
- 376 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Quello che ho amato
Informazioni su questo libro
Affascinato da un ambiguo Autoritratto, lo storico dell'arte Leo Hertzberg lo acquista e ne rintraccia l'autore, William Wechsler, un artista con «la pelle molto scura per essere un bianco, gli occhi verdi dal taglio asiatico». È l'inizio di un'indissolubile amicizia. Sullo sfondo di una New York ricca e colta, le esistenze dei due uomini si intrecciano inestricabilmente in un sodalizio che legherà le loro mogli, amanti, figli per oltre vent'anni. Anni in cui ci si sposa, ci si tradisce, ci si lascia, ci si risposa, si fanno bambini. Tutto sembra perfetto. Poi... Una lacerante tragedia e un subdolo enigma colpiscono le loro vite e il destino di ognuno viene mutato per sempre.
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Informazioni
Uno
Ieri ho trovato le lettere di Violet a Bill. Nascoste tra le pagine di un libro, sono sgusciate fuori spargendosi a terra. Ero al corrente della loro esistenza da anni, ma né Bill né Violet mi avevano mai confidato nulla sul contenuto. Sapevo soltanto che, pochi minuti dopo aver letto la quinta e ultima missiva, Bill, prendendo una drastica decisione sul suo matrimonio con Lucille, era uscito dall’appartamento di Greene Street e si era diretto senza indugio a casa di Violet, nell’East Village. Soppesandole tra le mani, le sentii pregne del mistero delle cose rese magiche da racconti ripetuti infinite volte. Ormai i miei occhi sono malati e mi è occorso molto tempo per leggerle, ma sono riuscito a decifrare ogni singola parola. Alla fine ho capito che avrei incominciato a scrivere questo libro oggi stesso.
«Sdraiata a terra nel tuo studio, – Violet scriveva nella quarta lettera, – ti osservavo mentre mi dipingevi. Guardavo le tue braccia, le spalle, e soprattutto le mani al lavoro. Volevo che ti voltassi, venissi da me e mi sfregassi la pelle come facevi con la tela. Volevo che premessi il pollice su di me con forza, come sulla figura, e pensavo che se non l’avessi fatto sarei impazzita, ma non sono impazzita, e tu non mi hai mai toccato, nemmeno una volta. Non mi stringevi neppure la mano».
Vidi per la prima volta il dipinto di cui Violet scriveva piú o meno venticinque anni fa in una galleria di Prince Street, a SoHo. A quell’epoca non conoscevo né Bill né Violet. La maggior parte delle opere nella collettiva erano scarni prodotti minimalisti per me privi d’interesse. Il quadro di Bill era appeso a una parete, da solo. Di notevoli dimensioni, circa un metro e ottanta di altezza per due e mezzo di larghezza, ritraeva una giovane donna distesa sul pavimento di una stanza vuota. Appoggiata a un gomito, sembrava assorta in qualcosa al di là del bordo del dipinto, da dove una luce brillante si diffondeva nella stanza, a illuminarle il viso e il petto. La mano destra era appoggiata sul pube e, nell’esaminarla piú da vicino, notai tra le dita un minuscolo taxi, una versione in miniatura della vettura gialla perennemente in corsa lungo le strade di New York.
Mi ci volle un minuto buono per comprendere che in realtà le persone raffigurate erano tre: alla mia destra, sul margine piú buio, scorsi una donna nell’atto di uscire di scena. Comparivano soltanto il piede e la caviglia e il mocassino, riprodotto con una minuzia straziante, calamitò la mia attenzione. Questa donna non era meno importante della protagonista. La terza presenza era solo un riflesso. Per un attimo pensai che si trattasse della mia ombra, poi capii che faceva parte dell’opera. Nel percepire le zone oscure proiettate sulla pancia e le cosce della ragazza, che portava indosso soltanto una T-shirt da uomo, intesi come qualcuno al di fuori della tela l’osservasse, uno spettatore situato proprio al mio posto.
