– Faccio io, – aveva detto Tina. Sbuffando era andata in cucina a preparare l’infuso alla sorella. Parlava fra sé. – Una ricaduta, ti pareva. Alla vigilia della festa lei cosa fa? Si riammala. E la testa, e gli occhi, e il dolore alle ossa. Tanto ci siamo noi, che problema c’è. Lei a letto, e io a cucinare. Lei a letto, e Agata al negozio, da sola. Non ce la può fare, di sabato, da sola. Ma lei, si sa, è cagionevole. Fragile come tutte le cose belle, diceva la mamma. Eh già, la bella –. Tina invece era alta. Non bella, è diverso. Hai voglia a dire che altezza fa mezza bellezza. Mezza, appunto.
– Ecco, attenta che è caldo. Te lo lascio qui sul comodino. Vado da Agata al negozio. Se hai bisogno chiama, d’accordo?
Olga giaceva nella penombra della camera da letto grande, quella che era stata dei genitori. Il loro letto, fatto fare per le nozze agli artigiani dell’intaglio, aveva sulla testiera due leziosi uccellini becco contro becco, un bacio in volo. Alla parete, sul letto, la Vergine del Pilar.
Una pezza umida le copriva occhi e fronte. Dal panno uscivano solo la punta del naso e le labbra. Le sue celebri labbra di fragola.
– È di tiglio?
– No, Olga. È di ribes. Lo sai che il tiglio non ti favorisce lo stomaco. Allora vado. Prudenza eh, non fare le tue solite pazzie.
Le sue solite pazzie. Da quando era morta la mamma, Tina aveva preso il suo posto. Parlava come lei, si vestiva coi suoi abiti, cucinava le stesse pietanze. La sorella maggiore, sí. Ma certo una a cinquantasei anni non ha piú molta voglia di avere una sorella maggiore di sessantacinque che ti tratta come una bambina. Non sarebbe finita mai, Olga lo sapeva. Tina a borbottare tutto il giorno come la madre, Agata al negozio a stirare i ricami, tutto il giorno a lavorare come il padre e lei, la piccola, a fare la bambina in eterno. Le sue solite pazzie. Se almeno ne avesse fatta una, di pazzia. Se quel codardo di Alvaro avesse avuto il cuore di dire alla moglie che se ne andava sarebbero partiti, finalmente, per andare a vivere in continente in quel paesino di cui lui una volta le aveva detto, ci sono i mulini a vento, Olga, e la chiesa del paese che sembra fatta di zucchero: quando ci sposiamo, ci sposiamo lí. E invece tutta la vita ad aspettarlo, quel bradipo, quell’ipocrita vigliacco, quel mutacico. Le parole le aveva dette tutte al principio, quando lei era la ragazza piú corteggiata del paese e lui la faceva entrare gratis al cinema, quel bel giovane bruno alla cassa, il bigliettaio. Una strizzatina d’occhio, un cenno con la testa, e lei passava. Poi tutte quelle parole all’orecchio che sembravano poemi. Un poeta, un animo nobile. Sei una pazza scriteriata, le aveva detto la madre quando aveva saputo dalla fornaia che Alvaro aveva messo gli occhi addosso alla minore delle sue figlie: sei un’incosciente, quello ha quindici anni piú di te, è sposato, è un vecchio senza morale. Da oggi non esci per un mese, e stai attenta che non si accorga di niente tuo padre che sennò ti ammazza.
Un mese a casa, quella volta. Però Alvaro, che aveva poco piú di trent’anni e vecchio proprio non si poteva dire, era bello come il divo di quel film, Sean Connery, una meraviglia da guardare e un poeta da ascoltare. Le parlava ore e ore, a quel tempo. Lei andava al cinema e quando il film iniziava lui lasciava la biglietteria ed entrava in sala, al buio, a sedersi accanto a lei. Dei film, dopo, si ricordava solo le figure in movimento. Quando a casa le chiedevano: com’era? lei rispondeva sempre: il solito, una storia d’amore. Ecco, era andata cosí, al principio. Poi quel grandissimo furbo aveva smesso di parlare, poco a poco, sempre meno fino a niente. Le faceva dei gesti, e lei – cretina – andava. Quasi vent’anni cosí, tutta la vita. Il padre ci era morto di crepacuore, le diceva sua madre rimasta vedova. L’hai ammazzato tu di dispiacere. Una cosetta leggera. Sempre soave, la mamma.
