Mancava un giorno alla scadenza e non aveva tempo da perdere.
L’algerino, o tunisino che fosse, si riprese il libro che gli aveva mostrato e lo salutò tornando sul marciapiede. Mirko si maledisse: ogni volta che lo fermavano per strada era cosí. Un paio di minuti per ascoltare e per salutare. Sua madre gli aveva insegnato che quando qualcuno ti chiede qualcosa gli devi rispondere. Chiunque fosse questo qualcuno lei lo faceva sempre, e a Mirko quel gesto, quell’inutile perdita di tempo, era rimasto appiccicato addosso.
Doveva muoversi.
La partita era durata piú del previsto e intanto, di certo, a scuola avevano esposto i tabelloni.
Anche se avevano vinto, la partita non era andata bene. Tanto per cominciare, gli avevano fischiato passi nel primo minuto. Ma non era quello: aveva superato i ventiquattro secondi. Non gli era mai successo. Avevano perso un’azione perché lui si era tenuto la palla oltre il limite. Certo aveva realizzato cinque o sei buoni canestri, in difesa era stato importante, ma poi, all’inizio del terzo quarto, c’era stata quella cosa. Si era completamente dimenticato del tempo. L’aveva perso. Quando alla fine era arrivato il fischio, lui non stava nemmeno tirando a canestro. Si era concentrato sulla palla, sullo schema, sui movimenti degli avversari, non sul tempo. I secondi erano scomparsi dalla sua testa come una voce che non esisteva. Ed era un errore che lui non poteva fare.
Intanto era arrivato davanti alla scuola. Quando entrò nel cortile erano già tutti davanti ai tabelloni. Rallentò il passo fino a fermarsi dietro una colonna. C’era Davide. Antonio. Da lí poteva distinguere quattro ragazzi dell’altra sezione e due ragazze di terza. Erano emozionati come bambini. Ormai gli insegnanti avevano detto i voti, non ci potevano essere grandi sorprese. Eppure si abbracciavano, scorrevano continuamente i quadri col dito. Mirko cercò di immaginare chi fosse il ragazzo che portava dentro la roba di Cuneo, chi se l’era presa quella roba. Molti di loro avevano il cervello talmente piatto che un po’ di cocaina poteva solo risvegliarlo. Magari era stato uno di quelli con la giacca. C’erano un paio di ragazzi di quinta – erano lí anche se i quadri delle ammissioni non erano esposti – che indossavano la giacca come piccoli banchieri. Cosa cambiava se lui accettava di portare dentro la roba come gli aveva chiesto Cuneo? Cosa cambiava se lui metteva un banchetto lí in mezzo? Chiunque poteva portarla dentro a sacchi. Chi voleva si faceva, chi non voleva tirava dritto. Come sempre.
Li sentí ridere piú forte. Non aveva voglia di cacciarsi lí in mezzo.
Voleva tornare a casa in fretta, piú che altro, non avendo ancora deciso cosa fare, non gli piaceva l’idea di essere lontano dal suo scooter. Ovunque decidesse di andare. La sua situazione era semplice, ma dopo la gita a Pavia era entrata in stallo: lui doveva dei soldi a qualcuno, qualcun altro i soldi glieli avrebbe dati, ma i due pezzi non riuscivano a comporsi. Doveva forzare l’incastro, come quando si aggiusta un tiro che non entra a canestro, correggendo la traiettoria con la mano che colpisce di nuovo la palla. Lo sapeva che aveva solo ventiquattro ore, ma sapeva anche che il panico non serviva a nulla.
L’idea piú semplice era quella di falsificare una ricevuta. Aveva un sacco di fogli con la carta intestata della società del basket, documenti, biglietti, bastava fare una fotocopia coprendo il testo e scrivendoci sopra quello che voleva. Falsificare una ricevuta e dire a zio Eugenio che i soldi aveva dovuto versarli subito, che Davide glieli aveva prestati e che adesso lui glieli doveva rendere. Ma temeva che zio Eugenio, dopo quello che gli aveva detto l’ultima volta, avrebbe voluto verificare.
Aveva bisogno di qualcuno che gli reggesse il gioco.
– Cos’hai? Paura ad avvicinarti? Mi risulta che ti abbiamo promosso, e anche piuttosto bene.
La Mavaldi era accanto a lui. Aveva indosso una camicia larga come un poncho.
– Sí… grazie… stavo solo… adesso vado.
La Mavaldi si accese una sigaretta, come se non l’avesse sentito, come se avesse capito che non si sarebbe mosso da quella colonna.
– Come stai?… come state?
– Bene.
– Come vi siete organizzati per la casa?
– Viviamo sempre lí.
Non doveva aprire quel fronte. Non in quel momento. Incrociò le dita perché la sua risposta fosse abbastanza.
– Bene.
Era andata.
La Mavaldi aveva ripreso a fumare tranquilla, guardando i ragazzi in cortile come se preferisse assistere in disparte a quella scena.