Sulla destra, il cartoncino dattiloscritto a caratteri minuscoli recitava: Autoritratto di William Wechsler. Sul momento l’interpretai come uno scherzo, ma dovetti ricredermi. L’artista intendeva dunque metterci a parte di un suo lato femminile o di una triplice identità? Forse, descrivendo in modo trasversale due donne e uno spettatore, egli si riferiva direttamente a se stesso, o forse il titolo non era affatto collegato al contenuto, ma alla forma. La mano autrice dell’immagine si nascondeva in alcuni punti ed emergeva in altri. Scompariva nell’illusione fotografica del viso, nella luce che filtrava dalla finestra invisibile e nell’iperrealismo del mocassino. I lunghi capelli erano invece un groviglio di pittura densa, con tratti vigorosi di rosso, verde e azzurro. Intorno alla scarpa e alla caviglia spesse striature di nero, grigio e bianco erano state applicate forse con una spatola, e in quei materici strati di colore intravidi il segno tracciato da un pollice. Ebbi l’impressione di gesti improvvisi, quasi violenti.
Adesso è qui con me, in questa stanza. Lo acquistai per duemilacinquecento dollari, la settimana successiva. Mi basta voltarmi per guardarlo, sebbene i miei occhi malati ne alterino la percezione. Quando lo vide per la prima volta, Erica era a poco piú di un metro da dove sono seduto ora. Lo scrutò con calma, poi disse: – È come spiare il sogno di qualcun altro, non ti pare?
Mi girai di scatto e mi accorsi di come in effetti il miscuglio di stili e le diverse messe a fuoco ricordassero le distorsioni oniriche. La donna aveva le labbra socchiuse e gli incisivi superiori lievemente sporgenti. Erano di un bianco brillante e un po’ troppo lunghi, simili ai denti di un animale. Mi colpí allora un livido, appena sotto la rotula. Non che prima mi fosse sfuggito, ma in quel momento la piccola macchia violacea, giallo-verdastra su un lato, m’incuriosí moltissimo, come se la contusione fosse il vero soggetto del dipinto. Mi avvicinai, misi un dito sulla tela e ne seguii il contorno. Il gesto mi eccitò. Mi voltai verso Erica. Era una calda giornata di settembre, e aveva le braccia nude. Mi chinai e le baciai le lentiggini sulle spalle, poi le sollevai i capelli e posai la bocca sulla pelle morbida della nuca. Inginocchiandomi davanti a lei, le alzai la gonna, le accarezzai le cosce con le dita e poi con la lingua. Erica piegò leggermente le gambe. Si abbassò le mutande, le lanciò sul divano con un gran sorriso e poi mi spinse con delicatezza sul pavimento. Era a cavalcioni sopra di me e i suoi capelli mi ricadevano sul viso. Poi si drizzò a sedere, si sfilò la T-shirt e il reggiseno. Adoravo guardarla dal basso. Le toccai il seno e tracciai un cerchio intorno a un neo perfettamente rotondo sul sinistro. Con le labbra mi sfiorò la fronte, le guance, il mento, poi incominciò ad armeggiare con la zip dei miei pantaloni.
Era un periodo in cui vivevamo in uno stato di eccitazione sessuale quasi costante. Bastava un nonnulla per innescare una serie di contorsioni scatenate sul letto, sul pavimento e, una volta, sul tavolo della sala da pranzo. Dalle superiori in poi le ragazze erano entrate e uscite dalla mia vita. Avevo avuto storie brevi e lunghe, ma sempre con tempi morti tra l’una e l’altra – tormentati periodi senza donne e senza sesso. Erica sosteneva che la sofferenza mi aveva reso un amante migliore, abituandomi a non dare mai per scontata la disponibilità della mia compagna. Ma quel pomeriggio avevamo fatto l’amore a causa del dipinto. In seguito mi sono chiesto spesso perché l’immagine di un’ecchimosi mi fosse sembrata erotica. Discutendone tempo dopo, Erica l’interpretò come una reazione connessa al desiderio di lasciare traccia sul corpo di un’altra persona. – La pelle è delicata. Si taglia facilmente, si copre di segni. Comunque, qui non trapela violenza. È un comunissimo, innocuo bozzo nero e azzurrognolo, ma è il modo in cui è stato rappresentato che lo mette in risalto. Rivela un certo compiacimento da parte dell’artista, l’intenzione di creare una piccola ferita che durasse per sempre.
