Sono sdraiato accanto a Erica, e tra pochi mesi diventerò padre per la seconda volta.
La guardo dormire alla debole luce che saetta dalle tapparelle. È bella anche nella semioscurità . I capelli come un sole rosso attorno al viso sereno e appagato. Individuo le sue lentiggini. Dice che da piccola la prendevano in giro, perché era rossa e piena di efelidi e qualcuno la chiamava streghetta. Dice che ne ha sofferto. Dice che a quindici anni si è fatta bruna, poi bionda. In Germania, quando si sparava eroina in vena e viveva dove capitava, si è persino rasata a zero perché le erano venuti i pidocchi. Chissà dove cazzo dormiva e con chi. Preferisco non saperlo. Anche io ho nel passato qualche questioncina squallida che preferisco tenere per me.
Adoro i suoi capelli. Li sfioro. Sono seta, sono fibre di una qualche pianta medicamentosa che lenisce il mio male.
Poi le passo una mano sul seno, piano, e scendo fino al ventre, ne assorbo il calore.
Diventerò padre, penso ancora.
E sono attraversato da un brivido di disperazione. Perché nel ventre che tocco non c’è alcun bambino. Non è Erica a essere incinta di me.
È Anna, la mia ex moglie.
Ed Erica non lo sa.
Appena lo scoprirà mi sbatterà fuori dalla sua vita a calci. E io glielo lascerò fare. Perché ne ha tutto il diritto.
Perciò la guardo e la tocco come se fosse l’ultima volta. Quando si tratta di me la verità ha il vizio di venire sempre a galla, come la merda nel mare.
Sospiro e cerco la sigaretta elettronica sul comodino. Raccolgo la mia roba ed esco dalla camera con addosso solo i boxer.
– Ehi, bello –. Una voce dal divano mi fa trasalire, come sempre. È la voce di un ragazzino, eppure sembra quella di un adulto, o di un vecchio, o di tutte le età messe insieme. Appartiene al figlio di Erica, Luca. Il dodicenne piú intelligente dell’universo.
– Ehi –. Beccato sul luogo del misfatto dopo il misfatto.
– Ti stanno da favola –. Indica i miei boxer rossi. – Ma se penso che poco fa non ce li avevi addosso… – Emette un verso di disgusto.
– Non ci devi mica pensare.
Mi ha sempre messo in difficoltà . Anzi, lui è LA difficoltà fatta persona. Genio a scuola, lettore di libri che io non ho nemmeno sentito nominare, cultore del cinema francese di non so piú quale epoca (ma senz’altro in bianco e nero, proprio adesso ha stoppato sull’immagine di un nasone transalpino che corre per raggiungere il treno), campione di scacchi online (tre giorni fa ha battuto un quarantenne russo finalista agli ultimi europei in qualcosa come quindici mosse), in possesso di una dialettica pungente (prende per il culo, insomma), e per tutti questi fattori condannato a un’estrema solitudine della quale pare non curarsi.
– Preferisco di no, in effetti.
– Già sveglio? – butto lÃ, mentre comincio a rivestirmi. Lo so già che soffre di insonnia: ha la testa troppo piena di ingegno, non ce la fa mica a dormire come un quasi adolescente; forse, quando è a letto, soffoca sotto il peso di tutto ciò che conosce.
– Sà –. Fa un cenno verso la tv. – Volevo rivedere questo Truffaut.
– E a scuola?
– Entro piú tardi.
Mi abbottono i jeans e annuisco, fingendo comprensione. – Truffò, – ripeto, ma senza la erre moscia che ha usato lui.
– Ti piace?
– Uh. SÃ, certo. Specie le sue prime cose –. Sa benissimo che per me potrebbe anche essere una versione della Renault. La Renault Truffò Turbo Gpl a iniezione integrale. E sa anche che io so che lui sa.
Scuote il capo. Ultimamente si è fatto crescere i capelli in modo disordinato e si pettina solo ogni tanto. Forse è già nella fase adolescenziale. Domani si comprerà una moto, dopodomani porterà a casa una tipetta per scoparsela nella sua stanza e fra tre giorni partirà zaino in spalla per il suo primo viaggio attorno al mondo.
Magari.
– Quando avevo sei o sette anni, – dice, – speravo che mia madre prima o poi si mettesse con un tizio arguto, uno che amasse la letteratura, la filosofia, il cinema e che si dilettasse nelle scienze e in altre attività stimolanti –. Fa un sospiro e mi dà una squadrata mentre mi sputo nella mano per ripulirmi gli anfibi.
– Invece?
– Invece, ecce homo, – sentenzia. – Contrera. Investigatore privato. Per ufficio, l’angolo di una lavanderia a gettoni.
– Esatto.
– Attualmente vive tra questa casa e quella di sua sorella.
– Non fa una grinza.
– Uno che ha già fatto soffrire mia madre una volta e, secondo me, la farà soffrire di nuovo.
Mi sento gelare. Sa della gravidanza di Anna? Ma no, come potrebbe?
Ci guardiamo.
Occhi neri, la pelle chiara della madre, fisico minuto – eppure c’è qualcosa di minaccioso, in lui, qualcosa di preoccupante.
– Invece tu mi stai simpatico, – ribatto. E do una lunga tirata alla sigaretta elettronica, nicotina 8, gusto vaniglia. Ingoio il vapore e poi ne sparo i residui verso l’alto.
