Il pedante in cucina
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Il pedante in cucina

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Il pedante in cucina

Informazioni su questo libro

Accettate una sfida ai fornelli con Julian Barnes? Allora prendete una cipolla media, affettatela grossolanamente, poi saltate in padella con un filo d'olio. Sentite di avere già la vittoria nel piatto, ma... quale unità di misura stabilisce le dimensioni di una cipolla? Come si riconosce una fetta «grossolana»? E quando un filo diventa una cascata? Nessuna sorpresa: per uno scrittore come Barnes anche la cucina è questione di parole e non c'è lista di ingredienti o modalità di preparazione che non si possa raccontare con acuta e raffinata comicità. Siete ancora in tempo per ritirarvi dalla gara e divertirvi degustando questo compendio di irresistibile, esilarante, deliziosa «pedanteria» culinaria. Per Julian Barnes tutto è cominciato con le carote Vichy. Dopo aver scovato un tragico errore nella ricetta - era saltata una cifra - per lui la diagnosi è stata subito chiara: pedanteria culinaria. E del ceppo piú aggressivo, perché Barnes, a parte un precisino ai fornelli, è soprattutto uno scrittore. Per uno come lui, la cucina è anche questione di parole. Quanto è grande una cipolla «media»? E un «tocchetto»? Quando una «spruzzata» diventa una pioggia? E a quale standard si rifà la misura «a occhio»? Sono le domande che lo assillano quando, da volenteroso e coscienzioso pedante, si avvicina ai fornelli. Perché Barnes non vuole avvelenare i commensali con ingredienti improbabili o mandare a fuoco la casa con ardite modalità di cottura. Si accontenterebbe di imparare qualcosa di nuovo e far felici i suoi ospiti, in particolare Colei per la Quale il Pedante Cucina (del resto cos'è cucinare se non un deliberato atto d'amore?) Indicazioni accurate, strumenti affidabili, quantità giuste: in cucina ci vuole chiarezza e precisione. E se non le trova, il pedante scrittore si vendica con gustose pagine condite di croccante intelligenza e raffinata ironia. Dagli autori classici della narrativa gastronomica come Édouard de Pomiane e Mrs Beeton, a Elizabeth David e Jane Grigson, fino ai maestri contemporanei, Julian Barnes racconta il suo rapporto con i manuali, gli ingredienti, la spesa e ci invita da lui per una cena a base di esilarante pedanteria culinaria: dopo un pasto cosí, nessun palato rimarrà insoddisfatto!

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806244057
eBook ISBN
9788858433690

