Giuseppe, il personaggio centrale del romanzo, è un giornalista di mezza età. Un solitario. Non sopporta gli ospiti. Non vuole un legame fisso. Del figlio avuto da Lucrezia, non vuole sapere nulla. Si disinteressa anche lei del suo «vero» figlio, Alberico. Questo Giuseppe è un irresponsabile? Uno da condannare? Uno che ha fallito?
Un fallito, certamente. Non è da condannare. Non credo di poter inventare personaggi da condannare, se non in certi loro momenti.
Ma Alberico, poco amato e un po’ brutto anatroccolo, trova la sua vocazione (di regista) nonostante il padre, se non contro il padre. E riesce quasi perfino a riacquistare la casa che il padre sventatissimo aveva perso. Sembra che il romanzo un giudizio preciso lo dia: oggi i figli sono migliori dei padri.
La giovane generazione sembra in qualche modo migliore della precedente. Scardinatissima, ma migliore. Se riuscirà, o fallirà come questa, non si può dire. Alberico è un personaggio certamente migliore, piú generoso, piú disponibile di Giuseppe. Il film che ha fatto è un successo, è vero. Il padre invece scrive in America un romanzo italiano che nessuno vuol leggere. Ma non sappiamo se quel film è bello o no. Forse è brutto. Lucrezia, che ha visto il film, non è d’accordo con l’entusiasmo dei critici. Dice che il film è brutto.
Anzi, proprio dicendolo tranquillamente ad Alberico, diventa sua amica …
C’è un legame tra questi due personaggi. Lucrezia, la donna che sa «conservare» dentro di sé l’immagine degli altri, che capisce e perdona, è anche quella che sa fare le scelte, magari sbagliate, che si butta, che non ha paura di cambiare casa, anche se poi si trova male. Ha energia. I due che hanno energia vitale sono loro: una donna e un ragazzo. Gli uomini – gli uomini di questa generazione, nel mio romanzo – sono personaggi negativi, in genere. Sono dei poveretti. Dicendo cosí, non voglio in alcun modo fare una affermazione ideologica. Non voglio dire che le donne sono piú forti. Una volta scritto il romanzo ho visto che era cosí.
Trova questo, insomma, come «realtà» del romanzo. Elsa Morante, in uno scritto del 1965 pubblicato ora da Linea d’ombra, sostiene che gli scrittori, gli artisti, testimoniano della «realtà», mentre ciò che nella vita quotidiana si presenta come «reale» è invece «irreale», mostruoso…
Sí, come Elsa scrive, la realtà è quel «leone con la pelliccia d’oro» di una vecchia favola buddhista, che si presenta alla porta di casa tua. Lo scrittore tocca una realtà. Quando scrivo un romanzo, voglio solo raccontare. Non parto da una idea, da una affermazione. All’inizio c’è una vicenda, una storia, dei fatti, dei luoghi… Poi queste storie si snodano e uno si augura che vi si riflettano cose esistenti, che si tocchi «la realtà».
Il personaggio che ho sentito piú reale è proprio questo figlio tenace e solo, che non ce la fa. Se nel libro c’è un personaggio tragico, non è Alberico, piuttosto che Giuseppe? Non voglio dire naturalmente che il libro sia scritto in stile tragico, tutt’ altro.
Sí, è Alberico il piú tragico. Lui a un certo punto mostra la propria forza al padre lontano, mentre il padre a sua volta cerca un altro padre, si rifugia dal fratello a Princeton. Ma è un’altra storia, al tempo stesso, di ricerca di padri e di ricerca di figli. Sia Alberico che Giuseppe cercano figli. C’è un parallelismo nel destino del padre e del figlio. Dal canto suo, anche Lucrezia cerca padri, protettori, e non trova nessuno. I padri non ci sono piú. Cercava un protettore in Piero, che va e viene tra Perugia e Roma, ma ecco appoggia la mano, e all’improvviso, non trova piú nessun appoggio. Lucrezia scrive a Giuseppe: ci rivedremo morti o vivi, ma anche forse morti. E però il loro rapporto significa qualcosa, nella vita dell’uno e dell’altro. È una forma di amore, un modo di essere fedeli anche scrivendo lettere da un continente all’altro. Credo sia una storia di ricerca di padri. E di ricerca di case.
Lo sviluppo dell’azione, nel romanzo, è segnato da questo continuo spostarsi dei personaggi tra case perse e trovate, come su una scacchiera. Ma sono case, o fantasmi? La stessa cosa capita agli oggetti che ciascuno possiede, o ai modi di dire: gli uni e gli altri, come le case, «passano di mano» fino ad acquistare tanti significati, al posto di quello originario… E il destino di Giuseppe sembra segnato dal momento in cui non obbedisce alla saggezza praticona di sua cugina Roberta, che ripete sempre «mai cedere al mattone, mai», oppure «il mattone non delude mai» e vende il suo appartamento di via Nazario Sauro.
Qualcuno mi ha detto che La città e la casa è un romanzo pragmatista: crollano i destini, restano le cose. Gli oggetti rimangono. Magari deteriorati, però son lí. C’è un parallelo tra la rovina di Giuseppe che vende la sua casa e parte per l’America e la fine delle Margherite, la casa di campagna di Lucrezia, dove si raccoglieva la comunità degli amici. Ma nella nuova, provvisoria casa di Lucrezia, ci sono ancora il mobile con le tartarughe, le sopraccoperte con i draghi delle Margherite. Questi oggetti rimbalzano da una lettera all’altra. Ne parlano in diversi. Si comincia con una immagine di stabilità: Le Margherite. È una famiglia. Poi si sfascia tutto, restano le frasi di ciascuno, ripetute all’altro, restano questi oggetti sparsi, masserizie che galleggiano su un fiume in piena.
