– Chi è questo ragazzo?
– È suo nipote, signor Macdonald. Fionnlagh.
Non mi pare proprio di conoscerlo. Vedo che alcuni degli altri residenti, impettiti nelle loro poltrone come conti e contesse, lanciano occhiate a questo ragazzino con i capelli dritti in testa che è venuto a trovarmi. Sono curiosi. Come riesce a farli stare cosí sparati? E perché lo fa?
L’infermiera avvicina una sedia e il ragazzo prende posto accanto a me. Sembra a disagio, ma non posso farci niente se non so chi accidenti sia. – Non ti conosco, – gli dico. Com’è possibile che io abbia un nipote? Ho a malapena l’età per diventare padre. – Che cosa vuoi?
– Sono il figlio di Marsaili, – dice, e sento il cuore fermarsi per un attimo.
– Marsaili? C’è anche lei?
– È andata a Glasgow, nonno, a dare degli esami. Torna tra un paio di giorni.
Questa notizia è come un pugno nello stomaco. – Mi aveva promesso di portarmi a casa. Non ne posso piú di questo albergo –. Passo il tempo immobile su qualche maledetta sedia a guardare fuori dalla finestra. Vedo i bambini dall’altra parte della strada che escono per andare a scuola la mattina, e li vedo tornare il pomeriggio. E non riesco a ricordarmi niente di che cos’è successo nel frattempo. Suppongo di aver pranzato, perché non ho fame. Ma non me lo ricordo.
– Nonno, sai quando ti aiutavo a radunare le pecore per la tosatura?
– Oh, Dio, certo! La tosatura. Un bel lavoro per spaccarsi la schiena.
– Ho cominciato ad aiutarti quando avevo quattro o cinque anni.
– Eri proprio un bel ragazzino robusto, Fin. Marsaili era cotta di te, sai.
– No, nonno, io sono Fionnlagh. Fin è mio padre.
Mi rivolge uno di quei sorrisi che le persone mi fanno un po’ troppo spesso in questi giorni. Un po’ a disagio, come se pensassero che sono deficiente.
– Sto aiutando Murdo Morrison per tirare su qualche soldo extra. Quest’anno gli ho dato una mano anche con l’agnellatura.
Mi ricordo bene la nascita degli agnelli. Il primo anno sull’isola. Non nevica mai, ma può fare un freddo cane e il vento, a marzo, di notte, può segarti in due. Non avevo mai visto nascere un agnellino, e la prima volta mi sentii quasi male. Tutto quel sangue e la placenta. Ma è incredibile vedere una cosina tutta ossa, come un topolino annegato, che fa il primo respiro e i primi barcollanti passi. La vita, nuda e cruda.
Quell’inverno imparai un sacco di cose. Imparai che per quanto dura fosse stata la mia vita al Dean, esistono situazioni molto peggiori. Non che venissimo maltrattati. Non esattamente. Ma sopravvivere richiedeva una gran fatica ed essere un bambino non ti metteva al riparo.
C’erano le incombenze quotidiane. Alzarsi quando ancora era buio pesto, molto prima di andare a scuola, salire in cima alla collina e riempire i secchi alla fonte. Poi bisognava tagliare le alghe in riva. Donald Seamus prendeva un tanto la tonnellata dalle Alginate Industries allo stabilimento di Orasaigh. Era un lavoro bestiale, che ti uccideva: scivolare avanti e indietro sulle rocce nere con la bassa marea, piegarsi in due con un falcetto spuntato per segare alla base le laminarie e le conchiglie incrostate, taglienti come rasoi. Mi pare che le alghe venissero bruciate, e che le ceneri fossero usate come fertilizzanti. Qualcuno una volta mi disse che dalle alghe ricavavano anche esplosivi, dentifrici e gelati. Ma non ci ho mai creduto. Probabilmente lo dicevano perché mi consideravano un tonto, come Peter.
Dopo l’agnellatura c’era il taglio della torba, su dall’altra parte del Beinn Sciathan: noi sollevavamo i pezzi di torba mentre Donald Seamus li tagliava con il tarasgeir e li riuniva a gruppi di tre. Ogni tanto dovevamo rigirarli perché seccassero e indurissero, poi li raccoglievamo in grosse ceste di vimini. Avevamo un pony, ma era in comproprietà con un vicino, perciò quando non era a nostra disposizione dovevamo caricarci le ceste sulla schiena.
Dopodiché c’era anche da lavorare il fieno, tagliato a mano con una falce a formare lunghi fasci. Si portava fuori lo sfalcio e lo si lasciava ad asciugare, pregando che non piovesse. Altrimenti il fieno doveva essere rivoltato, scosso e asciugato di nuovo, sennò sarebbe marcito nelle cataste. Per questo era necessario il bel tempo. Riportato al coperto veniva arrotolato in balle, e finché il fienile non era pieno Donald Seamus non era tranquillo di averne a sufficienza per nutrire le bestie durante l’inverno.
A raccontarla cosí, si penserebbe che non ci fosse quasi tempo per la scuola, ma Peter e io venivamo mandati tutte le mattine con gli altri ragazzini sulla barca per essere poi prelevati dall’autobus e portati a quell’edificio di ferro nervato al bivio per Daliburgh che era la scuola superiore. C’era un altro edificio, l’istituto tecnico, circa quattrocento metri piú avanti sulla strada. Ma io frequentai la scuola solo fino all’incidente di Capodanno. Dopodiché Donald Seamus si rifiutò di mandarmici ancora, e Peter dovette andarci per conto suo.
Non erano cattivi, Donald Seamus e Mary-Ann, ma erano incapaci di dare affetto. Ho conosciuto alcuni bambini orfani che subivano abusi terribili. Non era il nostro caso.
Mary-Ann non parlava quasi mai. A malapena si accorgeva della nostra presenza, se non perché doveva farci da mangiare e lavare i pochi vestiti che possedevamo. Passava la maggior parte del suo tempo a filare, tingere e tessere la lana, e a cardarla in compagnia delle altre donne, tutte sedute attorno a un lungo tavolo in legno, intente a girare e battere il tessuto finché risultava piú spesso e completamente impermeabile. Mentre cardavano, le donne cantavano al ritmo del loro lavoro. Canti senza fine per rendere sopportabile un compito monotono e faticoso. Non ho mai sentito delle donne cantare cosí tanto come nel periodo trascorso sull’isola.
Donald Seamus era duro ma onesto. Se mi prendeva a cinghiate, di solito me l’ero meritato. Però non gli lasciai mai alzare un dito su Peter. Qualunque errore mio fratello potesse compiere, non era colpa sua, e ci volle un confronto tra me e Donald Seamus per mettere la cosa in chiaro.
Ora non ricordo che guaio avesse combinato Peter. Forse aveva fatto cadere le uova nel tragitto dal pollaio alla casa e le aveva rotte tutte. Ricordo che gli era capitato diverse volte, prima che decidessero di non affidargli piú l’incarico.
Ma qualunque fosse la causa, fatto sta che Donald Seamus era furibondo. Afferrò Peter per la collottola e lo trascinò fino al capanno dove tenevamo gli animali, un posto dove faceva sempre caldo e c’era puzza di merda.
Quando arrivai, vidi mio fratello con i pantaloni già calati fino alle caviglie. Donald Seamus lo aveva fatto chinare su un cavalletto e stava sfilandosi la cintura, pronto a dargli una cinghiata. Appena entrai si voltò e mi disse senza mezzi termini di andarmene all’inferno. Ma io rimasi dov’ero e mi guardai attorno. C’erano due manici d’ascia nuovi di zecca appoggiati al muro in un angolo del capanno, e io ne sollevai uno, sentendo il legno freddo e liscio nel mio palmo mentre stringevo le dita e saggiavo il peso.
Donald Seamus si fermò; io lo guardai, senza un battito di ciglia, con il manico d’ascia che mi pendeva al fianco. Era grande e grosso e sono certo che in una zuffa mi avrebbe riempito di botte. Ma io all’epoca ero un ragazzino robusto, quasi un uomo ormai, e con un solido manico d’ascia nessuno dei due dubitava che avrei potuto fargli molto male.
Senza dire una parola, stabilimmo la regola. Se avesse alzato le mani su mio fratello, avrebbe dovuto vedersela con me. Riallacciò la cintura e disse a Peter di sparire, e io posai nell’angolo il manico d’ascia.