Erica aveva trentaquattro anni allora, io undici di piú, ed eravamo sposati da un anno. Ci eravamo letteralmente scontrati alla Butler Library della Columbia. Era una tarda mattinata di un sabato d’ottobre, e i ripiani erano in gran parte vuoti. Avevo sentito dei passi, avvertito una presenza dietro le file di libri, illuminate da una fioca luce a tempo. Trovai il volume che cercavo e mi avviai verso l’ascensore. A parte il ronzio della lampada, tutto taceva. Svoltai l’angolo e inciampai in Erica, seduta per terra in fondo alla scaffalatura. Riuscii a mantenere l’equilibrio, ma gli occhiali mi volarono via. Lei li raccolse e, mentre io mi chinavo per prenderli, si alzò sbattendo la testa contro il mio mento. Mi guardò sorridendo. – Bene, sembriamo alle comiche…
Una gran bella donna. Aveva la bocca grande e un caschetto di folti capelli scuri. La gonna aderente le era risalita sulle gambe, e le sbirciai le cosce mentre si tirava giú l’orlo. Dopo essersi ricomposta levò lo sguardo e, quando mi sorrise di nuovo, nel notare il breve tremito del labbro inferiore, pensai che quell’accenno di nervosismo o imbarazzo rivelasse una certa vulnerabilità. Altrimenti, le avrei rinnovato le mie scuse e me ne sarei andato. Il breve spasmo involontario, svanito in un istante, aveva scoperto un lato del suo carattere in cui colsi il barlume di una sensualità gelosamente custodita. La invitai a prendere un caffè. Il caffè si trasformò in pranzo, il pranzo in cena, e il mattino dopo mi risvegliai accanto a Erica Stein nel letto del mio vecchio appartamento su Riverside Drive. Stava ancora dormendo. La luce entrava dalla finestra rischiarandole il viso e i capelli. Con molta delicatezza le appoggiai una mano sulla testa, e rimasi cosí per parecchi minuti, a guardarla, sperando che restasse per sempre.
Avevamo parlato per ore, scoprendo di provenire dallo stesso mondo. I suoi genitori erano ebrei tedeschi fuggiti da Berlino, ancora adolescenti, nel 1933. Suo padre si era poi affermato come psicanalista, mentre la madre insegnava canto alla Juilliard. Gli Stein erano deceduti a pochi mesi di distanza, l’anno prima del nostro incontro e lo stesso in cui era morta mia madre, il 1973. Io ero nato a Berlino, e vi avevo vissuto per cinque anni. I miei ricordi della città sono frammentari, e alcuni potrebbero essere falsi, immagini e storie plasmate dai racconti di mia madre. Erica era nata nell’Upper West Side, dove ero tornato anch’io dopo aver abitato per tre anni nel quartiere londinese di Hampstead. Fu Erica a convincermi a lasciare il West Side e il mio comodo alloggio alla Columbia. Prima di sposarci, mi disse di voler «emigrare». Quando le chiesi che cosa intendeva, rispose che pensava fosse venuto il momento di vendere la casa dei suoi genitori sulla Ottantaduesima e percorrere il lungo tragitto in metropolitana verso sud. – Sento odore di morte qui, – disse, – di disinfettante, di ospedali e di torte Sacher stantie. Devo andarmene –. Cosí ci allontanammo dal familiare quartiere della nostra infanzia per appropriarci di un nuovo territorio, tra artisti e bohémien. Con l’eredità dei nostri genitori acquistammo un loft su Greene Street, tra Canal e Grand.
Il nuovo rione, con le sue strade vuote, gli edifici bassi e i giovani inquilini, mi liberò da legami che non avevo mai considerato limitanti. Mio padre era scomparso nel 1947, a soli quarantatre anni, ma mia madre aveva vissuto a lungo. Ero figlio unico e, dopo la morte di mio padre, mia madre e io ne avevamo condiviso il fantasma. E se lei diventava sempre piú vecchia e artritica, mio padre rimaneva giovane, brillante e promettente – un medico che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Quel «qualsiasi cosa» diventò «tutto» per mia madre. Per ventisei anni visse con il futuro irrealizzato del marito nello stesso appartamento sull’Ottantaquattresima, tra Broadway e Riverside. Quando incominciai a insegnare, qualche studente mi chiamava ogni tanto «dottor Hertzberg», anziché professore, e io, inevitabilmente, pensavo a mio padre. Vivere a SoHo non cancellò il mio passato, né m’indusse a dimenticare ma, svoltando un angolo o attraversando una strada, nulla mi ricordava l’infanzia e la giovinezza da profugo. Erica e io eravamo entrambi figli di esuli da un mondo scomparso. I nostri genitori erano ebrei borghesi integrati per i quali l’ebraismo era la religione da sempre professata in famiglia. Prima del 1933 si consideravano «tedeschi giudei», una definizione che non esiste piú in nessuna lingua.
