I.
Sono a casa da tre settimane ormai e le cose non vanno affatto bene. Maddy e io ci ripetiamo euforicamente quanto piacere ci procuri questa intimità prolungata ma sarà per entrambe un sollievo vederla finire. I silenzi ci innervosiscono. Ridiamo a sproposito. Ho paura – probabilmente ha paura anche lei – che quando verrà il momento di salutarci, se non saremo abbastanza pronte a baciarci e stringerci fingendo trasporto, ci toccherà contemplare il deserto che ci separa e riconoscere che non ci siamo solo indifferenti; in cuor nostro ci respingiamo, e quel passato che ci affanniamo a definire comune non è cosí affatto perché ciascuna di noi lo custodisce gelosamente per sé, convinta in fondo che l’altra sia diventata un’estranea e che non possa piú vantare su di esso alcun diritto.
Di sera sediamo spesso sui gradini della veranda a bere gin fumando scrupolosamente per tenere a bada le zanzare e rimandare il piú possibile il momento di andare a letto. Fa caldo; la sera impiega molto tempo a rinfrescare. La casa alta di mattoni rossi mantiene una discreta temperatura fino a metà pomeriggio, poi in compenso trattiene il calore del giorno fino a notte fonda. È cosí da sempre; Maddy e io ricordiamo di quando trascinavamo i materassi in veranda e ci sdraiavamo a contare le stelle cadenti sforzandoci di tirare l’alba da sveglie. Non ci riusciva mai, perché ci addormentavamo al primo soffio d’aria che saliva dall’acqua portando odore di canne e della fanghiglia nera del fiume. Alle dieci e mezza un autobus attraversa il paese senza rallentare granché; lo vediamo passare in fondo alla via. È lo stesso autobus con il quale tornavo a casa dal college e mi ricordo delle sere calde in cui arrivavo a Jubilee e vedevo la terra brulla intorno alle immense radici degli alberi, la fontanella circondata da piccole pozze d’acqua sullo stradone, i tenui ghirigori di luce azzurra, rossa e arancio delle insegne biliardo e caffè; e mi sentivo come se riconoscessi a quelle insegne lo strano potere di opprimermi e di liberarmi al tempo stesso, mentre io barattavo l’intero mondo spensierato fatto di studi, amici e, piú tardi, di amori, per l’oscuro mondo di eterno scacco che era casa mia. Maddy doveva aver provato la stessa cosa quattro anni prima, compiendo quel percorso. Avrei voglia di chiederle: è possibile che chiunque sia cresciuto come siamo cresciute noi perda la capacità di credere – di sentirsi a casa, insomma – in una realtà normale e serena? Ma non glielo chiedo; non parliamo mai di queste cose. Niente esorcismi qui dentro, dice Maddy con la sua vocetta squillante e l’inflessione gergale che avevo dimenticato, non vogliamo certo intristirci. E cosí non lo facciamo.
Una sera Maddy mi ha portata a una festa sul lago, a una trentina di miglia a ovest da qui. La festa si svolgeva in un villino preso in affitto per la settimana da due donne di Jubilee. La maggior parte delle presenti pareva essere vedova, nubile, separata o divorziata; gli uomini erano perlopiú giovani e non sposati, gli oriundi di Jubilee tanto giovani che me li ricordavo bambini alle elementari. Ce n’erano solo due o tre piú maturi, senza mogli al seguito. Le donne invece mi facevano stranamente tornare alla memoria certi personaggi della mia infanzia benché, come è ovvio, non le conoscessi in versione mondana, ma solo in quella professionale, in uffici e botteghe nonché spesso come catechiste a Jubilee. Si distinguevano dalle donne sposate per una maggiore consapevolezza di sé e una vivacità un po’ piú sguaiata (sebbene me ne vengano in mente solo un paio la cui rispettabilità sia mai stata messa davvero in discussione). Portavano abiti indiscutibilmente alla moda, seppure castigati, che tendevano a frusciare sui bustini rigidi, e rovesciavano notevoli quantità di acqua di Colonia sulle loro varie decorazioni floreali. Le amiche di Maddy erano assai piú moderne: si facevano cachet ramati nei capelli, si dipingevano le palpebre di azzurro e reggevano robuste quantità di alcol.
