Momenti trascurabili vol. 3
eBook - ePub

Momenti trascurabili vol. 3

  1. 136 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Momenti trascurabili vol. 3

Informazioni su questo libro

E se nella vita non esistessero momenti trascurabili? Dai calzini irrimediabilmente spaiati alla cartomante che predice un nuovo amore a tua moglie, il divertimento di vivere ogni istante (anche quelli che dimenticheremmo volentieri) ormai lo conosciamo bene. E non ci stancheremo mai di ritrovarlo.
«Ogni singolo gesto, i sapori, l'aria, il tempo, la stoffa, la strada, la persona accanto, il profumo, il panorama, il vento, la porta, il sorriso. Tutto, tutto. La vita non finisce piú, se si sa comprendere ogni singolo momento di un giorno solo».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806231569
eBook ISBN
9788858433744

Momenti trascurabili vol. 3

Proprio le cose cui si è appena badato durante il giorno, le idee non chiarite, le parole dette senza pensarci e alle quali non si è prestata attenzione, tornano di notte in immagini concrete e vive, e diventano oggetto dei sogni, quasi a rivalsa di essere state trascurate.
BORIS PASTERNAK, Il dottor Živago
Da anni, io e mia moglie discutiamo sempre della stessa cosa: del presente e del futuro. Io penso al futuro continuamente – lei dice: ossessivamente. Lei pensa al presente continuamente, anzi ossessivamente. Abbiamo scoperto che in ogni evento della vita, anche scegliere se comprare pane bianco o integrale oppure decidere chi porta il bambino in piscina, la questione del presente e del futuro si ripresenta ogni volta. Se per esempio dico che bisogna pagare il nuoto, e dico paghiamo ogni mese o in una rata unica?, lei mi guarda con l’espressione filosofica di chi conosce le cose del mondo, e dice: in una rata unica? E se poi moriamo? Paghiamo un mese alla volta.
Mia moglie è contraria a ogni prospettiva che scavalchi la settimana corrente. Dice: e se poi moriamo, che ci occupiamo a fare di cosa deve succedere lunedí prossimo?
Dobbiamo mettere un po’ di soldi da parte, dico io, diventeremo vecchi e dovremo sopravvivere, abbiamo dei figli, il nostro compito è anche quello di costruire, di pensare, di progettare. E lei mi guarda come se conoscesse davvero come è fatto il mondo, e dice: e se poi moriamo? Cosí, vuole fare un viaggio nei paesi tropicali, vuole comprare i vini piú costosi del mondo, vuole fare esperienza di qualsiasi cosa (vabbe’, non proprio qualsiasi – cioè non lo so, spero non proprio qualsiasi…), perché dice: facciamola, possiamo morire all’improvviso e non l’abbiamo fatta.
È facile immaginare la sua espressione, quindi, se provo ad avanzare l’ipotesi di acquistare una casa, facendo un mutuo: un mutuo mensile lo possiamo pagare, certo dobbiamo stare un po’ attenti, ma è importante fare un investimento in modo che poi, quando diventiamo vecchi – lei mi guarda e dice: e se poi moriamo?
Per mia moglie, quindi, il futuro non esiste. Esistono tanti presenti consecutivi di cui dobbiamo subito approfittare perché potremmo morire all’improvviso.
Quando dice queste cose, quando dice prendiamo tutti i soldi che abbiamo e andiamo in Polinesia, che ce li teniamo a fare i soldi, e se poi moriamo? – io mi chiedo sempre: ma se poi moriamo, chi se ne importa di essere andati in Polinesia? Cioè, quando siamo morti, a chi lo diciamo che siamo stati in Polinesia? Che differenza c’è tra un morto che è andato in Polinesia e un morto che non ci è andato? Mettiamo anche che ci sia davvero il Paradiso e ci sia davvero San Pietro sulla porta, cosa gli diciamo: guardi che però noi siamo andati in Polinesia? Lui probabilmente risponderà: e a noi che ce ne importa, scusi.
Lo so che è piú simpatica mia moglie; lo so che appena ho parlato di accendere un mutuo, l’interesse su di me si è afflosciato; lo so che poiché lei vuole sperperare tutti i soldi appare molto affascinante, seducente; e lo so che poi se devono fare un film, fanno un film su un professore che dice ai suoi studenti di cogliere l’attimo fuggente e non su un signore che mette da parte i soldi destinati all’iva cosí quando deve pagarla ce li ha perché è stato previdente. Però, del resto, la questione della vita è che esistono sia il presente sia il futuro. Ed è assolutamente vero che succede troppe volte che uno fa tanti progetti, pensa alla sua esistenza come a un periodo lunghissimo in cui fare molte e diverse esperienze, e all’improvviso muore e tutto questo non ha avuto nessun senso; lo so. Però c’è una questione di cui mia moglie non tiene conto, anche se il suo ragionamento è legittimo: mia moglie elimina dalla sostanza della vita una questione perfino piú probabile di quella che pone lei.