Erica era allora assistente d’inglese alla Rutgers mentre io lavoravo da dodici anni alla Columbia, nel dipartimento di storia dell’arte. Mi ero laureato a Harvard, lei alla Columbia, e questo spiegava il motivo per cui quel sabato mattina vagava tra gli scaffali della biblioteca con un pass per ex allievi. Mi era già capitato di innamorarmi, ma ero quasi sempre arrivato a una fase di apatia e stanchezza. Con Erica no. Qualche volta mi irritava, mi esasperava, ma non mi annoiava mai. Il commento sull’autoritratto di Bill era tipico del suo carattere: semplice, diretto e penetrante. Impossibile per me trattarla con condiscendenza.
Ero passato molte volte davanti all’89 della Bowery, senza mai fermarmi a guardarlo. Il decrepito edificio a tre piani tra Hester e Canal era stato un tempo l’umile sede di un magazzino all’ingrosso, ma quell’epoca di modesta rispettabilità era ormai lontana quando andai a trovare William Wechsler. Le vetrine del vecchio negozio erano ricoperte di assi e la spessa porta di metallo a livello della strada era ammaccata, come se fosse stata presa a martellate. Un uomo con la barba e una bottiglia in un sacchetto di carta oziava sul gradino d’accesso. Gli chiesi di spostarsi, lui emise un grugnito e, rotolando e scivolando, si fece da parte.
Di solito la mia prima impressione di una persona è offuscata da quanto vengo a sapere in seguito sul suo conto, ma nel caso di Bill almeno un aspetto di quei primi istanti si conservò per tutta la durata della nostra amicizia. Bill possedeva un forte carisma, il misterioso potere d’attrazione che seduce lo sconosciuto. Quando aprí la porta mi sembrò non meno trasandato del tizio all’entrata. Non si radeva da almeno due giorni. Gli irti capelli neri spuntavano arruffati in cima e ai lati della testa, i vestiti erano sporchi e non solo di pittura. Provai un’istintiva simpatia nei suoi confronti. Aveva la carnagione molto scura per essere un bianco e gli occhi verdi, limpidi, dal taglio asiatico. La mascella e il mento erano squadrati, le spalle larghe, le braccia possenti. Con il suo metro e ottantacinque d’altezza ebbi l’impressione che mi sovrastasse, anche se mi superava soltanto di pochi centimetri. In seguito mi convinsi che quel fascino un po’ magico nasceva dallo sguardo. Mi lanciò un’occhiata diretta, priva di imbarazzo, da cui percepii però trapelare un temperamento svagato, introverso. La curiosità nei miei riguardi sembrava genuina, ma avvertii chiaramente come non si aspettasse nulla da me. Bill comunicava un’irresistibile sensazione di assoluta indipendenza.
– L’ho scelto per la luce, – mi disse nel varcare la soglia del loft al terzo piano. Il sole del pomeriggio illuminava tre lunghe vetrate in fondo all’unica stanza. L’edificio aveva ceduto, con il risultato che il lato posteriore era parecchio piú basso della facciata. Anche il pavimento si era deformato e, voltandomi in direzione delle finestre, notai dei rigonfiamenti nelle assi, come lievi onde in un lago. La zona piú alta era spoglia, conteneva soltanto uno sgabello, un tavolo costituito da due cavalletti e una vecchia porta, un impianto stereo circondato da centinaia di dischi e cassette in scatole di plastica per il latte. Sulla parete erano accatastate file di tele. Un intenso odore di pittura, trementina e muffa impregnava la stanza.
Tutto il necessario per la vita quotidiana era stipato dall’altra parte. Un tavolo era addossato alla vecchia vasca da bagno con i piedi ad artiglio, il letto matrimoniale era posizionato vicino a una scrivania, non lontano dal lavabo, e il forno sporgeva da una nicchia ricavata in un’enorme libreria ingombra di volumi. Vari libri erano impilati accanto agli scaffali e a terra, moltissimi altri su una poltrona che sembrava inutilizzata da anni. Il caos del loft rivelava non solo povertà, ma soprattutto noncuranza verso gli oggetti d’uso comune. Con il tempo Bill sarebbe diventato ricco, ma la sua indifferenza per le cose non mutò mai. Stranamente, mantenne sempre un certo distacco nei confronti delle abitazioni e un totale disinteresse per i dettagli dei loro arredi.