Oddio che mal di testa. Madonna santa che angoscia la festa stasera, con tutti lí a fare la parata, sempre la stessa, sempre uguale ogni anno, il sindaco il prete il dottore l’avvocato. Tutti vecchi. Io me li ricordo bene, com’erano da ragazzi. A chi vogliono darla a bere. La povera Agata, certo, ingenua e candida com’è, non ha visto la trappola e ci è caduta dentro coi due piedi. Io glielo dicevo, quando andava dietro a Fernando: guarda che quello è strano, non lo vedi come parla, come muove le mani. Ti darà qualche sorpresa. Io ne avevo in mente una precisa, e invece guarda te, non va a farsi prete? Che non era proprio quello che immaginavo ma insomma. E Agata tutta la vita a messa, poveretta. Oddio che male di schiena.
Agata Ferrán era una donna sulla sessantina, nessuno lo avrebbe detto. Snella, gambe nervose, portamento giovanile. Raccoglieva i lunghi capelli neri in una coda che portava sulla spalla sinistra. Tina Olga e Agata Ferrán avevano in paese quattro negozi e un magazzino. Vendevano vestiti, scarpe, bigiotteria. Lei oggi era sola, di sabato, nella filiale piú grande assediata dai turisti. Purtroppo la sorella, Olga, aveva avuto una delle sue ricadute. Poverina.
Una signora tedesca di mezz’età si avvicinò cauta. Agata la guardò. Sembrava uscita da una pubblicità del formaggio spalmabile tirolese. Aveva lunghe trecce bionde, indossava dei calzoncini jeans e una canottiera. Non poté fare a meno di guardarle i seni sodi. Quanti anni avrà avuto? Come faceva a mantenerli cosí?
– Salve, sto cercando una camicia di lino. Con il collo alla coreana. Ne avete?
– Certo, di quale misura? – Un’altra rapida occhiata ai seni.
– Non saprei, è per lui, – la signora si scostò rivelando un bambino grassoccio. Le guance rosee, anche lui indossava i calzoncini, e una maglietta a righe. Teneva la testa bassa. Non voleva stare lí, era chiaro.
Agata sparí dietro la tenda di perline, ricomparve dopo un attimo con una camicia bianca, collo alla coreana. Il bambino se la provò. Perfetta, come sempre, al primo colpo. La signora prese i soldi dal marsupio, il registratore di cassa si aprí con uno scatto, i santini erano attaccati sul lato. Il papa, la Vergine Maria. Richiuse la cassa.
– Grazie.
– Grazie a lei, arrivederci e buone vacanze.
I santini erano un regalo di don Fernando. Agata era cresciuta insieme a lui, per le strade del paese. Da bambini erano anche stati insieme, fidanzati. Un pomeriggio intero, che per un bambino non è poco. Poi lui era diventato prete. «Ho ricevuto la Chiamata», le aveva detto un giorno. Il seminario l’aveva fatto in continente e al ritorno era don Fernando. Agata non ci era rimasta male. Confusa forse, un po’ dispiaciuta magari.
Il campanello suonò e dalla porta entrò Tina sbuffando.
– Come sta la paziente?
– A letto, le ho dato una tisana e le ho detto di evitare la luce.
Agata approvò.
– Qui come sta andando? C’è gente?
– Sí, con la festa di stasera il paese si sta riempiendo. Sono da sola, ma me la cavo.
– Bene, bene. Quanti scontrini?
– Una quarantina, poi è finita la carta. A proposito, l’hai portata?
Tina si batté la mano sulla fronte
– Me ne sono dimenticata. Accidenti, ora devo rifarmi tutte le scale fino su?
– Prova a chiamare la paziente, magari te lo può lanciare dalla finestra.
Tina si avvicinò al bancone, compose il numero di casa.
Primo squillo, questo l’avrebbe ignorato di sicuro. Secondo squillo, si starà chiedendo se rispondere o lasciar perdere. Terzo squillo, era subentrata la speranza che la persona riattaccasse. Quarto squillo, starà pensando che alzandosi ora arriverebbe al telefono giusto in tempo per mancare la telefonata. Quinto squillo, si era addormentata.