E se non moriamo?
Perché è verissimo che possiamo morire all’improvviso investiti da un’auto o in un incendio o per una malattia grave o per un infarto. Ma se non succede?
Se poi diventiamo veramente vecchi e tutti i soldi li abbiamo spesi in Polinesia o non so dove altro, cosa ci diciamo, che purtroppo non siamo morti e adesso non abbiamo piú niente? Ci chiediamo: ma perché non siamo morti, mannaggia?
Cosí, alla fine, tutte le discussioni tra me e mia moglie si condensano in questo dialogo di essenzialità filosofica.
Lei dice: e se moriamo?
E io dico: e se non moriamo?
Il presente e il futuro in questo dialogo esistenziale si biforcano, si mettono contro, diventano due schieramenti avversi che vogliono ottenere uno piú voti dell’altro. Ma la verità è che il presente e il futuro si combinano, non si oppongono. Sono uno conseguenza dell’altro. E che si può prendere tutto ciò che si può dal presente ma continuando a tenere un piede nel futuro, nell’eventualità che una tragedia improvvisa non ci colpisca. Perché è assolutamente vero che può colpirci; ma è altrettanto vero che può non colpirci.
E cosí devo sempre confessarle che io al futuro ci penso, non posso farne a meno. Il fatto stesso di essere uno che scrive è fonte di progettualità, tempi lunghi, idee che qualcuno vedrà dopo qualche anno. Se dovessi pensare: e se muoio?, non scriverei piú.
Mia moglie annuisce, per niente convinta. E poi appena ci dicono che qualcuno ha avuto un infarto, una malattia grave, un incidente – non voglio dire che è contenta, per carità, anzi; è dispiaciutissima. Però conserva la lucidità di venirmi subito a cercare per dire: lo vedi? Lo vedi la vita com’è? È inutile costruire, fare un progetto, perché se poi fai un incidente, hai un infarto o scopri una malattia grave… L’unica cosa sensata da fare nella vita è prendere un aereo e andare in Polinesia (io poi non so cosa ci sia in Polinesia che la attira tanto).
Ma allora, se davvero vogliamo andare fino in fondo alla filosofia di mia moglie, quando mi propone il viaggio in Polinesia perché tanto poi moriamo, potrei dirle con la stessa logica: che ce la siamo goduta a fare la vita, se poi moriamo? O in modo piú definitivo: vivere? E che viviamo a fare? E se poi moriamo?
Quando sono di malumore, la mia famiglia non mi sopporta. Quando sono di buonumore, la mia famiglia preferiva quando ero di malumore.
Chi mi darà indietro tutto il tempo perduto a districare i fili degli auricolari?
La lavatrice divide una coppia di calzini per tutta la vita.
Ci sono due cose che non riesco a fare piú, man mano che passano gli anni e la mia pigrizia cresce: mettere benzina e fare il bancomat. E cosí tutti i giorni il mio cervello è impegnato a occuparsi del bancomat e dei distributori di benzina. Ci passo, li guardo, penso che non ce la faccio a fermarmi, spegnere il motore, scendere dal motorino, digitare il pin, oppure aprire il serbatoio. Sono azioni semplici, quotidiane, ma io non ho la forza di farle. Rimando. Rallento, guardo lo sportello del bancomat o il benzinaio accanto alla pompa, liberi, che mi aspettano, e mi dico: domani. (Non conteggio le volte in cui quando sto per fermarmi vedo che c’è qualcun altro a fare il prelievo o a fare benzina, perché non prendo nemmeno in considerazione la possibilità di aspettare).
Tutto ciò è insensato, lo so. Anche perché di continuo mi dico: devo fare benzina, devo fare il bancomat. Penso: ma che ci vuole, è possibile che sono diventato cosí pigro? E allora mi dico: domani lo faccio, giuro.
Intanto i giorni passano. Nel portafogli i contanti diminuiscono, resto con cinque o dieci euro piú qualche spicciolo; nel motorino la benzina diminuisce, il serbatoio è in riserva, ma pur di non fermarmi calcolo che ce la faccio ancora, in fondo oggi devo arrivare solo fino a lí e tornare, poi domani giuro che faccio benzina. Intanto spendo quei cinque o dieci euro e quegli spiccioli, poi pago con la carta di credito anche due caffè, poi dico paghi tu per favore che non ho soldi, devo fare il bancomat?