Il suo romanzo, dove c’è anche la droga, e tanta tragedia giovanile, esce per coincidenza nei giorni del processo di San Patrignano. Che ne pensa lei di Vincenzo Muccioli? Lei scriveva, ne Le piccole virtú, che il rapporto tra padri e figli «dev’essere lasciato in giusto equilibrio di silenzi e parole». In questo modo, se i padri hanno una vocazione, possono anche permettersi di lasciare i figli «germogliare quietamente» fuori di loro. Non pensa che stia accadendo tutto il contrario? E che l’Italia sia oggi piena di padri troppo ingombranti, o troppo assenti? Muccioli è un padre ingombrante, che risolve i problemi di quelli assenti?
Lo sento, piú che pensarlo. Nella realtà presente c’è una sete di paternità, e una incapacità di questo. È il problema centrale del nostro vivere oggi. Lí abbiamo perso. Muccioli cerca di essere un padre e una madre. E forse c’è qualcosa di piú. Forse c’è una sete di vita morale. Forse chi piú ne manca, è piú assetato di valori che non riesce a raggiungere, e non è capace di tradurre in nulla, nemmeno in parole e pensieri, questo suo desiderio.
Mi spieghi meglio. Che rapporto c’è tra la morale e le catene usate da Muccioli?
Alle catene si può dare una spiegazione. Possono essere uno stato di necessità. Nelle catene, è perfino possibile che si traduca una ricerca ancora confusa di valori morali e anche religiosi, che prendono questa strada in mancanza, da parte della società nel suo insieme, di una piú generale «verifica dei poteri». Per questo non sono contro le catene. Ma contro le finte stigmate, sí. Questo mi sembra molto piú grave. Ammesso che sia vero, poiché nessuno ha mai risposto su questo.
Perché le stigmate sono piú gravi?
Perché sono una finzione della santità.
Lei ha scritto che non ama lavorare sui libri e le lettere altrui. L’ha fatto, però, con La famiglia Manzoni: che è basato soprattutto sul carteggio di famiglia. Poi ha scritto questo, che è un romanzo epistolare. Ancora un libro senza un «io» che narra, come invece quasi tutte le altre storie di Natalia Ginzburg. C’è un rapporto tra La famiglia Manzoni e La città e la casa?
Forse c’è un nesso. Avevo un grande desiderio di scrivere in prima persona, ma anche in terza. Volevo i privilegi di entrambe le forme. Volevo un «io» che corrispondesse a un «lui»; una prima persona, però, con tante sfaccettature, molteplice. Le lettere sono questo. Invece di un solo «io» che racconta gli altri e se stesso, molti «io» che si raccontano. E la «terza persona» è in qualche modo salva. L’«io» autobiografico l’ho adoperato in Lessico famigliare, ma riesce difficile usarlo ora in modo immaginario. È, oltretutto, uno strumento che mi si è andato consumando. Penso sia proprio questo, oggi il problema centrale per uno scrittore. La terza persona è necessaria, al tempo stesso è difficilissima da usare. Il nostro tempo non lo consente; non c’è niente di saldo cui poterla appoggiare. Ci riesce Elsa Morante. La sua grandezza è anche di aver usato la terza persona in questo mondo in cui nessuno di noi è piú capace di usarla. Perché noi sappiamo dir solo «io». Quando si parla di «crisi del romanzo», è questo. Ognuno cerca di sottrarsi, male, alla condanna di questo «io».
Certo sono però tantissimi, i romanzi e racconti scritti in terza persona…
…ma il piú delle volte è un «io» mascherato, e si sente subito. Ci provano senza riuscire, è come volersi sedere su una sedia che non c’è. Una sedia collocata molto in alto, ma che non esiste. C’è una terza persona che in realtà è una prima; come c’è anche un modo di dire «io» che in realtà è terza persona. Proust, per esempio, è anche «terza persona». Quella, è la grandezza.
Tra i romanzi nuovi, ci sono tentativi di uscire dall’«io» puro?
Mi passa sotto gli occhi soprattutto autobiografia allo stato selvaggio. Mi piaceva molto il primo libro di Andrea De Carlo, Treno di panna, perché c’è lí un occhio che guarda molto consapevole di essere lo sguardo di uno solo, però distaccato. L’asciuttezza dello sguardo, può esser un tentativo, una indicazione «verso la terza persona». Il mio libro, La famiglia Manzoni, è un tentativo di terza persona.
In un modo non gridato, La città e la casa è un libro pieno di storie dei nostri giorni. Lei scrivendo si è sentita ancora «in uno stato di assoluta e pura libertà», come al tempo di Lessico famigliare? Vive sempre «senza una storia in testa» fino al momento di scrivere un libro?
Mi sentivo spinta a testimoniare delle cose che mi passavano sotto gli occhi. Non ci sono tutte, non ho potuto. Ma anche nel racconto precedente, Famiglia, c’era questo tentativo di stare nel presente. Ed è, anche quello, un racconto in terza persona. Al centro della storia c’era un uomo, e questo per me era nuovo. … Ho avvertito, da quel punto, un rovesciamento. Adesso mi sembra che siano ...