Tina riattaccò.
Uscí dal negozio, spazientita, risalí sulla Seicento color crema che suo padre aveva lucidato ogni giorno della vita. Nell’aprire lo sportello dette un’occhiata alla polvere sul vetro posteriore, sentí una fitta. Scacciò il senso di colpa con un gesto del braccio. Ci manca solo che mi debba accollare la pulizia della macchina, con tutto quello che ho da fare. Almeno di questo potrebbe occuparsi Olga, la signorina, la principessa. Ma lei figurati, non alza nemmeno il polso per sollevare la cornetta del telefono, povera piccola. Eh, non sta bene.
– Olga…! – cominciò a chiamare ancor prima di entrare in casa. – Olga, insomma Olga –. Niente, silenzio. Tina aprí la porta della stanza dei genitori, finalmente dopo una vita intera poteva farlo senza bussare come le aveva sempre ordinato sua madre.
– Olga, allora? – alzò la voce.
Dal panno umido sul viso emergevano le labbra, immobili. Tina si avvicinò, tolse la pezza dal volto della sorella e scoprí i suoi celebri occhi d’ambra, enormi, aperti. Olga la stava guardando. – Olga che fai?
Silenzio.
– Sei impazzita? Perché non rispondi?
Silenzio assoluto. Olga la fissava. Che fosse viva si percepiva dallo sbattere delle palpebre, raro e rapidissimo, e da un leggero su e giú delle lenzuola. Respirava.
– Olga, mi rispondi?
Olga si ricordò di quando si nascondeva, da piccola, e si divertiva a farsi cercare da tutti. Dalle sorelle prima, dalla madre poi, anche dal padre alla fine. Non rispondeva, stava rintanata e si godeva quell’ansia, quell’apprensione collettiva, sentiva la paura crescere e pensava che tutti la stavano cercando, tutti si stavano finalmente occupando di lei. Non le importava nulla della punizione che sarebbe arrivata. Era troppo grande il piacere di sentirli tutti in affanno, a pensare oddio e se fosse morta? Se fosse caduta giú dalla scogliera?
Non rispose. La invase un’onda di allegria. Non sentiva piú nemmeno il mal di testa. Esultò in segreto.
Tina alzò il telefono e chiamò al negozio.
– Agata, tua sorella qui sta facendo la morta. Non parla. Non so che le succede. Mi guarda e non parla. Io lo sai che con lei perdo la pazienza, e poi magari sta male davvero. Non so, mi sta venendo un po’ d’ansia. Sarebbe meglio che venissi tu. Vieni?
Agata era con due fidanzati italiani, avevano provato fino a quel momento diciotto maglioncini. Non ne avrebbero comprato nessuno, lo sapeva. Ormai aveva imparato a riconoscerli, quelli che facevano cosí, provavano tutto e se ne andavano.
– Ora non posso, Tina, manca mezz’ora all’orario di chiusura e ho gente in negozio.
– È urgente, chiudi prima. Dài corri che sono un po’ preoccupata. Magari le sta venendo un infarto, un ictus, un’ischemia del mesencefalo, una paralisi. Dài, non mi voglio prendere responsabilità con la piccola pazza. Vieni tu, io magari intanto chiamo il medico.
Agata riattaccò la cornetta e sospirò. Non le piaceva fare le cose cosí, sconvolgendo i programmi. Gli italiani se ne erano andati, come previsto senza comprare niente. Si mise a ripiegare i maglioncini con un po’ piú di lentezza del solito. La seccava turbare l’ordine del negozio per le solite bizzarrie di Olga, ma Tina in effetti aveva un filo di preoccupazione nella voce. Meglio andare. Sistemò sul retro i pantaloni di garza bianca da odalisca appena cuciti, dette un’ultima occhiata alla cassa e ripassò mentalmente i nomi dei santi disposti diritti lungo il bordo destro della tastiera. Spense le luci, abbassò la saracinesca dall’interno, uscí dalla porticina laterale che chiuse come sempre a tre mandate.
Tina compose il numero del medico.
– Pronto?