Lui inarca un sopracciglio. – Non cercare di comprarmi. Non mi freghi –. Poi mette mano al telecomando e il tizio nasuto riprende a correre verso il treno.
– Be’, – faccio io, alzandomi. – Vado a lavorare –. Infilo la giacca militare e raggiungo a larghi passi la porta. – Ciao, – saluto in fretta per togliermi da questa scena del cazzo, ma mentre sto per chiudermi la porta alle spalle, Luca aggiunge: – Ti tengo d’occhio.
È un novembre nebbioso e le mattine come questa fanno scappare anche i lupi. Il quartiere di Barriera pare affogato in questo latte scaduto, mentre guido la Suzuki che ho chiesto in prestito (son dieci mesi!) a mia sorella Paola.
Un’oretta fa a svegliarmi è stato un sms di Mohamed, il proprietario della lavanderia dove ricevo i miei clienti. Ero rimasto con una licenza da detective ma privo dei soldi per potermi permettere almeno un sottoscala. Lui, senza che gli avessi chiesto un bel niente, mi ha offerto un angolo del suo locale, a patto che mi occupassi a prezzi modesti dei problemi dei suoi compatrioti. Non so perché l’abbia fatto. E non ho ancora avuto il coraggio di approfondire, caso mai cambiasse idea.
Il messaggio diceva: «Ma dormi sempre? Ho qui un cliente per te. Sbrigati».
Adoro essere svegliato col bacio del buongiorno.
Perciò mi è toccato uscire senza neanche salutare Erica. Un giorno avrò un ufficio tutto mio, mi ripeto mentre guido con prudenza e mi fermo all’incrocio di corso Grosseto con corso Vercelli. Con Erica come segretaria… no, meglio di no. Passeremmo tutto il tempo a fare gli zozzoni, rotolandoci sulla moquette…
Ma cosa vado farneticando?
Anna è incinta di me.
Erica lo scoprirà .
E sulla moquette mi rotolerò da solo, ma per la disperazione di averla persa.
Svolto a sinistra, accelerando di colpo perché dal nulla è comparsa la sagoma arancione del 46, l’autista mi tira dietro una clacsonata che è un lungo vai-a-farti-fottere – evitiamo lo scontro per un nonnulla, questione di secondi, un battito di ciglia.
Parcheggio in via Verres, domina l’odore di brioches calde proveniente dal bar di fronte. Sono a stomaco vuoto, ma c’è un cliente disgraziato che aspetta un detective morto di sonno, e non posso farlo aspettare ancora. Altrimenti mi sfrattano.
Cammino a passo svelto per corso Giulio Cesare, mi guardo intorno. Nella nebbia individuo solo un paio di spacciatori nigeriani alla fermata del tram, niente di che. L’altro giorno sono rimasto seduto in lavanderia a guardarli per un’ora e mezza: hanno servito ovuli di coca a qualcosa come cinquanta clienti automuniti. Neanche al McDrive di sabato sera fanno certi numeri. E la velocità con cui i soldi e la bamba cambiavano di mano! Dovrebbero renderla disciplina olimpica: già li vedo sul podio, quei due, medaglia al collo, sguardo al cielo, strafatti di gioia.
Vabbè.
Entro in ufficio. Odore di detersivi, cestelli in movimento frenetico, vetri appannati.
Mohamed Sabil è appoggiato alla lavatrice centrale, dietro di lui si agita un oceano di schiuma al punto che sembra in balia delle onde, e fuma un cigarillo. È di mezza età , piú alto di me che non sono un portento col mio metro e settantatre, ha la pelle olivastra segnata da chiazze piú scure, gli occhi neri e vicini al naso affilato.
– Eccomi, capo, – gli dico salutandolo con un cenno. Raggiungo il mio angolo ignorando l’altro tizio, apro il piccolo frigobar dove Mohamed mi concede di tenere le mie Corona, anche se lui è osservante e non sopporta l’alcol. Forse mi vuole bene. O forse una notte ha sognato il suo profeta che gli ha detto di prendersi cura del primo sbaraccato a tiro, e in cambio gli ha promesso il paradiso o la sua coranica approssimazione.
– Quanto cazzo ci hai messo? – raspa il marocchino.
Prendo una bottiglia, la stappo e mi siedo sulla mia sedia scalcinata. – Stavo sognando, quando mi hai chiamato.
– Seh. Con quale delle due mani?
– Non essere volgare.
– E come fai a bere a quest’ora? – si schifa.
Do una lunga, riflessiva sorsata. La birra mi solletica il gargarozzo. – Questa è la vaselina che mi aiuta a sopportare l’attrito del giorno, – filosofeggio dopo aver quasi ruttato.
Scuote il capo. Stamattina tutti scuotono il capo. Altro sport da portare alle olimpiadi. – Abdellah, qui, ha bisogno di te.
E finalmente guardo il mio potenziale cliente. Un magrebino nella norma, direi, tranne per gli occhi, che sono verdi. Verdissimi. Va’ a sapere per quale congiunzione astrale o carnale. Sui quaranta, spalle strette, e un’aria, come dire, colpevole senza esserlo? La faccia da capro espiatorio, insomma. Chissà quante randellate gli ha già rifilato la vita, a uno cosÃ. Quella che sta per esp...