Maddy secondo me è diversa, per la figura snella e i capelli ancora naturalmente castani; il viso è piú affilato e stanco, ma non ha perso del tutto l’aria da ragazza impertinente e fiera. D’altro canto, parla con la cadenza aspra e nasale del posto della quale un tempo ridevamo insieme, e ostenta un’espressione di assoluta disinvoltura, mentre scherza e ci dà dentro a bere. Mi pare che faccia di tutto per confondersi con loro e ho pensato che tra non molto potrebbe riuscirci. Mi pare anche che voglia farmi assistere al successo della sua decisione, al rifiuto di quella straordinaria e segreta forma di snobismo che coltivavamo da ragazze, quando ci promettevamo di realizzare cose naturalmente ben piú grandi di Jubilee.
Durante il gioco in cui ognuna delle presenti mette un proprio capo di abbigliamento in una cesta – si comincia decorosamente da una scarpa – e poi rientrano gli uomini e fanno a gara per cercare di attribuire ogni articolo alla legittima proprietaria, sono andata a sedermi in macchina dove mi è venuta nostalgia di mio marito e degli amici, mentre ascoltavo il vociare allegro della festa e il rumore delle onde sulla spiaggia, e dopo un po’ mi sono addormentata. Maddy è arrivata molto piú tardi e ha esclamato: – Santo cielo! – Poi è scoppiata a ridere e ha aggiunto, con la voce flautata da signora inglese di un film d’altri tempi: – Trovi il nostro comportamento disdicevole? – Abbiamo riso entrambe; io mi sentivo in colpa e avevo un po’ di nausea per aver bevuto, ma non abbastanza da ubriacarmi. – Non faranno discorsi granché intellettuali, ma sanno far funzionare il cuore, come si dice –. Non ho ribattuto e siamo tornate a ottanta miglia all’ora da Inverhuron a Jubilee. Da quella volta non siamo piú state a nessuna festa.
Non sempre però siamo sole quando ci sediamo fuori sui gradini. Spesso si unisce a noi un tale di nome Fred Powell. C’era anche lui alla festa, e ha passato la sera in disparte, silenzioso, senza perdere il conto sul viavai di bottiglie di liquore e, all’occasione, reggendo premuroso la testa di qualcuno, oltre la ringhiera traballante del portico. È cresciuto a Jubilee ma io non me lo ricordo; credo che fosse qualche anno avanti a noi, a scuola, e poi è partito per la guerra. Mi ha stupito che Maddy lo avesse portato a casa a cena la sera stessa del mio arrivo; da allora abbiamo trascorso parecchie serate a fare di questo estraneo un presente della nostra infanzia, o almeno di quella versione della nostra infanzia che rimane ben custodita nell’aneddotica, come dentro una sorta di cellophane mentale. E che fantasie sappiamo erigere intorno a noi bambine, cosí da far emergere le nostre fragili figure come irriconoscibili, incorreggibili e spassose. Siamo brave a raccontare storie insieme. «Avete una bella memoria, voi ragazze», dice Fred Powell, mentre seduto ci osserva con l’ammirazione e quel certo non so che – riserbo, disagio, rimprovero – che affiora sul volto di individui docili e risoluti, mentre assistono alle buffonate un po’ isteriche dei loro interlocutori.
A proposito di Fred Powell devo ammettere di aver reagito a questa «situazione», come l’ho definita, in modo molto piú convenzionale di quanto mi sarei aspettata; è perfino assurdo. Non so neppure di quale situazione stiamo parlando, in effetti. So che lui è sposato. Me l’ha detto Maddy la prima sera, in tono puramente informativo. La moglie è invalida. D’estate lui la porta al lago, dice Maddy, è molto buono con lei. Non so se sia l’amante di Maddy e lei non me lo dirà mai. Perché dovrebbe importarmi? Maddy ha trent’anni suonati. Eppure, non riesco a togliermi dalla mente il modo in cui sta seduto sui gradini di casa nostra con le mani sulle ginocchia divaricate e il faccione dolce rivolto quasi con indulgenza verso Maddy; ha l’espressione cordiale e virile di chi si diverte senza lasciarsi impressionare. Maddy dal canto suo lo prende in giro, gli dice che è troppo grasso, si rifiuta di fumare le sue sigarette, lo coinvolge in bruschi battibecchi confidenziali e affettuosi senza consistenza né fine. E lui la lascia fare. (Ecco, è questo che mi fa paura, lo capisco adesso: lui la lascia fare; lei ne ha bisogno). Quando è un po’ brilla si mette a dire in tono tra lo scherzoso e il supplichevole che Fred è il suo unico vero amico. Parlano la stessa lingua, dice. Non c’è nessun altro che la conosca. Io non so che cosa risponderle.
