La corriera lo lasciò sotto Pietrabruna. Spariti subito nella curva i due compagni di viaggio, posò la valigia sul parapetto e si fermò a guardare. Si vedevano frane aggrappate alla collina e uliveti dentro voragini luminose. Era luce di mare. Si saldava alle cime, ai crinali, sino a Pietrabruna.
«Chissà se è calma, o infelice, o nervosa, – pensava, – chissà com’è Clara…» L’aveva lasciata che un’ombra di malinconia le percorreva la fronte, gli occhi pagliettati di sole.
Prese la valigia e cominciò a salire tristemente. Adesso la luce veleggiava sulle montagne. Qualche colpo di vento.
Era ormai sulla strada di casa. Riconosceva il mormorio della terra scoscesa, come quando vi giungeva, passato il mare, nel ricordo.
– Arrivi? – gli chiese Luca seduto sul margo, fra ginestre che mandavano odore dolciastro.
– Non ti fa piacere vedermi?
– Sono molto contento. È piú la gente che va che la gente che viene. T’aiuto a portare la valigia?
– Sei piú anziano di me, non voglio approfittare.
– Ero abituato a portar pesi.
– Non è una buona ragione. Non so perché, la corriera mi ha lasciato là sotto.
– La strada è stretta e di sopra c’è una frana.
– È piovuto tanto?
– Macché, niente! Ma è franata lo stesso. Tutto il paese è su una frana. Non ti siedi?
Edoardo guardò in alto: il paese sembrava addormentato. Prendeva il sole di sbieco. Doveva essere caduto da poco il vento. Le farfalle si alzavano con delicatezza dalla polvere.
– Com’era la tua nave? Era bella?
– Non ci crederai, ma era colore del fango.
– No, non ci credo, – disse Luca. Rise. – Una nave di fango non l’ho mai vista. Ho visto paesi di fango.
– Da lontano poteva prendere altri colori, tutti i toni dell’oro.
– Vedi che cambi idea. Da giovane ho sempre sognato di navigare. Ancora adesso farei un viaggio. Potrei essere utile?
– Certo che potresti. Ma è un mestiere da poco, – disse Edoardo. E guardò le terrazze, dove passavano cirri in un volo arioso.
– Di noi abbiamo già parlato troppo, parliamo del paese.
– C’è poco da dire. È sempre uguale.
– Va fin troppo bene, coi tempi che corrono.
– Parliamo del mare, piuttosto.
– Il vico della Palma esiste sempre?
– Il vico esiste, ma la palma l’ha spezzata il vento, una notte di marzo.
– È sempre abitato?
– Sempre le stesse persone. Ma dovresti saperlo. In fondo non manchi mica da tanto. Da qualche anno…
– Andavo e venivo. Non conosco quasi piú nessuno.
– Che cosa vuoi sapere?
Edoardo non rispose. Guardava un fragile amalgama: una farfalla su un fiore ondeggiante.
A quel vico pensò alla sera, a quel lastrico, all’orto, a Clara che vi abitava. «Domani la vedrò, o dopodomani, o un altro giorno». L’azzurro se ne andava, dietro i picchi.
Non aveva voglia di uscire. Se ne stava alla finestra e guardava: il cielo si staccava dalle colline mano a mano che si oscurava, il mare sempre piú scarno tremava in una luce lontana.
Il mattino andò ad aspettarla. C’era il tronco di palma, il glicine, il muro pieno di sole. Non la vide passare.
Arrivò al bar, sedette sul terrazzo. Il mare era alto all’orizzonte. Luminoso tra le rupi, veniva a riva in silenzio. La sua luce tagliava le colline, poi s’inerpicava.
Cercò un telefono, compose il numero del museo dove lei lavorava. Sentà la voce, un: – SÃ! – mormorato e sospeso.
– Sono Edoardo, sono tornato.
– Sono cosà contenta –. Si riprese subito: – Dove sei adesso?
– A Pietrabruna.
– Puoi scendere? Sei stanco? – la voce si faceva apprensiva. – Ma no, aspettami! Salgo io a mezzogiorno. Puoi aspettarmi?
– Sono venuto solo per questo.
Fece un giro largo per tornare a casa. (Abitava all’altro capo del paese, al di là della chiesa seicentesca, quasi spagnola). S’inoltrò nel bosco a tramontana.
Sul pendio silenzioso ardeva l’oro delle eriche arboree.
Per terra, altre eriche, erbacee, a chiazze viola. Piú in là si alzavano «terche», con corvi appollaiati e rosmarini sereni. Si vedeva di nuovo il mare.
A mezzogiorno giunse Clara e osservò quelle eriche. – Dove le hai raccolte?
