Tutto quel che non ho imparato a scuola
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Tutto quel che non ho imparato a scuola

Filosofia per esploratori polari

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Tutto quel che non ho imparato a scuola

Filosofia per esploratori polari

Informazioni su questo libro

Ascoltare il respiro della terra, la sua voce impetuosa. Sentirsi vento, pioggia, sole. Sentirsi fango. Riconnettersi al pianeta. E finalmente fermarsi a contemplare la nostra anima, nuda. Piú ci chiudiamo tra quattro mura, piú diventiamo irrequieti, infelici. Preda di insicurezze e solitudini, e della depressione. I nostri occhi, la nostra pelle, il nostro cervello non sono fatti per stare davanti a uno schermo. Abbiamo bisogno di boschi, montagne e orizzonti; della spossatezza fisica che si prova dopo un'attività all'aria aperta. Abbiamo bisogno di ritrovare l'armonia con gli elementi. E non è necessario raggiungere a piedi il Polo Nord o scalare l'Everest, come ha fatto Kagge. L'importante è mettersi in cammino, al proprio ritmo, verso quell'inesauribile fonte di rigenerazione che è la natura.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806245986
eBook ISBN
9788858434260
1.

Ascolta la natura

Quando sono all’aria aperta e il clima è gelido, so bene come difendermi dal freddo: mi calco il cappuccio dell’anorak sulla testa, tiro su bene la cerniera fino al mento e accelero il passo. Solo quando il calore torna a rifluire nel mio corpo, prima nel tronco, poi nelle braccia, e si irradia fino ai polsi e sotto le unghie, posso fermarmi: prendo un mandarino, lo sbuccio e ne assaporo lentamente il succo, premendo con la lingua gli spicchi contro il palato.
Cosí, entro in simbiosi con chi ha piantato l’albero, con l’acqua assorbita dalle radici, con il terreno che le ha protette, con il ramo su cui il fiore è stato impollinato ed è diventato frutto, con il sole che l’ha fatto maturare. In quel momento provo una profonda gratitudine. Gratitudine per essere di nuovo al caldo e per essere in contatto col miracolo della natura.
Altre volte, mentre sono fuori a camminare, è come se non pensassi affatto. In quei casi presto raramente attenzione a ciò che succede. Il mio cervello va in letargo. Di tanto in tanto c’è però qualcosa che lo ridesta, come ad esempio i fiocchi di neve sotto gli sci, creati da minuscole gocce d’acqua che si sono cristallizzate dieci o venti chilometri al di sopra della superficie terrestre tramutandosi in prismi esagonali costituiti per il novanta per cento d’acqua. Osservo incantato come planano sul terreno davanti a me dopo aver attraversato l’atmosfera. Non esistono fiocchi di neve identici, e nessuno segue lo stesso percorso. Sono spesso simmetrici, almeno fin quando i miei sci non li comprimono.
La natura ha un suo linguaggio, un suo bagaglio di esperienze e una sua intelligenza, racconta da dove veniamo e cosa dovremmo fare. Io sono cresciuto senza televisione e senz’auto (mio padre le riteneva due pericolose invenzioni) e ho trascorso gran parte della mia infanzia nei boschi, al mare e in montagna, succhiando l’amore per la natura insieme al latte materno. Ma adesso, in giornate dove quasi tutti noi siamo quasi sempre reperibili e tempestati di messaggi, mi capita a volte di dimenticarmi di questo legame. Se mi guardo in giro, mi sembra che molti dei miei simili se lo siano definitivamente scordato.
Piú mi allontano dalla natura e sono raggiungibile dal mondo moderno, piú divento irrequieto. E infelice. Io non sono un uomo di scienza, ma in base alla mia esperienza posso dire che l’alienazione dalla natura «appiattisce il mondo» e quindi in noi si acuisce un senso di insicurezza, di solitudine e di depressione. L’ambiente creato dall’uomo e le nuove tecnologie hanno innegabilmente tanti lati positivi, ma i nostri occhi, il naso, le orecchie, la lingua, la pelle, il cervello, le mani e i piedi non sono stati creati per imboccare la strada piú facile. La Terra ha 4,54 miliardi di anni, quindi mi sembra arrogante da parte nostra non ascoltarla e fidarci ciecamente di ciò che ha scoperto l’uomo.
Nel 2010, insieme a due altri esploratori polari, il norvegese Børge Ousland e l’islandese Haraldur Örn Ólafsson, ho attraversato il Vatnajökull, il maggior ghiacciaio dell’Islanda. Avevamo deciso di viaggiare con il minor ingombro possibile e ognuno portava tutto il cibo e l’attrezzatura sulla sua pulka. Se guardiamo al suo volume, il Vatnajökull è anche il maggior ghiacciaio europeo. È costituito da 3100 chilometri cubi di ghiaccio e copre una superficie di 8100 chilometri quadrati nel sud-est dell’isola. Sotto i ghiacciai islandesi si trovano diversi vulcani. Mentre eravamo in marcia scoppiò un’eruzione nel ghiacciaio vicino, l’Eyjafjallajökull. Centinaia di persone furono evacuate immediatamente e in mezza Europa il traffico aereo fu interrotto a causa delle nubi di cenere vulcanica. Non fummo mai in pericolo, ma quell’avvenimento mi fece capire che una piccola eruzione vulcanica in una parte remota dell’Islanda può avere enormi conseguenze su un intero continente e che eruzioni vulcaniche piú devastanti possono mutare il volto del pianeta.
Ogni tanto mi domando se siano necessarie catastrofi come l’eruzione dell’Eyjafjallajökull per ricordarci dell’esperienza e della forza che ha la natura. Non credo, e preferisco pensare che esistano molti altri modi, piú pacifici, per riconnettersi con essa.
Da bambino, i miei genitori mi mandavano a giocare all’aperto con qualsiasi tempo; mi sembra di ricordare che mi piacesse, ma poi, dopo i dodici anni e soprattutto da adolescente, mi stufai. Preferivo passare piú tempo in casa e andare alle feste. Sette, otto anni dopo cominciai ad aver nostalgia della natura. Mi mancavano i boschi, le montagne, il mare, la spossatezza fisica che si prova dopo un’attività all’aria aperta. Era una smania che mi saliva da dentro, un impellente bisogno di ricreare un’armonia con gli elementi di madre Terra. Di sentire sulla pelle il sole, la pioggia, il vento, il fango e l’acqua. Di ascoltare.
L’esploratore polare irlandese Ernest Shackleton compí imprese molto piú estenuanti delle mie e patí il freddo decisamente piú di me, ma mi ritrovo in alcuni dei pensieri che mise nero su bianco quasi alla fine della sua vita: «Avevamo visto Dio nel Suo splendore, sentito il testo che la Natura scrive e disegna. Avevamo raggiunto l’anima nuda dell’uomo».
Solo dopo aver partecipato ad alcune spedizioni ho cominciato a interrogarmi sulle scelte compiute durante le mie imprese. Qualche decisione è stata presa dopo lunghe riflessioni, qualche altra all’improvviso e senza alcuna valutazione, ma tutte mi hanno condotto verso nuove destinazioni. Mi sono chiesto: che senso ha testare la propria resistenza fino ai limiti? E perché, mentre nella memoria sono ancora vivi i ricordi delle vesciche e dei geloni, si è già pronti a ripartire? Queste esperienze possono insegnarci qualcosa? Non sapevo bene cosa pensare, perciò mi sono deciso a scrivere nella speranza di trovare qualche risposta. Quando diversi anni fa iniziai la stesura di questo libro, ero molto piú interessato a ciò che si nascondeva dietro l’orizzonte che a quanto era davanti a me. Se camminavo, dovevo coprire lunghe distanze. Non avevo ancora scoperto il piacere di fare delle camminate brevi. Piú tardi, con tre figlie adolescenti, un lavoro molto impegnativo e un interesse crescente per l’arte, mi sono reso conto che la mia vita era lentamente mutata. Ho cominciato allora a riflettere su me stesso e ho scritto due libri: Il silenzio e Camminare, che parlano del silenzio dentro di noi.
Da allora nuove esperienze mi hanno aperto prospettive inedite. Una delle cose che ho imparato durante le mie esplorazioni è che a un certo punto del viaggio ci si deve fermare, guardarsi intorno, scoprire eventi inattesi, osservare come cambia il tempo. Questo libro, a modo suo, è un tentativo che va nella medesima direzione.
2.

Trova il tuo polo

Non so quando ho cominciato ad avere dei dubbi sul fatto che sarei riuscito a realizzare tutti i miei sogni: diventare un calciatore di fama mondiale, fare il giro del mondo in barca a vela, attraversare grandi distese con gli sci, scalare le montagne, vivere come Muhammad Ali, baciare la ragazza piú bella della classe, salvare il mondo dalla distruzione, essere un filantropo come Albert Schweitzer, fare il pompiere, diventare primo ministro, guidare i camion dell’immondizia, andare sulla Luna oppure su Marte. Da bambino ero convinto che bastasse sognare e pensare una cosa per realizzarla. Nella mia testa tutto era possibile, finché non mi sono scontrato con la realtà.
Da piccolo, e anche durante l’adolescenza, non sono mai stato bravo in niente. Non ero particolarmente brillante negli sport, sono andato a scuola un anno dopo e per dodici anni consecutivi sono stato uno dei tre alunni peggiori della classe. In piú non avevo molti amici. Con i denti da coniglio, i labbroni screpolati, un difetto di pronuncia e problemi di dislessia, ero un bersaglio facile quando c’era da prendere in giro qualcuno. Non ho mai fatto nulla di straordinario quand’ero bambino, ma avevo dei sogni, e a quelli non ho mai rinunciato.
A un certo punto mi sono reso conto che difficilmente sarei diventato pompiere, calciatore, astronauta o supereroe. I miei sogni sono quindi diventati piú specifici. Nel 1990, insieme a Børge Ousland, sono stato il primo a raggiungere il Polo Nord senza motoslitta, cani o campi base. Nel 1993 sono stato il primo a raggiungere a piedi e da solo il Polo Sud e, a differenza della maggior parte di coloro che compiono spedizioni in solitaria, ho deciso di non tenermi in contatto con il mondo esterno; infine, nel 1994, ho scalato l’Everest. Cosí facendo sono riuscito a centrare l’obiettivo di essere il primo uomo al mondo a raggiungere i tre poli senza prendere un aereo.
In questo libro parlo un po’ dei miei sogni e delle idee che in realtà non mi hanno mai abbandonato, del mio primo lungo viaggio in barca a vela, del ghiaccio, delle montagne e del mondo dell’arte.
Della mia vita come padre, lettore onnivoro ed editore, sull’onda della curiosità e dell’ambizione personale. Strada facendo è stato interessante scoprire che, in questi viaggi verso una qualche meta, ho iniziato a prefissarmi nuovi obiettivi, a intravedere opportunità eccitanti e a scoprire nuovi orizzonti. Non riuscirei a immaginarmi un mondo dove non ci fosse piú nulla da fare e da scoprire.
«Avrei dato chissà che per fare le tue esperienze», mi ha detto un tizio la prima volta che ho attraversato l’oceano Atlantico in barca a vela. Avevo vent’anni, ero appena arrivato alle Barbados da Capo Verde, isola situata al largo della costa occidentale dell’Africa, e avevo raggiunto la terra ferma a nuoto dopo due settimane di navigazione. Da allora molte altre persone mi hanno ripetuto la stessa frase, ma non credo sia del tutto vera: se fossero stati davvero disposti a tutto, ci avrebbero perlomeno provato.
Da piccolo, ero un grande ammiratore di Thor Heyerdahl. In uno dei primi suoi libri che ho letto lui raccontava il viaggio che aveva intrapreso nel 1947 sulla zattera Kon-Tiki da Callao, in Perú, fino alle isole Tuamotu in Polinesia. Anche se aveva paura dell’acqua perché da bambino aveva rischiato due volte di affogare, non aveva rinunciato al sogno di attraversare l’oceano Pacifico su una zattera fatta a mano che era una riproduzione delle zattere preistoriche indie costruite in Perú. Sei persone presero il mare sulla Kon-Tiki e solcarono l’oceano Pacifico verso ovest per centouno giorni allo scopo di dimostrare che gran parte delle migrazioni verso la Polinesia poteva essere avvenuta cosí.
Nell’autunno del 1994 fui invitato, con grande piacere e una certa sorpresa, ai festeggiamenti per gli ottant’anni di Heyerdahl. Durante il party, tanti dei suoi vecchi amici tennero un discorso in cui, com’era giusto che fosse, elogiarono il grande esploratore. Molti di loro raccontarono di aver avuto la possibilità di partecipare a qualcuna delle sue spedizioni, ma poi, per un motivo o per l’altro – studi, fidanzati, famiglia, lavoro –, di avervi rinunciato. I discorsi dei commensali sembravano non finire piú. Guardai Heyerdahl di sottecchi, vidi che sorrideva con aria sorniona, ed ebbi una specie di folgorazione: «La principale differenza fra te e loro, – pensai, – è che tu sei stato l’artefice del tuo destino, non hai lasciato che fossero gli altri a decidere per te. Quando hai avuto delle opportunità le hai colte al volo, solo in un secondo tempo hai pensato agli ostacoli».
Chi in quel momento stava tenendo questo o quel discorso aveva avuto la stessa forza di volontà di Heyerdahl? Oppure aveva finito col conformarsi alle aspettative altrui? Qualunque fosse stata la ragione delle loro rinunce, era evidente che se ne erano pentiti e che quel rimpianto li accompagnava ancora dopo molti anni. La differenza mi sembrava stesse nella capacità di Heyerdahl di inseguire i propri sogni, mentre gli altri avevano forse cercato di inseguire sogni che non erano i loro.
«L’asino di Buridano» è il primo paradosso che mi ricordo di aver letto. Racconta di un asino che si trova in mezzo a due fasci di fieno e illustra ciò che succede quando non si riesce a scegliere. I due fasci di fieno si trovano esattamente alla stessa distanza e l’asino non riesce a decidere a quale avvicinarsi e da quale mangiare per primo. Passa il tempo, l’asino studia il da farsi, non riesce a prendere una decisione e alla fine muore di fame.
Quando mi pongo degli obiettivi provo una grande, intima soddisfazione. Sono infatti i miei obiettivi, li ho decisi io; non sono quelli di Heyerdahl, del mio vicino di casa o della mia famiglia, sono proprio i miei. Attraverserò l’oceano Atlantico in barca a vela. Aiuterò qualcuno che ha bisogno. Comprerò una bottiglia di champagne. Resisterò a una tentazione. Scriverò un libro. Fonderò una casa editrice. Diventerò avvocato. Formerò una famiglia.
E se partissi per il Polo Sud? Da solo? Quest’ultima spedizione l’ho decisa nell’istante stesso in cui l’ho pensata. Da quel momento ho studiato in dettaglio come realizzarla. Se avessi seguito il processo inverso, ovvero avessi prima fantasticato sui particolari del viaggio, poi di lí avessi ricavato l’idea e infine l’avessi analizzata per capire se fosse fattibile, temo non avrei avuto nulla da scrivere in questo libro.
Mi chiedo ogni tanto che fine abbiano fatto tutti gli altri sogni e le altre ambizioni che avevo e che sono rimasti lettera morta. Dove si nascondono? Non credo sia cosí difficile scovarli. Come hanno scritto molti prima di me, è piú facile rinunciare ai propri sogni che farseli portar via.
Non consiglio a nessuno di prendermi come esempio, anche se so che le mie imprese sono alla portata di molti, perché quelli erano i miei obiettivi. La mia speranza è che questo libriccino possa aiutarvi, indipendentemente da età o genere sessuale, a trovare il vostro polo, il vostro Everest, il vostro sogno.
Cambiare il proprio mondo può essere faticoso e a volte un po’ rischioso. Ma forse è ancora piú rischioso lasciar perdere, non cercare di scoprire quanto può essere bella la vita.
Quello che si finisce col rimpiangere, man mano che passa il tempo, sono le occasioni che ci si è lasciati sfuggire, le iniziative che non si sono prese, le cose che non si sono fatte. Se voi dite che è impossibile e io dico che è possibile, probabilmente abbiamo ragione entrambi.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tutto quello che non ho imparato a scuola
  4. 1. Ascolta la natura
  5. 2. Trova il tuo polo
  6. 3. Ciò che conta è alzarsi la mattina
  7. 4. L’ottimismo è una questione di allenamento
  8. 5. Non aver paura della tua grandezza
  9. 6. Spesso è comunque possibile
  10. 7. Il coraggio non si conserva in un thermos
  11. 8. Un pizzico di pericolo non guasta
  12. 9. Ora sono felice?
  13. 10. Soli con sé stessi
  14. 11. La vita va centellinata
  15. 12. L’amarezza del fallimento
  16. 13. Trovare la libertà nella responsabilità
  17. 14. Ode all’abitudine
  18. 15. Non lasciare la fortuna al caso
  19. 16. Lascia che sia il tuo obiettivo a inseguirti
  20. 17. Perché sogno ancora a occhi aperti
  21. Ringraziamenti
  22. Bibliografia
  23. Il libro
  24. L’autore
  25. Dello stesso autore
  26. Copyright