E mi ritrovo da capo a chiedermi: sarà davvero solo un amico? Avevo dimenticato certe restrizioni della vita a Jubilee (che sono tuttora in auge, nonostante quel che si legge su certi romanzetti rispetto alle cittadine di provincia) e anche quali salde e rispettabili amicizie mai esplicitamente sessuali possano fiorire, per non dire alimentarsi, al riparo da tali restrizioni, tanto da riuscire a consumare, a conti fatti, la metà di intere esistenze. Questo pensiero mi rattrista (i rapporti non consumati tendono a deprimere gli osservatori esterni piú di chiunque altro, si direbbe) al punto che arrivo a sperare che siano semplicemente onesti amanti.
La vita a Jubilee segue ritmi primitivi, stagionali. Le morti avvengono in inverno; i matrimoni si celebrano d’estate. C’è una buona ragione per questo: gli inverni sono lunghi e rigidissimi e i piú vecchi e deboli non sempre ce la fanno a superarli. Lo scorso inverno è stata una catastrofe, di quelle che possono presentarsi ogni dieci, dodici anni; basta vedere le crepe sui marciapiedi del centro, come se il paese fosse sopravvissuto a un bombardamento, seppure di modesta entità. Della morte perciò ci si occupa in mezzo a mille ostacoli; c’è poi tempo in estate per ripensarci e parlarne. Mi capita che le persone mi fermino in strada per dirmi di mia madre. Mi raccontano del suo funerale, dei fiori che ha avuto e del tempo che faceva quel giorno. E adesso che è morta non ho piú l’impressione che vogliano sferrare un subdolo colpo al mio amor proprio, quando pronunciano le parole «tua madre». In passato era cosí; ogni volta che le sentivo si sgretolava la mia intera identità, il presuntuoso edificio che mi ero costruita da adolescente.
Ora li ascolto parlare di lei con tono cortese e cerimonioso e mi accorgo che è diventata una proprietà del paese, una bizzarria, una breve leggenda. Ha ottenuto tale risultato a dispetto di noi che abbiamo cercato in tutti i modi, dai piú rozzi ai piú astuti, di tenerla chiusa in casa, lontano dalla sua triste notorietà; e non per il suo bene, bensí per il nostro, per noi che soffrivamo l’inutile umiliazione di vedere i suoi occhi rovesciarsi indietro per la temporanea paralisi dei muscoli oculari, di sentire il suono impastato della sua voce le cui imbarazzanti affermazioni era compito nostro tradurre a beneficio degli estranei. Erano talmente assurdi gli effetti del suo male da farci venire voglia di chiedere scusa a tutti (anche se invece ci limitavamo a irrigidirci e sbiancare) come se ci presentassimo in compagnia di uno spettacolo di pessimo gusto. Tutto sprecato, il nostro orgoglio; sprecato anche lo sforzo di eliminare la rabbia a furia di caricature che improvvisavamo l’una per l’altra (non di caricature, anzi, perché lo era già lei; di imitazioni). Avremmo dovuto consegnarla al paese, l’avrebbero trattata meglio.
Rispetto a Maddy e al fatto che se n’è occupata per dieci anni la gente dice molto poco; forse per riguardo ai miei sentimenti, sapendo che io sono quella che se n’è andata via e ci sono i miei due figli a testimoniarlo, mentre Maddy è sola e non le è rimasto altro che quella casa deprimente. Io non credo, però; a Jubilee non si ha tanto riguardo per i sentimenti altrui. Infatti, senza tanti complimenti mi chiedono come mai non sono venuta al funerale; per fortuna ho la scusa della bufera di neve che bloccò i voli quella settimana, perché comunque non so se sarei venuta, dopo che Maddy mi aveva scritto con tanta veemenza di starmene a casa. Mi pareva proprio che avesse il diritto di essere sola, se voleva, dopo tanto tempo.