E poi il motorino si ferma, per strada. La prima cosa che penso è che si è rotto, non accetto che la benzina sia finita, secondo i miei calcoli un altro po’ ce n’era, e poi domani sarei andato al distributore, mannaggia. E penso che devo portare a mano il motorino oppure lasciarlo lí e andare al distributore con una tanica. Vado, con gran fatica. Arrivo al distributore e mi accorgo della questione tragica: non ho soldi, non ho fatto il bancomat.
Non ho mai promesso a me stesso, in queste circostanze: giuro che adesso la smetto di essere pigro con bancomat e benzina. Non ho mai imparato la lezione.
Anzi. Penso che dovrebbero inventare un servizio di consegna a domicilio di contanti e di benzina. Uno chiama, e ordina a qualcun altro di prelevare al bancomat o di fare il pieno al motorino. Suonano alla porta e ti danno i tuoi contanti; suonano al citofono, scendi (sarebbe ancora meglio lanciare le chiavi dalla finestra e poi loro te le lasciano nella cassetta della posta), hanno portato la tanica e riempiono il serbatoio.
La macedonia, no.
Le persone che lavorano nei forni o nelle salumerie, poi per strada, vestite normalmente, non le riconosci.
Mi piace molto scendere le scale.
In qualsiasi posto del mondo vada, se dall’aereo si vede l’edificio blu con la scritta gialla IKEA, io mi sento tranquillo, nessuno potrà farmi del male.
Sono davvero grato a chi ha inventato il piccolo pungiglione sul tappo del dentifricio, per rompere l’involucro quando lo si apre la prima volta.
Solo che non è stato abbastanza bravo anche nella comunicazione; perché io me ne sono accorto molto tardi, non lo sapevo, e ho continuato per anni a sfregiare il dentifricio con mezzi di fortuna.
Quando si fanno le cose, soprattutto quando si fanno le cose buone, bisogna imparare a comunicarle.
Quando passa l’ambulanza a sirene spiegate, non si capisce perché i guidatori delle auto che seguono sentono il dovere di accelerare anche loro.
Un rumore di tacchi nel corridoio di un albergo, che si avvicina. Immaginare chi possa essere. Immaginare che quei tacchi si fermino davanti alla porta.
Invece proseguono e si allontanano.
Quando una donna dice: con quello non scopo bene, tu sei sempre un po’ contento, anche se non c’entri niente.
Quando sei per strada e sei avvilito perché non sai bene dove andare, e a un incrocio appare quella meravigliosa freccia che dice: TUTTE LE DIREZIONI.
La mattina mi sveglio presto, perché spero di avere il tempo di bermi un’enorme tazza di caffè e leggermi i giornali sull’ipad. Ma mio figlio, che è piccolo, sente i miei passi, mi chiama e dice: ho finito di dormire. In quel momento a me prende un crampo allo stomaco, una specie di materiale pesante che si piazza sullo stomaco e poi tende a scavare come se volesse penetrare.
Mio figlio comincia a farmi domande. Io ho i pensieri ancora annebbiati, voglio leggere il giornale e voglio bere il caffè, ma ho questa specie di sottofondo che richiede attenzione e gliela devo dare, quindi un po’ cerco di godermi le mie cose, un po’ do retta a lui, e non mi godo davvero né il caffè né il giornale – e non do davvero retta a lui.
Poi si sveglia mia figlia, che è un’adolescente, quindi vuole che il caffè esca nel momento esatto in cui lei mette piede in cucina, altrimenti si innervosisce. E poiché è adolescente e appena sveglia, non bisogna sbagliare una sola parola altrimenti diventa una belva. Io sto zitto. Cosí lei mi dice: non mi parli, non mi chiedi mai niente. Lo so che è una trappola, però che devo fare: le chiedo qualcosa. E lei diventa una belva. Ma non voglio che s’innervosisca, cerco di fare tutto bene (non ci riesco, lo so, ma ci provo), e qualche volta, una mattina ogni dieci, lei non si incazza e sono contento. Intanto però questo crampo allo stomaco, da quando lei è entrata in cucina, è raddoppiato.
Preparo la colazione a tutti e due: lei vuole il latte parzialmente scremato e lui intero, quando lo verso mi controllano. Poi mi siedo con loro e cerco di stare attento perché arriva sempre il momento in cui mio figlio vuole aprire da solo la busta dei corn flakes, che è l’elemento inventato dall’umanità per educare a misurare la forza: se ce ne metti poca non si apre, se ce ne metti troppa si squarcia e volano i corn flakes per tutta la casa, e le braccia per il rinculo si aprono a grande velocità colpendo parecchie cose.