La morale finale

Il secondo giorno del processo per diffamazione intentato da Oscar Wilde contro il marchese di Queensberry, l’avvocato della difesa Edward Carson e il drammaturgo ebbero un insolito scambio di battute. Quella mattina Carson lo stava interrogando su Alfred Taylor, che aveva procurato a Wilde ragazzi a pagamento e che l’avvocato, ora, tentava di inchiodare come persona di dubbi costumi. Per esempio: viveva ai piani alti di una casa sprovvista di domestico (il che non faceva di lui un gentiluomo); le doppie tende alle finestre erano tirate anche di giorno (un esteta); bruciava essenze nelle sue stanze (peggio che un esteta); si accompagnava a giovani amici maschi, e altro ancora. Compreso questo:
CARSON Si preparava da mangiare da solo?
WILDE Non ne so nulla. Non ho mai cenato da lui.
CARSON Vuole lasciarmi intendere che non sa che Taylor si preparava da mangiare da solo?
WILDE No. E anche se cosí fosse, non ci vedrei nulla di male. Anzi, lo riterrei intelligente piuttosto. Me lo avete chiesto come se fosse un dato di fatto. La mia risposta è non lo so, ma non l’ho mai visto, signore.
CARSON Non ho insinuato che ci fosse qualcosa di male.
WILDE No, cucinare è un’arte. (Risate).
CARSON Un’altra arte?
WILDE Un’altra arte.
Come appare ovvio, Carson stava decisamente insinuando che ci potesse essere qualcosa di male. Sommato a tutto il resto, il fatto che un tizio prendesse troppa confidenza con la padella poteva essere un indizio chiave che gli mancava qualche attributo. E la risata che Wilde aveva provocato in aula con la sua innocente definizione del cucinare come arte suggerisce che Carson fosse ben consapevole dei potenziali pregiudizi di una giuria inglese.
Agli occhi dei piú, cucinare è un’impresa moralmente neutra, se non addirittura positiva; mentre scrivere di cucina è persino meno suscettibile di discredito carsoniano. Nel 1923, la moglie di Joseph Conrad, Jessie, pubblicò un manuale di cucina famigliare, A Handbook of Cookery for a Small House. La prefazione del marito comincia con le seguenti parole:
Di tutti i libri che il talento e l’operosità degli uomini hanno prodotto sin da epoche remote, solo quelli di cucina sono, da un punto di vista morale, al di sopra di ogni sospetto. Le intenzioni di qualsiasi altro scritto in prosa possono essere motivo di controversia e finanche di sfiducia, ma un libro di cucina ha uno scopo soltanto ed è inequivocabile. L’unico obiettivo che gli si possa plausibilmente attribuire è di accrescere la felicità del genere umano.
Che affermazione grandiosa! E di appropriata devozione verso la moglie, per cui potremmo anche ritenerci convinti se Conrad non minasse la sua stessa autorevolezza con la seguente confessione: «Ammetto che trovo impossibile prestare totale attenzione a un libro di cucina». E le obiezioni non finiscono qui. Intanto: possiamo ipotizzare altri esempi di prosa il cui scopo indiscusso è accrescere la felicità del genere umano, dai manuali di apicoltura e tecniche di rilassamento alle guide di riparazione di un tetto. Secondo: che a paragone di altri libri i ricettari scaturiscano da intenzioni piú pure è convinzione meno comprensibile oggi che ai tempi di Conrad. Guardate il celebre chef egomaniaco mentre promuove il libro della sua trasmissione in tv e non vi sfuggirà la stessa ambizione mondana esibita da qualunque pubblicazione su un personaggio famoso. E terzo: non è affatto da escludere che molte persone possano giudicare un libro di cucina decisamente immorale: per esempio, una raccolta di ricette per la carne di un animale in via di estinzione.
Ma, in sostanza, abbiamo capito cosa voleva dire Conrad. Eccolo di nuovo: «La buona cucina è un agente morale». Hmm, quella parola, «buona»: cosa intende di preciso? «Con buona cucina intendo la preparazione coscienziosa del semplice cibo di tutti i giorni, non l’allestimento piú o meno sapiente di banchetti frivoli e piatti inconsueti». Qui ci pare di cogliere una zaffata di robusto puritanesimo, l’odore dei mutandoni di lana. Dobbiamo dedurre che, se per pranzo Mrs C. avesse servito a Joseph un uovo alla coque del suo pollaio con il pane fatto in casa, sarebbe andato tutto bene; mentre se, in occasione del suo compleanno, si fosse recata da Fortnum & Mason a comprargli uova di pavoncella e salicornia e, faccio per dire, avesse adagiato quest’ultima sulle prime appena sbollentate e servito il tutto con una ciabatta alle olive, sarebbe apparso inconsueto e di conseguenza inammissibile?
È a questo punto della prefazione che il ragionamento di Conrad comincia a traballare. La cucina sana porta a una buona digestione, afferma (vero); e questo, spiega, ci rende di buon umore e ragionevoli. Come controprova cita la dieta degli Indiani del Nord America:
I Nobili Pellerossa erano vigorosi cacciatori, ma le loro mogli non padroneggiavano l’arte della cucina coscienziosa, con conseguenze devastanti. Le Sette Nazioni intorno ai Grandi Laghi e le Tribú del Cavallo delle pianure non erano che un’unica vasta preda della dispepsia dilagante… [e] la vita domestica nei loro wigwam era offuscata dalla cupa irritabilità che risultava dal consumo di cibo mal cucinato.