Già quel primo giorno intuii l’ascetismo di Bill, il suo cristallino desiderio di purezza e la riluttanza ai compromessi. Una sensazione derivata sia dalle sue parole che dalla sua presenza fisica. Era calmo, affabile, leggermente controllato nei movimenti, eppure sprigionava una determinazione tale da sembrare tangibile nella stanza. A differenza di molti personaggi carismatici, Bill non era volgare, né arrogante, né eccessivamente seduttivo. Eppure mentre guardavo i quadri mi sentivo come un nano al cospetto di un gigante. I miei commenti divennero piú perspicaci e meditati. Stavo lottando per guadagnarmi uno spazio.
Mi mostrò sei dipinti quel pomeriggio. Tre erano terminati, tre appena incominciati – linee abbozzate e ampie campiture di colore. La tela da me acquistata apparteneva alla stessa serie, ma da un’opera all’altra la costituzione fisica della protagonista variava. Nella prima era obesa, una montagna di pallide carni in pantaloncini stretch e maglietta – un’immagine d’ingordigia e abbandono cosí gigantesca che il corpo sembrava compresso nella cornice. Il pugno grassoccio stringeva un sonaglio. L’ombra allungata di un uomo le ricadeva sul seno destro e sull’enorme pancia, per ridursi a una semplice linea lungo i fianchi. Nella seconda tela la ragazza era molto piú magra. Sdraiata su un materasso e vestita di sola biancheria intima, scrutava il proprio corpo con aria insieme autocritica e autoerotica. In mano, una stilografica grossa circa il doppio del normale. Nella terza, pur con qualche chilo in piú, non era florida come nella mia tela. Indossava una logora camicia da notte di flanella ed era seduta sul bordo del letto con le gambe casualmente aperte. Ai piedi, un paio di calzettoni scarlatti. Osservando meglio le gambe, notai appena sotto il ginocchio le deboli tracce rosse lasciate dall’elastico.
– Mi ricorda il piccolo Jan Steen al Rijksmuseum, – dissi. – La donna che si sfila la calza durante la toilette mattutina.
Bill mi sorrise per la prima volta. – Avevo ventitre anni quando lo vidi ad Amsterdam, e mi ha fatto molto riflettere. Non mi interessano i nudi, sono troppo pretenziosi, ma la pelle mi affascina.
Approfondimmo l’argomento. Accennai alle bellissime stigmate rosse sulla mano del San Francesco di Zurbarán. Bill parlò del colore del Cristo morto di Grünewald e della carnagione rosata nelle donne nude di Boucher, che definiva «signore soft porn». Discutemmo delle mutevoli convenzioni di crocifissioni, pietà e deposizioni. Ammisi che il manierismo di Pontormo mi interessava da sempre e Bill citò R. Crumb. – Adoro la sua crudezza, – spiegò. – Il coraggio brutale della sua opera –. Gli chiesi che cosa ne pensasse di Georg Grosz, e Bill annuí.
– I due sono senza dubbio stilisticamente affini. Hai mai visto la serie di Crumb intitolata Racconti dalla terra di Genitalia? Peni che se ne vanno in giro con gli stivali…
– Come il naso di Gogol, – dissi.
Poi Bill mi mostrò alcune tavole di anatomia, un campo che conoscevo pochissimo. Tirò fuori dagli scaffali decine di libri, con opere risalenti a periodi diversi – diagrammi degli umori risalenti al Medioevo, immagini anatomiche del Settecento, l’illustrazione ottocentesca della testa di un uomo con protuberanze frenologiche e una, all’incirca della stessa epoca, di genitali femminili. Quest’ultimo era un curioso cartone della carne tra le gambe spalancate di una donna. Rimanemmo uno accanto all’altro a fissare la dettagliata rappresentazione della vulva, della clitoride, delle labbra e della piccola fessura nera dell’apertura vaginale. Le linee erano dure, severe.
– Sembra lo schema di un macchinario, – rimarcai.
– Sí, – confermò lui, – non ci avevo mai pensato –. Studiò ancora la figura. – È un brutto disegno. È tutto al posto giu...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Quello che ho amato
- Uno
- Due
- Tre
- Ringraziamenti
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright