Pitcairn e alcune statue dell’isola di Pasqua, la corrispondenza tra gli stili degli attrezzi di Pasqua e di Mangareva e delle Pitcairn, infine la somiglianza tra i teschi trovati a Pasqua e due teschi trovati a Henderson (ancora piú simili a quel...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Collasso
  3. Ringraziamenti
  4. Collasso
  5. Prologo - Due fattorie
  6. Parte prima - Un caso di studio: il Montana
  7. Parte seconda - Il passato
  8. Parte terza - Il presente
  9. Parte quarta - Lezioni per il futuro
  10. Riferimenti bibliografici
  11. Indice analitico
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright