Shimotsuki
Nel calendario lunare l’undicesimo mese dell’anno corrisponde a dicembre. È il principio dell’inverno, la brina che si forma sulle foglie, il mese in cui cade
shimofuri-zuki . È l’attesa della neve,
yukimachi-zuki ; è della neve la contemplazione,
yukimi-zuki . Novembre, tuttavia, è anche il ritorno degli dèi nelle loro consuete dimore (
shinki-zuki o
kamikaeri-zuki ), della musica e della danza sacra in loro onore (
kagura-zuki ).
Nelle zone piú fredde, ancora oggi, a novembre cade la prima neve anche se, nella declinazione contemporanea del calendario solare, siamo ancora in autunno. Nelle cantine per il sakè, si appende alla grondaia quella sorta di palla fittamente intessuta con le foglie di
sugi (cedro giapponese) chiamata
sakabayashi , che viene usata come insegna dei negozi specializzati per segnalare l’arrivo del primo sakè dell’anno.
Il ponte: la soglia e la separazione.
–
Aki no hi wa tsurube otoshi .
Ha un dito puntato all’orizzonte, poi spalanca la mano e la cala come per abbassare il volume del mondo. Ciò che scende tuttavia non è il suono ma la luce, che viene risucchiata oltre la ferrovia di Mitaka, in questo cielo cremisi, tempestato di nubi orlate di rosa e albicocca.
– In autunno il tramonto è rapido come il cadere del catino nel pozzo…
Traduco all’impronta le parole dell’uomo che ci sta accanto, ritto come noi sul passaggio in ferro battuto che cavalca da parte a parte la ferrovia di Mitaka. Resta rapito a guardare, dalle fessure della rete, il cielo cambiare velocemente colore, la sera crollare.
Ha un nome oblungo e preciso questo ponte,
MITAKA DENSHA-KOKOSEN-BASHI , e sostiene 90 metri di passi. È stato costruito all’inizio dell’era Shōwa, nel 1929, riutilizzando e assemblando antichi binari. È rimasto immutato da allora, esteticamente poco attraente, eppure amato dai bimbi che vi si recano per guardare i treni passare, cosí come dagli anziani che, con sguardi vacui e pensosi, osservano l’orizzonte.
Dazai Osamu era affezionato a questo posto, vi portava persino gli amici. Esiste uno scatto famoso che lo ritrae qui, su questo che era per lui come un belvedere sul paesaggio rurale di allora, un luogo su cui forse riversava la nostalgia per il paese natale. Amava guardare i treni passare e i campi sparpagliarsi tutto intorno, la città rimpastarsi sotto quel suo sguardo tragicamente ricurvo, teso costantemente al precipizio, alla fine.
Nato nel 1909 nella prefettura di Aomori, nella zona rurale di Kitatsugaru, Dazai sapeva quanto fosse necessario per la sua carriera di scrittore abitare a Tōkyō. E tuttavia, per l’uomo che era – fragile, incline alla sregolatezza – vivere nel centro della città avrebbe significato non riuscire a concentrarsi nel lavoro. Per questo Mitaka gli parve un buon compromesso: tappezzato in buona parte da campi coltivati, il quartiere era sufficientemente vicino al centro di Tōkyō, e tuttavia non risultava inglobato nelle sue spire. Però lo vide trasformarsi da zona agricola a zona impegnata nella produzione di armamenti bellici; poi sarebbero aumentati gli esercizi commerciali, i ristoranti e i pub, e la popolazione soprattutto, in fuga dai bombardamenti.
In uno dei suoi saggi piú noti sulla letteratura giapponese, il critico Togawa Shinsuke sottolinea di questo elemento architettonico, il ponte ferroviario, proprio la natura di terrazza panoramica, di raccordo e insieme di non appartenenza alla grande metropoli: molti ritrovavano nelle stazioni e nei ponti sopraelevati, come Mitaka densha-kokosen-bashi, un punto di contatto tra il paese d’origine e la grande città. E d’altronde salirvi diveniva occasione per rendersi conto di come non si appartenesse piú a nessuno dei due mondi.
L’incipit del romanzo Lo squalificato fa effettivamente riferimento a un ponte. Che fosse quello della stazione del paese d’infanzia di Dazai e non quello di Mitaka non conta: un luogo richiamava naturalmente alla mente l’altro.
Personalmente ho scoperto l’astrusa bellezza di Mitaka densha-kokosen-bashi quando vi passavo accanto in bicicletta la sera, di ritorno dalle lezioni di dottorato. Parcheggiavo la bici, salivo di fretta prima che il sole tramontasse del tutto, e lí scorgevo il monte Fuji accendersi come una lanterna di carta, sullo sfondo della linea Chūō.
In quegli anni ero preda di una mania feticista nei confronti del Fuji-san
. Lo cercavo ovunque, lo fotografavo, tentavo sempre nuovi punti di osservazione. Eppure, a esclusione dei grattacieli di Shinjuku o del Mori Building a Roppongi, solo da quella posizione sopraelevata, oltre il muro dei palazzi che a Tōkyō paiono stare costantemente sulle punte, e grazie soprattutto al sole che gli scendeva alle spalle, il suo profilo si faceva cosí definito. Accade anche oggi, in qualunque stagione, anche in quelle piú calde e fumose in cui il monte non ama mostrarsi.
Solo chi abita o ha abitato a Tōkyō lo sa, che questa città vive di diversi livelli. E non solo perché la sua speciale morfologia la pone costantemente di fronte al contrasto tra una zona bassa (shita-machi) e una alta (yama-no-te), ma anche perché è tutto un su e giú di viadotti, cavalcavia, sopraelevate, passerelle.
Soprattutto Tōkyō è piena di ponti, disseminata del rosso scarlatto di certe interruzioni armoniose che sorgono nei giardini all’interno di templi e santuari, curve piú o meno bombate che collegano gli orli di un laghetto dentro cui nuotano placidamente le carpe. Il ponte, tra unione e separazione, come ha svelato Georg Simmel, pone l’accento sulla seconda proprio perché rende percepibili e misurabili i suoi punti d’appoggio. La natura separata di due rive d’un fiume si fa spiritualmente congiunta, ma il ponte evidenzia quella separazione. L’uomo, in questo processo, è colui che unisce, il paciere che, a sua volta, dallo spazio viene cambiato.
Congiunzione e interruzione: Tōkyō rappresenta splendidamente questo (apparente) contrasto.
Ho abitato tra Musashi-sakai, Mitaka e Kichijōji per piú di dieci anni, i miei primi in Giappone.
Ne ho memorizzato la cartografia, il colore delle villette, la disposizione sempre rinnovata dei palazzi, le strade alberate e le viuzze celate. Me ne sono via via innamorata durante le lunghe passeggiate verso l’università, di ritorno dalle uscite con amici, mano nella mano con Ryōsuke, in solitaria ascoltando audiolibri, poi con il desiderio di un figlio prima, e infine con Sōsuke nella pancia. Per ogni fase della mia vita, i luoghi di questa zona che si sviluppa lungo tre stazioni della linea Chūō hanno assorbito i miei sentimenti. E come tali, ancora oggi, li riconosco, come parte cioè della mia geografia emotiva.
Uscendo a nord dalla stazione di MITAKA, subito spicca un’altissima torre di cui ricordo, pezzo dopo pezzo, la graduale e tuttavia rapidissima costruzione. Ogni volta che mi soffermo su queste torri che da qualche anno svettano davanti a parecchie stazioni di Tōkyō mi torna in mente un programma radiofonico...