Questo è ciò che scatenò l’«irragionevole violenza» dei Nativi Americani. In contrasto, senza dubbio, alla ragionevole violenza di Inglesi, Francesi, Belgi, Tedeschi e coevi imperialisti della stessa America, che si nutrivano in maniera tanto avveduta. L’argomentazione ha tratti simili a quelle che attribuiscono il carattere di una nazione al suo clima, o il genio alla malattia: onnicomprensiva, inalterabile, comunque palesemente folle. L’Abbé Prevost, autore di Manon Lescaut, era convinto che la predisposizione dei Britannici al suicidio dipendesse dal consumo di manzo poco cotto (oltre che dalla carbonella dei loro barbecue e dal troppo sesso). Seguendo lo stesso ragionamento, si potrebbe ipotizzare che l’attuale zelo militare degli Americani derivi dalla loro passione per il fast food; nel cui caso, la vedova di un soldato avrebbe diritto a intentare causa al rivenditore di hamburger piú vicino. E se qualcuno fosse propenso a credere nella correlazione tra proteine e aggressività, non dimentichi che Hitler era vegetariano.
Eppure, continuiamo a riconoscere e condividere i valori che Conrad promuoveva: la semplicità, la coscienziosità, il mangiare per vivere piuttosto che il vivere per mangiare. Nell’animo gastrico di molti di noi dimora ancora una fantasia contadina di autosufficienza: quel piccolo cottage in una valle riparata, con un fazzoletto di terra e qualche pollo, dove vivere e mangiare seguendo l’autentico ciclo delle stagioni, e zappare, piantare, raccogliere, cucinare, consumare; produrre quanto basta per i propri bisogni e un piccolo esubero per il baratto. Ai tempi di Conrad, in fondo, lo si poteva ancora fare. Il suo grande amico Ford Madox Ford conduceva quel tipo di vita nel West Sussex dopo la Prima guerra mondiale. Condivideva un cottage chiamato Red Ford con la pittrice australiana Stella Bowen, e scriveva di quell’esperienza in modo lirico e spassionato. Tenevano una capra, un maiale, e un ragazzo che aiutava a lavorare la terra, mentre Ford – essendo Ford – si dedicava a progetti grandiosi e scriteriati, ben al di sopra delle sue possibilità: uno era coltivare patate immuni da malattie, un altro scoprire «la pietra filosofale dell’agricoltura», un metodo per «somministrare nutrimento alle piante evitando gli sprechi».
Ford era anche signore e padrone della cucina. Nella sua autobiografia, Drawn from Life, Bowen definisce Ford «un cuoco eccezionale». Era anche «oltremodo smisurato con il burro e riduceva la cucina in uno stato di caos totale. Quando cucinava, un’inserviente bastava a malapena a stargli dietro. Ma la fatica non gli pesava e non sprecava mai nulla. Ogni brandello di grasso veniva sciolto, e ogni gambo di cavolo finiva nella pentola del brodo, perennemente sul fuoco del soggiorno».
Ford continuò a cucinare per tutta la vita. Alla vigilia della successiva guerra mondiale, dopo una conferenza letteraria a Boulder, Colorado, cucinò un Chevreuil des prés-salés per la cena d’addio. Tra i commensali c’era il ventenne Robert Lowell. Un quarto di secolo piú tardi, Lowell la definí «il pasto migliore che avesse mai consumato». Essendo un grande romanziere, Ford condiva le sue ricette con una buona dose di finzione. «Nessuno si sarebbe mai accorto, – aggiunse Lowell, – che il cervo di Ford era in realtà montone».
Philip Larkin sosteneva che «La poesia è una questione di sanità mentale», contrapposta a quella che lui definiva (citando una frase di Evelyn Waugh) la scuola del «tanto matto, tanto santo». Anche cucinare è una questione di sanità mentale, persino in senso letterale. Stella Bowen conosceva un poeta a Montparnasse che aveva avuto un esaurimento nervoso ed era stato rinchiuso in una clinica. Una volta dimesso, era andato a vivere in una stanza che si affacciava su una strada dove c’era una boulangerie. Il poeta faceva risalire la sua guarigione al momento in cui, guardando fuori dalla finestra, vide una donna entrare per comprare del pane. Aveva provato, raccontò a Bowen, «un’indicibile invidia per lo zelo con cui sceglieva una baguette».
Ecco di cosa si tratta. Di scegliere una baguette. Di essere oltremodo smisurati con il burro. Ridurre la cucina in caos totale. Cercare di non sprecare nulla. Nutrire amici e parenti. Sedersi intorno a un tavolo per quell’irriducibile rito sociale che è il condividere il cibo con gli altri. Cavilli e obiezioni a parte, Conrad aveva ragione. È un atto morale. È una questione di sanità mentale. Concediamogli l’ultima parola: «La profonda influenza della cucina coscienziosa, – scrisse, – favorisce la serenità mentale, i pensieri gentili, e quello sguardo indulgente ai fallimenti del nostro vicino che è l’unica forma genuina di ottimismo. Sono queste le ragioni per cui merita il nostro rispetto».
A dire il vero, un paio di obiezioni anche su questo le avrei, ma… qualcosa trabocca dalla pentola. Devo andare. Ho un frivolo banchetto da allestire.