– Sotto Pietrabruna, sull’altro versante.
– Il dorato e il viola: i miei preferiti.
– Lo sapevo.
– Dipende anche dai giorni.
Raccolse dal tavolo rami e steli, fece un bel vaso.
In lei tutto dipendeva dai giorni: la gioia, il dolore, le cose piú futili e le piú intime.
– Andiamo a mangiare fuori?
– Hai fame?
– Non troppo.
– Restiamo qui, allora.
Prese il vaso che aveva appena composto, lo sollevò con le due mani, lo collocò sulla credenza. Adesso le eriche infrangevano la piena luce di mezzogiorno.
– Quando sei arrivato?
– Ieri, – disse Edoardo. Aveva pensato a lei tutta la sera in un gorgo di ricordi.
– Perché non mi hai cercata? Ero cosà stanca di non vederti. È un po’ che aspettarti è diventata una sofferenza.
– Forse devo ripartire di nuovo –. Vide i suoi occhi indurirsi. – Dammi tempo ancora una volta. Poi mi fermerò.
Gli si diede senza una parola. Le palpebre ancora abbassate, gli domandò se voleva che si cercasse un altro. Una luce a chiazze le pioveva addosso, dorava una gamba piegata e un braccio posato sul seno. «Guardala, – disse a se stesso, – in questa luce che la cerca, nel suo abbandono. E ricordala». Poi lei si alzò. Lo splendore le scendeva dai capelli lungo la schiena. Andò a rivestirsi in un angolo, in un mosaico d’ombre.
– Ci rivedremo, – disse. – Se non vuoi perdermi sai come fare.
Tornò al bar. Sul terrazzo, guardò di nuovo il mare, le sue alture nel cielo secco. Gli veniva voglia di starsene al sole, fermo come un ramarro nella polvere della strada. Non partire piú per quel celeste dai confini scoscesi.
Si avvicinò la donna che prima gli aveva portato il caffè.
– Bella giornata!
Parlava con accento inglese.
– SÃ, anche troppo.
– È la prima volta che viene a Pietrabruna?
– Ci sono nato.
– Non l’ho mai vista.
– Navigavo.
– Io ho un fratello in marina. In Inghilterra, nella marina militare.
– E lei dall’Inghilterra è finita qui, su queste frane?
– Mio marito è di Pietrabruna, l’ho conosciuto a Jersey.
Foglie di leccio le caddero sulle spalle. Le tolse posandole nella tazza che aveva ritirata dal tavolo.
– Nella marina militare… – disse come tra sé, – è una gran bella cosa… Signora, potrei telefonare?
– Telefoni quando vuole.
Andò dentro e chiamò François il Tolonese.
Un «Allô» secco.
– Sei François? Ti ricordi di me? Sono Edoardo di Pietrabruna.
– Come se ti avessi visto ieri… Quanti anni abbiamo navigato insieme?
– Otto o nove.
– Di piú… C’era anche Kerber. Hai saputo che è morto con gli stivali ai piedi?
– Senti, François, avrei bisogno di un imbarco.
– Chi ti ha dato il mio numero?
– Tu stesso, tre anni fa, là sul porto di Tolone.
– Già , mi ricordo… hai bisogno di guadagnare…
– Un paio di viaggi, per farmi le ossa, qualche mese, non anni… su qualunque carretta.
– Per te una carretta c’è sempre… Ti ascolta qualcuno?
– Sta’ tranquillo.
– Al carico ci penso io… Hai un telefono?… Non ce l’hai?… Richiamami fra cinque giorni, o vienimi a trovare. Addio, «mon vieux».
Ripose nel portafogli l’indirizzo del compagno di un tempo. Non aveva mai pensato che se ne sarebbe servito per concludere la sua carriera e ne era avvilito. Uscà dal bar, attraversò il paese pensando alla sua vita: anni volati via sul mare, da un imbarco all’altro, un continuo andare… per poi entrare nel crepuscolo a vele ammainate…
Lasciò i vicoli, andò lungo una muraglietta diroccata per una strada aperta a occidente. Laggiú l’ultimo azzurro impallidiva, varco diafano in un cielo che bruciava.
Sulla porta di casa trovò Clara.
– È tanto che sei qui?
– Non è molto.
– Ti ringrazio d’essere tornata.
– Volevo rivederti.
Entrarono, sedettero al tavolo. Lei si sorreggeva il volto con una mano.
– Questa storia deve finire, – disse.
– Io vorrei che non finisse…
– Fa’ qualcosa perché continui. Sei abituato a ridurmi a un sogno. Io no, invece. Cerca un lavoro a terra.
– Sognare è ridurre?
– Per me, sÃ...