Non opponevo mai resistenza quando toccava a me sentire la sua cintura sul fondoschiena e penso che forse quella volta mi picchiò il doppio del solito, come se dovessi essere punito per tutti e due. Ma non m’importava. Un sedere dolorante passa, e io avevo mantenuto la parola data a mia madre.
Fu durante la nostra seconda agnellatura che salvai uno dei neonati da morte certa. Era un animaletto fragile, una femmina quasi incapace di reggersi in piedi, e per qualche ragione la madre si rivoltò contro di lei, rifiutandosi di allattarla. Donald Seamus mi diede una bottiglia con una tettarella di gomma e mi disse di nutrirla io.
Passai quasi due settimane a occuparmene, e certamente la bestiola pensava che fossi io sua madre. La chiamai Morag, e mi seguiva ovunque, come un cagnolino. Veniva giú sulla riva con me quando andavo a tagliare le laminarie e, quando sedevo tra le rocce a mezzogiorno per mangiare i grezzi sandwich che Mary-Ann mi avvolgeva in un pezzo di carta oleata, si accoccolava lí vicino, offrendomi il suo calore e assorbendo il mio. Se le carezzavo la testolina, mi guardava con due grandi occhi adoranti. Amavo quell’agnellino, era il primo sentimento d’amore che provassi per una creatura vivente da quando mia madre era morta. Tranne, forse, per Peter. Ma era un’altra cosa.
È buffo, ma penso che fu grazie all’agnellino se ebbi la mia prima esperienza sessuale con Ceit. O, quanto meno, grazie alla sua gelosia nei confronti di Morag. Sembrerà sciocco essere gelosi di un agnellino, ma va detto che il mio attaccamento a quella piccolina era quasi morboso.
Fino a quel momento non avevo mai avuto alcun genere di rapporto sessuale, e una parte di me riteneva che probabilmente non mi sarebbe mai capitato di averne uno e che avrei quasi certamente passato il resto della mia vita a masturbarmi sotto le lenzuola.
Finché Ceit non si occupò di me. Per cosí dire.
In diverse occasioni si era lamentata della quantità di tempo che passavo con l’agnellino. Prima, lei e Peter mi trovavano sempre al molo quando scendevano dalla barca dopo la scuola, e andavamo a tirare sassi nella baia, oppure scavalcavamo la collina per scendere in quella che lei chiamava «la spiaggia di Charlie», sul lato occidentale dell’isola. Lí non c’era mai nessuno e ci divertivamo un sacco a giocare a nascondino tra le piante e le rovine delle crofthouses, oppure a rincorrerci lungo la sabbia compatta nelle ore di bassa marea. Ma da quando era arrivata Morag, ero stato piuttosto occupato.
«Tu e quella stupida bestia, – mi disse un giorno Ceit. – Non la sopporto piú. Nessuno ha un agnellino domestico! Un cane, magari, ma un agnello?» Il periodo in cui l’animaletto aveva avuto bisogno di me per nutrirsi era finito da un pezzo, ma io non avevo alcuna voglia di lasciarlo andare. Camminavamo in silenzio lungo il sentiero che portava oltre l’emporio di Nicholson. Era una bella giornata di primavera, una dolce brezza soffiava da sud-ovest e il cielo era striato di nuvole alte che parevano ciuffi di lana cardata. Il sole ci scaldava la pelle e l’inverno sembrava finalmente essersi fatto da parte per aspettare quieto l’equinozio d’autunno, quando avrebbe annunciato il suo imminente ritorno trasportato dalle selvagge tempeste di fine settembre. In quei giorni luminosi di fine primavera e inizio estate, però, tutto ciò sembrava lontanissimo.
La maggior parte delle donne sedeva sui gradini davanti alla porta di casa, a filare e tessere. Gli uomini invece erano quasi tutti fuori in mare. Il canto delle loro voci si diffondeva oltre le colline portato dalla brezza, stranamente commovente. Mi faceva venire la pelle d’oca sulla schiena ogni volta che lo sentivo.
Ceit abbassò la voce come se qualcuno potesse ascoltarci. «Vieni da me stanotte, – disse. – Voglio darti una cosa».
«Stanotte? – risposi sorpreso. – Quando? Dopo cena?»
«No, quando sarà buio, quando tutti saranno a dormire. Esci dalla finestra sul retro, ci riesci?»
Ero sconcertato. «Be’, sí… suppongo di sí. Ma perché? Qualunque cosa sia, perché non me la dài adesso?»
«Perché non posso, stupido!»
Ci fermammo quasi in cima alla collina, guardando la piccola insenatura sotto di noi e al di là del Sound, in direzione di Ludagh.
«Troviamoci al molo alle undici. I Gillies saranno a letto per quell’ora, vero?»
«Certo».
«Bene. Allora è deciso».
«Non sono sicuro che Peter riesca a rimanere sveglio», dissi.
«Porco diavolo, Johnny, non puoi per una volta fare qualcosa senza tuo fratello?» Aveva il volto arrossato e una strana espressione negli occhi.
Fui colto completamente alla sprovvista dal suo impeto improvviso. Facevamo sempre tutto assieme, io e Ceit e Peter. «Certo che posso», risposi, un po’ sulla difensiva.
«Bene, allora saremo solo io e te. Alle undici al molo». E balzando lungo il pendio scese dall’altra parte della collina verso il cottage degli O’Henley.
Non saprei dire perché, ma ero eccitato all’idea di sgattaiolare fuori nel buio della notte per incontrare Ceit. E quando finalmente scese la sera e il vento cessò, non riuscivo quasi piú a dominare l’impazienza. Peter e io portammo a termine i nostri incarichi serali e poi cenammo con Mary-Ann e Donald Seamus nel silenzio che seguiva sempre la preghiera. Non lo facevano apposta a non parlare con noi, a dire il vero non si rivolgevano la parola nemmeno tra loro. Di fatto, nessuno di noi aveva qualcosa da dire agli altri. Di che cosa avremmo dovuto parlare? Il ciclo della vita rimaneva praticamente immutato, giorno dopo giorno. Cambiava da una stagione alla successiva, ma anche in questo seguiva il suo corso naturale, e non richiedeva mai alcuna discussione. Non fu da Donald Seamus Gillies né da sua sorella che apprendemmo il gaelico. Peter lo imparò dai compagni di scuola. Durante la ricreazione, ovviamente, non in classe, dove si parlava solo inglese. Io lo imparai dai contadini, alcuni dei quali l’inglese nemmeno lo conoscevano. O se lo conoscevano, non lo avrebbero certo usato per parlare con me.
Donald Seamus fumò per un po’ la sua pipa e lesse il giornale accanto alla stufa, mentre Mary-Ann lavava i piatti e io aiutavo Peter con i compiti. Alle dieci in punto andammo tutti a dormire. Il fuoco fu smorzato per la notte, le lampade vennero spente, e ci ritirammo nelle nostre camere portando nelle narici l’odore di fumo di torba, tabacco e stoppini a olio.
Peter e io dividevamo un letto doppio nella stanza sul retro. C’erano un armadio e un cassettone, e rimaneva uno spazio appena sufficiente ad aprire a fatica la porta. Peter si addormentò nel giro di pochi minuti, come sempre: non l’avrei certo disturbato mentre mi rivestivo e mi arrampicavo fuori dalla finestra. Ma non sapevo se Donald Seamus e Mary-Ann avessero il sonno leggero o pesante. E cosí, prima di incamminarmi per compiere l’impresa quando l’orologio avesse battuto le undici, aprii di poco la porta e tesi l’orecchio nell’oscurità del corridoio. Uno dei due fratelli russava con un’intensità da scala Richter. Se fosse lui o lei non lo sapevo, ma dopo un po’ mi accorsi che c’era un secondo russare, di tono piú alto, intermittente, di gola piú che di naso. Bene, erano addormentati entrambi.
Richiusi la porta e mi avvicinai alla finestra, tirai da parte la tenda per sganciare il saliscendi e sollevai il vetro piú silenziosamente che potei. Peter emise un grugnito e si girò nel letto, ma non si svegliò. Vidi le sue labbra che si muovevano come se stesse parlando tra sé e sé, forse pronunciando le frasi che nessuno mai gli chiedeva di dire durante i pasti. Mi sedetti sul davanzale, feci dondolare le gambe dall’altro lato e mi lasciai cadere sull’erba.
Fuori c’era ancora luce, un lieve ...