Il libro

TRADUZIONE DI DANIELA FARGIONE
Accettate una sfida ai fornelli con Julian Barnes? Allora prendete una cipolla media, affettatela grossolanamente, poi saltate in padella con un filo d’olio. Sentite di avere già la vittoria nel piatto, ma… quale unità di misura stabilisce le dimensioni di una cipolla? Come si riconosce una fetta «grossolana»? E quando un filo diventa una cascata? Nessuna sorpresa: per uno scrittore come Barnes anche la cucina è questione di parole e non c’è lista di ingredienti o modalità di preparazione che non si possa raccontare con acuta e raffinata comicità. Siete ancora in tempo per ritirarvi dalla gara e divertirvi degustando questo compendio di irresistibile, esilarante, deliziosa «pedanteria» culinaria.
«Il pedante in cucina è un libro fragrante e succulento. E la scelta degli aggettivi non è casuale».
«The Independent»
Per Julian Barnes tutto è cominciato con le carote Vichy. Dopo aver scovato un tragico errore nella ricetta – era saltata una cifra – per lui la diagnosi è stata subito chiara: pedanteria culinaria.
E del ceppo piú aggressivo, perché Barnes, a parte un precisino ai fornelli, è soprattutto uno scrittore. Per uno come lui, la cucina è anche questione di parole. Quanto è grande una cipolla «media»? E un «tocchetto»? Quando una «spruzzata» diventa una pioggia? E a quale standard si rifà la misura «a occhio»? Sono le domande che lo assillano quando, da volenteroso e coscienzioso pedante, si avvicina ai fornelli. Perché Barnes non vuole avvelenare i commensali con ingredienti improbabili o mandare a fuoco la casa con ardite modalità di cottura. Si accontenterebbe di imparare qualcosa di nuovo e far felici i suoi ospiti, in particolare Colei per la Quale il Pedante Cucina (del resto cos’è cucinare se non un deliberato atto d’amore?) Indicazioni accurate, strumenti affidabili, quantità giuste: in cucina ci vuole chiarezza e precisione. E se non le trova, il pedante scrittore si vendica con gustose pagine condite di croccante intelligenza e raffinata ironia.
Dagli autori classici della narrativa gastronomica come Édouard de Pomiane e Mrs Beeton, a Elizabeth David e Jane Grigson, fino ai maestri contemporanei, Julian Barnes racconta il suo rapporto con i manuali, gli ingredienti, la spesa e ci invita da lui per una cena a base di esilarante pedanteria culinaria: dopo un pasto cosí, nessun palato rimarrà insoddisfatto!

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il pedante in cucina
  4. Un cuoco tardivo
  5. Attenzione: pedante al lavoro
  6. Prendete due cipolle medie
  7. Come da manuale
  8. Il maestro dei dieci minuti
  9. No, questo non lo faccio
  10. Il Cactus e La Pantofola
  11. La fatina dei denti
  12. Cose buone
  13. Il cipiglio è servito
  14. Una volta basta
  15. Adesso me lo dicono!
  16. Evviva la semplicità
  17. Nobili radici
  18. Non un dinner party
  19. Ultimo cassetto
  20. La morale finale
  21. Il libro
  22. L’autore
  23. Dello stesso autore
  24. Copyright