– Pronto sí, buonasera, sono Tina Ferrán, la chiamo perché mia sorella, Olga, si è sentita poco bene nella giornata di oggi, mal di pancia, di testa. Insomma per farla breve l’ho lasciata un attimo da sola, ma venti minuti eh, del resto non è una bambina, va per i sessanta, comunque quando sono tornata da lei non parlava piú.
– Svenuta?
– No no, sveglia, sveglissima, semplicemente muta. Non credo sia grave, però la cosa mi mette un po’ in ansia, se potesse passare per una controllatina, ecco, le sarei molto grata.
– Non si preoccupi, Tina, sarò lí tra un quarto d’ora, massimo venti minuti.
– Grazie mille, dottore, allora a tra poco –. Che strazio. Tutto questo perché la pazza aveva deciso di esercitarsi prima dell’imbalsamazione. Ma perché c’era sempre lei in casa quando capitavano queste cose? E perché Agata non arrivava? Guardò di nuovo il telefono. Chissà se in una situazione come questa era necessario un parere legale. Alzò la cornetta.
L’avvocato della famiglia Ferrán si chiamava don Rodrigo Cervantes, era l’unico uomo alto quanto Tina in tutta l’isola. Aveva studiato Legge in continente ed era poi tornato per amore del proprietario del bar nella piazza centrale, Manolo, a cui però non aveva mai espresso i suoi sentimenti. Era considerato lo scapolo d’oro dell’isola, titolo che gli aveva fatto guadagnare il posto di consulente legale della famiglia Ferrán, in particolare della signorina Tina.
– Buongiorno avvocato, sono Tina, mi dispiace disturbarla ma avrei bisogno della sua presenza, anche per una consulenza di tipo giuridico –. L’avvocato, in modo molto professionale, ignorò quell’ambiguo «anche» e rispose con la sua voce baritonale.
– Ma ci mancherebbe, signora, di che si tratta esattamente?
– Si tratta di mia sorella, Olga. Non è nulla di davvero urgente ma, come ho detto, preferirei che lei venisse –. L’avvocato sospirò silenziosamente.
– Molto bene allora, sarò lí tra dieci, quindici minuti al massimo. – A tra poco, l’aspetto con ansia –. Tina riattaccò, soddisfatta. Quell’uomo, lui sí che era un uomo con una posizione, un uomo di legge. Non era mica un venditore di biglietti del cinema. Andò in cucina, si versò un bicchiere di vino bianco, un verdejo. Lo bevve in un sorso. Certo questa storia era veramente strana, Olga era sempre stata imprevedibile, ma fino a questo punto. Che stesse davvero male? Dio ce ne scampi. La morte prematura della sorella poteva generare disastri. Tina tornò verso il mobile del telefono, in corridoio. Compose le prime tre cifre del numero ma si fermò. Forse non era il caso di coinvolgere anche il notaio. In fondo se la situazione si fosse stabilizzata e Olga fosse tornata deambulante e ciarliera il gesto di Tina sarebbe stato senz’altro frainteso. Tutti avrebbero pensato a cupidigia, attaccamento al vasto patrimonio. D’altro canto però nel caso le cose avessero preso la peggiore piega come si sarebbe redistribuita la parte di Olga? Sarebbe stata divisa tra lei e Agata? E magari Agata avrebbe speso una piccola fortuna per sovvenzionare la costruzione della nuova chiesa. Che pensiero orrendo. Poi Tina lo vide, nitido nella sua mente: il testamento segreto di Olga. Io Olga Ferrán lascio tutti i miei possedimenti e la liquidità a quello spostato, fallito di Alvaro Pérez, per aver reso i miei anni di gioventú i migliori della vita. Alla faccia delle mie sorelle che sempre sono state gelose.
Non ebbe piú dubbi. Finí di comporre il numero.
– Buongiorno, studio notarile García, posso aiutarla?
– Buonasera, sí, cercavo il dottor García, sono Tina Ferrán –. Doveva essere delicata.
– Pronto Tina! Buongiorno! A cosa devo la telefonata? – Tina immaginò la faccia tonda e rubiconda del notaio, con quei suoi baffi da tricheco e la giovialità cosí poco notarile.
– Salve dottore, niente, la volevo invitare per un bicchiere di vino a casa mia, qui, con le mie sorelle, è da tanto che non ci incontriamo come si deve.
– Oggi...