– Con chi?
Non era andata.
– Da soli.
Lei non rispose. Aspirò di nuovo il fumo, guardando il cortile. Si finí la sigaretta con calma, e spense il mozzicone contro la colonna di pietra, prima di allontanarsi.
– Per tutto luglio io sono a scuola. Passa se ti serve qualcosa.
La guardò sparire dentro a un capannello di ragazzi di terza che quasi l’abbracciava.
Se gli serviva qualcosa lei cosa poteva dargli? Delle dispense sull’ablativo assoluto?
Aveva bisogno di qualcuno che lo coprisse. Qualcuno della squadra.
A Luciano, l’allenatore, non c’era neanche da pensare. Era simpatico, disponibile – gli aveva fatto recuperare, loro due soli in palestra, un paio di allenamenti nei giorni dopo i funerali dei suoi genitori –, ma era un quarantenne che aveva paura della sua ombra. Era arrivato a chiedere il consenso al trattamento dei dati per mettere le foto dei ragazzi sul sito della squadra. No. Lui no… Alessio invece poteva essere un’idea. Aveva vent’anni, e giocava nella prima squadra. La società gli pagava uno stipendio per svolgere qualche incarico di segreteria, assicurazioni, verbali e robe del genere. A volte aveva ritirato lui i loro pagamenti. Mirko ci andava d’accordo, avevano giocato insieme qualche partita. Era sveglio, di quelli che non parlano solo di tiri da tre e dei play-off dell’Armani. Sí, Alessio era la persona giusta.
Fece qualche passo sotto il portico per allontanarsi dal rumore del cortile e provò a chiamarlo. Il numero non era disponibile.
– Ma dov’eri finito?
Greta era apparsa dal nulla davanti a lui.
– Dovevo fare una telefonata.
– Ancora per il basket?
– Sí.
– Adesso?
– Sí.
– Ma ci sono i tabelloni…
– Non scappano.
Greta abbassò gli occhi guardandosi le scarpe.
– Cosa te ne importa… tu sei il genio…
– Piantala.
La parola gli riuscí piú dura di quanto volesse. Da quando era tornato da Madrid, capitava che succedesse. Quando parlava con Greta ogni tanto le parole si increspavano, si irrigidivano da sole. Non poteva farci niente.
– Sono stata promossa.
Mirko si era dimenticato completamente della sua paura per l’insufficienza in scienze. L’insegnante l’aveva lasciata nel dubbio e quella mattina Greta era stata di certo tesissima. Di certo si era morsa le unghie tutto il tempo e aveva cercato di non pensarci messaggiando su WhatsApp con chiunque fosse collegato. Lui non c’era stato.
– È fantastico.
La sollevò abbracciandola. Era leggera. Leggerissima. Sorrideva come se si riempisse d’aria sollevandosi.
La baciò sulla bocca. A lungo.
– Stasera venite tutti da me che festeggiamo.
Mirko si pentí subito di quella frase imbecille. Greta lo baciò di nuovo.
Arrivarono sotto i tabelloni mano nella mano. Insieme a un evento pubblico. Un matrimonio. Un funerale. Una partita di campionato. Anche se ai funerali dei suoi lei era stata indietro con Davide e Antonio. Lui era accanto a zio Eugenio e zia Marge la prima volta, la seconda agli zii delle Marche. La prima fila aveva cambiato zii a seconda del morto. Lui e Tommaso erano rimasti lí.
– Cos’aveva da dirti la Mavaldi?
Era stato Piero a chiederlo. Evidentemente li avevano visti tutti sotto il colonnato.
– Niente. Diceva che gli scrutini sono andati bene.
– Andiamo a bere?
– Sono le dieci del mattino.
– Bevi una Red Bull. Ormai non bevi altro.
Uscirono dal portone. Tutti insieme.
– Io non posso. Ho da fare un paio di cose.
– Ma dài!
– Davvero…
– Ma sei assurdo.
– Non posso. Ci vediamo stasera.
Alla fine nessuno lo trattenne.
Alessio gli rispose pochi minuti dopo. Doveva essere tra una partita e l’altra, in ritiro a Boario.
– Sei in montagna?
– Sí. Una specie… ho visto solo il palazzetto. Dimmi tutto.
Alessio riusciva a essere sorridente anche al telefono. Meglio cosí. Mirko cercò di essere piú breve che poteva.
– Non sono sicuro di aver capito, – gli rispose.
Doveva essere nello spogliatoio perché dietro di lui si sentivano delle voci tutte insieme.
– Ho solo bisogno che confermi a mio zio un pagamento.
– … che però non hai fatto.
– … no… ma lo faccio dopo…
Alla fine, qualcosa si sarebbe inventato per pagare davvero alla squadra quella somma, o una parte, o per accordarsi in qualche modo. Dopo. Adesso l’importante era avere un pezzo di carta che facesse tirare fuori i soldi a zio Eugenio senza domandare altro.
– Non ho capito...