La paga del sabato
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La paga del sabato

Beppe Fenoglio

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La paga del sabato

Beppe Fenoglio

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Ettore è il tipico disadattato che dalla guerra è uscito scontroso e insofferente, e non riesce a rassegnarsi alla modesta e tranquilla routine di un lavoro qualunque. Per questo decide di darsi ad affari poco puliti e molto redditizi, mettendo a frutto la sua grinta di «duro», di piccolo Humphrey Bogart di paese. Ma quando, costretto a metter su famiglia, si ritira e si mette in proprio con un lavoro onesto, uno stupido incidente volge l'epilogo in tragedia. Del Fenoglio maggiore questo romanzo ha il piglio svelto e concreto, il modo di raccontare per scorci vigorosi, la capacità di consegnare in poche battute personaggi memorabili. Con una nota al testo, un profilo biografico e una bibliografia essenziale.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
ISBN
9788858410219

III.

All’angolo della piazza che prima portava il nome del re incontrò l’invalido Baracca che veniva sulla sua carrozzella tirata dai due cani. Fece con lui la traversata della piazza.
– Non ti ho mai visto in giro a quest’ora della mattina, – gli disse Baracca e Ettore si chinò a carezzare sulla testa il cane di pelo rosso e poi rialzandosi rispose: – È che stamattina vado a lavorare.
Baracca si stupí un po’ e poi gli chiese dove.
– Alla fabbrica della cioccolata.
– Sono contento per te perché è una bella industria.
Lui non voleva che Baracca gli facesse un piú lungo discorso sul suo lavoro e perciò gli domandò dove andava lui.
Baracca andava a mettersi davanti alla stazione, lí faceva accosciare i due cani e aspettava l’arrivo del treno. Faceva delle buone mattinate al treno, perché i forestieri si commuovevano per i due cani. Finito alla stazione, Baracca faceva trottare i cani verso la Cassa di Risparmio, si postava all’ingresso sotto il portico e anche lí prendeva soldi perché la gente che usciva dall’aver maneggiato denaro in banca ne lasciava quasi sempre qualche briciola a Baracca.
«Baracca ha studiato un buon sistema, – pensava Ettore quando l’ebbe lasciato. – Mette a frutto le sue gambe rovinate e si mantiene bene, tanti vorrebbero potersi mantenere cosí. Però Baracca se lo merita perché un giorno ha saputo decidersi. Tutta la città sapeva che era stato un buon operaio e che gli era capitata la disgrazia, ma nessuno si aspettava che pigliasse la strada dell’elemosina, che un giorno si facesse vedere per la città su una carrozzella tirata da due cani e con in mano un mazzo di pianeti di tutti i colori. Il difficile per Baracca e per la gente è stato quel giorno, poi tutt’e due ci han fatto l’abitudine e da allora vive meglio di prima. Anch’io devo combinare in maniera che la gente faccia l’abitudine a qualcosa deciso da me. Devo decidermi, potessi farlo oggi, perché se no corro il rischio di farcela io l’abitudine a lavorare sotto gli altri».
Adesso camminava per una strada secondaria e pensava solo piú che i suoi passi lo portavano a lavorare. Camminava e gli venne in mente suo padre, un quarto d’ora prima, sulla porta della sua bottega. Era commosso a vederlo uscir di casa per andare a lavorare, aveva degli occhi come un cane da caccia. Suo padre gli porse la mano e lui gliela strinse, ma stringendogliela lo fissava come se non lo riconoscesse. E pensava: «Tu sei mio padre? E perché non sei milionario? Perché io non sono nato figlio di un milionario?» Quell’uomo lí davanti gli aveva fatto un torto a farlo nascere figlio di padre povero, lo stesso che se l’avesse procreato rachitico o con la testa piú grossa di tutto il resto del corpo.
Poi pensò a quel tale che fra un quarto d’ora gli sarebbe stato accanto ad insegnargli come si compila una lettera di vettura.
– Cristo, – disse.
Andando aveva visto in un’officina un operaio scappucciare un tornio e non aveva la faccia triste, né stanca né torva. Poi passarono sul loro camion gli operai della Società Elettrica, avevano un qualcosa di militare per le loro uniformi azzurre e il dischetto d’ottone sul berretto e l’ordine con cui stavano seduti sulle sponde del camion. Anche loro non gli apparvero tristi, né stanchi né torvi, gli apparvero invece come estremamente superbi.
Ma lui scosse la testa tutt’e due le volte, finché arrivò davanti alla fabbrica della cioccolata.