Dico sempre: faccio io. Lui dice sempre: no, faccio io.
E tutti suggeriscono che è giusto che impari a fare le cose da solo. Dico: però ci sta mettendo un sacco di tempo a imparare ad aprire la busta dei corn flakes. Mi rispondono: è normale, bisogna incoraggiarlo. E noi tutti sappiamo che il giorno in cui aprirà dolcemente la busta dei corn flakes e nemmeno uno volerà per la stanza, sarà diventato un maestro zen. E anche io, a quel punto, sarò diventato un maestro zen. (E due maestri zen in una casa credo siano troppi).
Leggo i giornali male, bevo il caffè male, faccio colazione male, rispondo alle domande di mio figlio male, e non riesco a impedire che faccia danni. Mia figlia sbuffa o urla o scuote la testa per dire: sei assurdo. Non so perché pensa che sono assurdo, ma lo pensa. Non a proposito di qualcosa, lo pensa in generale.
Invece la mia vita cambia completamente quando dormo fuori per lavoro.
La mattina apro gli occhi e mi rendo conto dopo pochi secondi che non devo preparare il caffè a nessuno, e nessuno si incazzerà con me, anzi posso scendere a fare colazione nella grande sala dell’albergo, dove c’è qualcuno che si occupa di me, mi chiede cosa desidero e io desidero un sacco di cose.
Posso leggere il giornale, assaporare il caffè, fare colazione con calma, e anche se per istinto mi guardo intorno di continuo per vedere se è tutto a posto, è sempre tutto a posto. In un albergo sconosciuto di una città sconosciuta si affaccia il tempo precedente, quando non avevo figli, un tempo che io non ricordo piú e che non riesco piú a ricomporre nella mia memoria, e invece qui all’improvviso appare, per un attimo – ma è solo un attimo. Perché proprio mentre sto per risentire il sapore di quel tempo, si ripresenta quel materiale che preme sullo stomaco, anche se qui è meno pesante, preme di meno, come se ci fosse, però con la sordina.
Succede perché inevitabilmente, con il caffè e il giornale e i cornetti alla crema davanti, sento con chiarezza che da qualche altra parte qualcuno, lontano, a casa mia, deve fare in tempo il caffè a mia figlia, deve stare attento mentre mio figlio apre la busta dei corn flakes, deve versare latte intero e parzialmente scremato, deve rispondere a domande che spesso non hanno una risposta possibile. Lo farà mia moglie, che deve svegliarsi prima quando io non ci sono. Lo farà anche meglio di me, credo. Comunque non posso bere il caffè e leggere il giornale e fare colazione senza questo crampo allo stomaco, anche qui in albergo, anche se piú lieve, piú sopportabile. Ma quando il crampo è tornato qui con me, allora sento che sono finalmente io, e penso che questo crampo allo stomaco sia la cosa piú bella che mi sia capitata nella vita.
La domenica, qualsiasi posto tu voglia raggiungere, non puoi.
Tra te e quel posto c’è sempre una maratona.
Mi piacciono tutte le donne che vivono nel mio quartiere. Tutte, nessuna esclusa: giovani, anziane, alte, basse, belle, brutte, simpatiche o dal pessimo carattere. Mi piacciono anche quelle che non mi piacciono.
E invece, man mano che abitano piú distanti, mi piacciono di meno.
È la prima cosa che chiedo quando incontro qualcuna: dove abiti? Quelle che abitano lontano, o lontanissimo, non mi piacciono. E se mi piacevano prima che mi dessero l’indirizzo, poi non mi piacciono piú.
In amore, la questione piú importante, per quanto mi riguarda, è la distanza. È un criterio. Discutibile. Ma non me lo sono imposto: è conseguenza di un istinto. La regola unica che mi sono dato non è conseguenza di fatti accaduti, ma al contrario, del mio istinto sentimentale: non mi sono mai innamorato, fin da piccolo, di bambine, ragazze o donne che abitavano molto lontano. E sono sempre stato fortemente attratto da qualsiasi donna abitasse nei dintorni.
Cioè, per capirci, quando ero ragazzo a un certo punto mi sono fidanzato seriamente con la ragazza che stava al piano di sopra. Fino a ora, rimane il periodo piú felice della mia vita. Abitava nel mio stesso stabile. Ci siamo lasciati soltanto quando...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Momenti trascurabili vol. 3
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Dello stesso autore
  7. Copyright