Dopo tanto tempo. Maddy è quella che è rimasta. Prima se n’è andata lei al college, poi io. Dammi quattro anni, mi disse, e poi io li do a te. Solo che io mi sposai. Il fatto non la sorprese; a esasperarla furono i miei sciagurati quanto inutili sensi di colpa. Diceva che era sempre stata sua intenzione rimanere. Che la mamma non le dava piú «fastidio». «La nostra Mamma Gotica, – diceva. – Ormai la lascio fare, che si sfoghi. Ho smesso di volerla far sembrare umana a tutti i costi. Sai cosa intendo». Sarebbe tanto piú facile dire che Maddy era religiosa, che provava la gioia del martirio, il potente richiamo mistico della rinuncia assoluta. Ma chi potrebbe mai dirlo, di Maddy? Quando eravamo ragazzine e le nostre vecchie zie, zia Annie e zia Lou, ci parlavano di qualche figlio o figlia devoti che avevano rinunciato a tutto per un genitore malato, Maddy citava impietosa il parere della moderna psichiatria. Ciononostante è rimasta. Tutto quello che posso pensare al riguardo, quel che sono riuscita a pensare per consolarmi, è che sia stata capace, che forse abbia perfino scelto di vivere in un vuoto di tempo, in una perfetta libertà immaginaria, come fanno i bambini per i quali il futuro è terreno inviolato e le scelte tutte ancora possibili.
Per cambiare argomento, la gente mi chiede com’è tornare a Jubilee. Io però non saprei, sto ancora aspettando che qualcosa me lo dica, che mi faccia capire che sono tornata davvero. Il giorno dell’ultima tappa in macchina da Toronto, con i bambini sul sedile posteriore, ero stanchissima, dopo un viaggio di duemilacinquecento miglia. Dovevo seguire un complicato itinerario tra statali e secondarie, perché non esiste un luogo sul pianeta dal quale sia facile raggiungere Jubilee. Verso le due del pomeriggio mi si è parata davanti, familiare e inattesa, la vistosa cupola scrostata del municipio, cosí diversa dall’architettura squadrata del resto del paese, in mattoni scoloriti rossi e grigi. (Sotto la cupola è appeso un campanone, da suonare in caso di un’imminente catastrofe di proporzioni mitiche). Ho percorso la via principale – una nuova stazione di servizio, stucchi nuovi sulla facciata del Queen’s Hotel – e ho svoltato nelle vie silenziose e fatiscenti dove abitano le vecchie signorine, quelle che in giardino hanno gli abbeveratoi per gli uccellini, e l’aiuola di delphinium azzurri. Le grandi ville in muratura che conoscevo, con le verande in legno e le zanzariere scure alle finestre spalancate, mi parevano verosimili ma irreali. (Chiunque mi abbia sentita raccontare della sensazione sommersa e trasognata che mi comunicano queste strade vorrebbe portarmi nella zona a nord del paese dove sono sorte una nuova fabbrica per l’imbottigliamento delle bibite, alcune ville nuove in stile ranch e una gelateria Tastee-Freez). Ho parcheggiato in una modesta pozza d’ombra di fronte alla casa dove abitavo una volta. La mia bambina, Margaret, ha chiesto in tono distaccato, ma un po’ incredulo: – È questa qui casa tua, mamma?
E mi è parso che la voce di mia figlia esprimesse una delusione complessa alla quale per carattere pareva rassegnata, per non dire rassegnata in anticipo; conteneva tutta l’estraneità e l’indifferenza del momento in cui si svela la fonte delle leggende, l’ostinata, vergognosa e insoddisfacente realtà. I mattoni rossi dell’edificio apparivano riarsi e bollenti sotto il sole, e attraversati in due o tre punti dal lungo ghigno di altrettante crepe; la veranda che aveva sempre dato l’idea di una decorazione malferma, ora perdeva visibilmente i pezzi. C’era, c’è ancora, accanto alla porta d’ingresso, una piccola finestra cieca a vetri colorati. Sono rimasta a fissarla, stupita per l’assenza di emozioni che provavo riconoscendola. Sono rimasta a fissare la casa e le tende alle finestre non si sono mosse, la porta non si è spalancata, nessuno è uscito in veranda: non c’era nessuno. Me l’aspettavo, perché adesso Maddy lavora nell’ufficio del segretario comunale, eppure mi ha sorpreso vedere la casa assumere un aspetto tanto misero, spoglio e derelitto per il semplice fatto di essere vuota. E mentre attraversavo il giardino per raggiungere i gradini, mi sono resa conto che, dopo tante estati passate sulla costa, mi ero dimenticata l’immenso calore dell’entroterra che ti fa sentire come se dovessi portare sulla testa il peso di quel cielo rovente.
Un cartello appeso alla porta annunciava, nella grafia sciatta e svolazzante di Maddy: I VISITATORI SONO BENVENUTI, BAMBINI GRATIS, TARIFFE DA CONCORDARE (PEGGIO PER VOI…) AC...