C’era già piú di cento operai e operaie, in qualunque direzione guardassero, sembravano tutti rivolti verso il grande portone metallico della fabbrica, come calamitati. Non si avvicinò, anzi si allontanò, andò verso un orinatoio e di là guardava i crocchi dei lavoranti e il portone ancora chiuso. Da dov’era poteva vedere la sirena alta su un terrazzino della fabbrica, e gli sembrava che l’aria intorno alla tromba tremasse nell’attesa del fischio.
Finalmente arrivarono gli impiegati, otto, dieci, undici in tutto, non si mischiarono agli operai sull’asfalto, stettero sul marciapiede. Lui si nascose dietro l’orinatoio e li osservava attraverso i trafori metallici. «Io dovrei fare il dodicesimo», si disse, ma cominciò a scuotere la testa, non finiva piú di scuoterla e diceva: – No, no, non mi tireranno giú nel pozzo con loro. Io non sarò mai dei vostri, qualunque altra cosa debba fare, mai dei vostri. Siamo troppo diversi, le donne che amano me non possono amare voi e viceversa. Io avrò un destino diverso dal vostro, non dico piú bello o piú brutto, ma diverso. Voi fate con naturalezza dei sacrifici che per me sono enormi, insopportabili, e io so fare a sangue freddo delle cose che a solo pensarle a voi farebbero drizzare i capelli in testa. Impossibile che io sia dei vostri.
Ecco là gli uomini che si chiudevano fra quattro mura per le otto migliori ore del giorno, tutti i giorni, e in queste otto ore nei caffè e negli sferisteri e sui mercati succedevano memorabili incontri d’uomini, donne forestiere scendevano dai treni, d’estate il fiume e d’inverno la collina nevosa. Ecco là i tipi che mai niente vedevano e tutto dovevano farsi raccontare, che dovevano chiedere permesso anche per andare a casa a veder morire loro padre o partorire loro moglie. E alla sera uscivano da quelle quattro mura, con un mucchietto di soldi assicurati per la fine del mese, e un pizzico di cenere di quella che era stata la giornata.
Disse di no con la testa per l’ultima volta e si disse che si sarebbe subito messo in contatto con Bianco.
La sirena suonò, fece un rumore modesto che lui non si aspettava cosí modesto, da dentro aprirono il portone, che inghiottí prima le donne e poi gli uomini, gli uomini spegnevano le sigarette prima d’entrare oppure si voltavano con la schiena al portone per consumarle con lunghe boccate frenetiche.
Poi gli impiegati. Prima che sparissero, Ettore cercò d’immaginarsi quale di loro avrebbe dovuto insegnargli le lettere di vettura. Non gliel’avrebbe insegnato, né oggi né mai su questa terra. – Caro mio, – diceva a tutti insieme e a nessuno in particolare, – tu hai la tua esperienza ed io ho la mia. Tu potresti insegnarmi a fare le spedizioni, ma anch’io potrei insegnarti qualcosa. Ciascuno secondo la propria esperienza. Io ho imparato le armi, a spaventare la gente con un’occhiata, a star duro come una spranga davanti alla gente giú in ginocchio e con le mani giunte. Ciascuno secondo la propria esperienza.
Uscí un gigantesco custode in camice nero, guardò a destra e a sinistra lungo i muri della fabbrica, poi rientrò tirandosi dietro un battente del portone.
Ettore partí da dietro l’orinatoio e s’incamminò deciso verso il Caffè Commercio dove sapeva che Bianco dormiva, mentre dalla fabbrica già usciva il ronzio dei motori elettrici.
Camminando ripensava all’ultima volta che si era visto con Bianco, visto a quattr’occhi, perché loro due si vedevano quasi ogni giorno tra la gente. Era stato a Carnevale, nel locale sotterraneo dei fratelli Norse. I Norse avevano aperto quel dancing che la domenica e le altre feste introitava quasi tutto il denaro della gioventú.
L’orchestra suonava tutte canzoni americane e Bianco sedeva al tavolo migliore, lui solo con tre ragazze forestiere, e ordinava bottiglie di spumante una dopo l’altra. Ettore sapeva come Bianco poteva permettersi tutto quello spumante, e forse lo sapeva anche qualcun altro, ma certo non con la precisione di Ettore.
Bianco era stato un eroe in guerra, una volta aveva fatto ai tedeschi una cosa che pochi in Italia, e pochi anche in Russia e in Polonia, han fatto ai tedeschi.
Bianco, Ettore lo vedeva, era sull’orlo d’una sbornia tremenda e non faceva niente per tirarsi indietro, le tre ragazze con lui boccheggiavano addirittura.
Ettore stava al banco, aveva in mano un bicchiere di porcheria all’americana, dentro aveva una rabbia e la voglia di lasciar cadere apposta il bicchiere e se uno dei fratelli Norse si fosse avvicinato a dirgli di fare piú attenzione lui gli avrebbe tirato un pugno sugli occhi. Stava cosí, ma teneva gli occhi, che un poco gli ballavano, sempre su Bianco. E cosí vide quando Bianco tirò uno schiaffo a una coppa, batté il pugno sul tavolo e spazzò via quelle tre ragazze. Ettore strinse la bocca e guardò in fondo al suo bicchiere. Quando rialzò gli occhi, in sala non c’era piú nemmeno una vibrazione di quello che era successo, l’orchestra aveva attaccato un ritmo e Bianco stava con la bocca aperta vicina al petto.
Poi Bianco guardò a lui con occhi strabici per l’ubriachezza e gli fece segno di andare a sedersi con lui. Ettore portò con sé il suo bicchiere perché ci teneva a far vedere che lui non andava da Bianco per scroccare. Quando si staccò dal banco e fece il primo passo, solo allora si accorse che sbandava un po’ e col movimento prese ad ondare anche il suo cervello.
Bianco fece con le mani un po’ di segni in aria e poi gli disse: – Hai visto come ho fatto sparire quelle tre puttane di fuori?
Ettore non disse niente, sapeva che le tre ragazze non valevano quattro soldi di rispetto, ma il gesto di Bianco era di quelli che non gli piacevano affatto.
Allora Bianco disse: – Sai, io sono arrivato alla conclusione che le donne non servono a niente, che a starti vicino addirittura ti sporcano. Per me, non c’è niente di piú bello, di piú pulito e di piú completo che una vera amicizia tra uomini. Dopo tutto a questo mondo non si sta bene che tra uomini.
In quel momento a Ettore il cervello gli si afflosciò dolcemente, il petto gli si slargò e lui disse con voce lenta, col bicchiere in mano, come un attore: – L’amore dell’uomo per la donna cresce e diminuisce come fa la luna, ma l’amore dell’uomo per l’uomo, del fratello per il fratello, è fermo come le stelle ed eterno come la parola di Dio.
Era la prefazione di una pellicola americana che Ettore aveva visto in quei giorni e gli era rimasta impressa tanto che la sapeva a memoria. Ora che l’aveva detta a Bianco, continuava a fargli effetto nelle orecchie e nella mente, anche perché mentre la diceva suonavano una bella musica lenta.
Bianco allargò gli occhi, gli disse: – Dimmelo ancora una volta, – ma poi non gliene lasciò il tempo, gli disse: – Tu sei in gamba, Ettore, tu sei un tipo completo. Sei deciso ed ardito, e sei anche intellettuale –. Ruttò. – Scusami. Senti, io faccio dei gran soldi coi miei affari, e ne faccio fare anche a Palmo che è il mio uomo fisso e anche a quelli che prendo a giornata. Ho voglia di fartene fare anche a te. Palmo fa il suo dovere, ma è un bue. Tu invece sei intellettuale. Voglio proprio prenderti con me nei miei affari. Su, stacci, mettiti con me.
Ma Ettore guardò in fondo al suo bicchiere e scosse la testa.
Bianco sgombrò col braccio la sua parte di tavolo, puntò i gomiti dove aveva sgombrato e si protese verso Ettore. Dall’orchestra partí il primo soffio di un motivo sentimentale e allagarono la sala di una luce azzurra come quella dei postriboli.
Bianco si guardò intorno. – Cosí va bene, – disse, – cosí posso parlarti meglio dei miei affari –. Cominciò a parlargli dei suoi affari, poi prese a fargli degli esempi, Ettore si dimenava sulla sedia, perché Bianco aveva solo l’impressione di star parlando sottovoce, invece si sentiva chiaro tutt’intorno al loro tavolo, e a sfiorare il loro tavolo venivano delle coppie che ballavano ad occhi chiusi, qualcuna restava lí per dei minuti, dondolando appena sul tempo della musica.
Ettore lo toccò col gomito, Bianco si voltò e diede uno spintone al ballerino dicendogli tra i denti: – Vai a fare il moribondo da un’altra parte, – e quel ballerino, curvatosi e riconosciuto Bianco, se ne andò con la dama da un’altra parte.
Poi lo slow finí, tornò la luce bianca in sala e Bianco non la smetteva di parlare dei suoi affari, Ettore sorvegliava con la coda dell’occhio la ronda dei carabinieri che era scesa allora nel locale.
Decise di finirla e disse: – Basta, Bianco, è inutile che tu la fai lunga, io li so benissimo i tuoi affari, – e siccome Bianco incredulo aveva alzato i sopraccigli, Ettore gli accennò, una cosa per tutte, di un certo affare di macchine.
Bianco strinse la bocca come un ubriaco non avrebbe potuto stringerla e si tirò tutto indietro.
– Pe...

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Stili delle citazioni per La paga del sabato

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Fenoglio, B. (2013). La paga del sabato ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3426384/la-paga-del-sabato-pdf (Original work published 2013)

Chicago Citation

Fenoglio, Beppe. (2013) 2013. La Paga Del Sabato. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3426384/la-paga-del-sabato-pdf.

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Fenoglio, B. (2013) La paga del sabato. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3426384/la-paga-del-sabato-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Fenoglio, Beppe. La Paga Del Sabato. [edition unavailable]. EINAUDI, 2013. Web. 15 Oct. 2022.