Andrew fissava la bara cercando di ricordarsi chi ci fosse dentro. Era un uomo, di questo era sicuro. Ma proprio non riusciva a farsi tornare in mente il nome. Aveva ristretto le possibilità a John o James, ma poi anche Jake aveva reclamato un posto fra i papabili. Del resto, si disse, era inevitabile. Di funerali di quel genere ormai ne aveva visti tanti, ma questo non gli impedà di sentire una amara fitta di disprezzo per sé stesso.
Se solo fosse riuscito a ricordarsi il nome prima che fosse il prete a pronunciarlo, sarebbe stato già qualcosa. Non c’era ordine di servizio, ma forse poteva dare un’occhiata sul cellulare. Sarebbe stato un imbroglio? Probabilmente. Per di piú, una sbirciatina in una chiesa gremita di dolenti sarebbe forse passata inosservata, ma a quella funzione c’erano solo lui e il sacerdote. Non si era presentato nemmeno il direttore delle pompe funebri, quel giorno non stava bene.
L’altra cosa snervante era che il prete, a pochi metri di distanza da lui, non gli aveva praticamente staccato gli occhi di dosso dall’inizio del funerale. Andrew lo aveva visto quel giorno per la prima volta. Era giovane, e con un tremito nella voce che l’acustica della chiesa metteva crudelmente in risalto. Forse era nervoso. Andrew aveva provato a rivolgergli un sorriso rassicurante, ma non era servito. Valutò di fargli un gesto col pollice alzato. Sarebbe stato inappropriato? Decise di sÃ.
Posò di nuovo lo sguardo sulla bara. Forse si chiamava proprio Jake, anche se era morto alla rispettabile età di settantotto anni e Jake era un nome poco diffuso tra gli ottuagenari. Per il momento, almeno. Certo, tra cinquant’anni sarebbe stato buffo avere le case di riposo piene di Jake, Wayne e Tinkerbell con tatuaggi tribali scoloriti sulla schiena che tradotti significano cose come «involtini primavera» o «lavori in corso».
Concentrati, santo Dio, si ammonà Andrew. Era là per rendere l’estremo saluto a quella povera anima in partenza per l’ultimo viaggio, sostituire per quanto possibile parenti e amici. Era là per una questione di dignità , ecco la parola.
E purtroppo, nella vita di John o James o Jake, di dignità se ne era vista poca. Secondo il rapporto della coroner era morto in bagno, sulla tazza, mentre leggeva un libro sulle poiane. Per aggiungere al danno la beffa, non era nemmeno un buon libro sulle poiane. Andrew lo aveva sfogliato un po’. Lui non era un esperto, certo, ma non gli era sembrato bello da parte dell’autore dedicare un’intera pagina a parlare male del gheppio, oltretutto in uno stile ben poco elegante. Il deceduto aveva fatto un orecchio a quella pagina, perciò era probabile che condividesse tali opinioni. Mentre si toglieva i guanti di lattice, Andrew si era ripromesso di insultare anche lui un gheppio o qualche altro esemplare della famiglia dei falchi, non appena gli si fosse presentata la possibilità , per una sorta di omaggio.
Oltre a qualche altro volume di ornitologia, non c’era in casa nulla che fornisse indizi sulla personalità dell’uomo che ci aveva vissuto. Niente dischi o film, niente quadri alle pareti o foto sui davanzali. L’unica cosa singolare era il numero sconcertante di scatole di Kellogg’s Extra Frutta & Fibre nella dispensa. Perciò, a parte la passione per i volatili e un intestino a prova di bomba, non si sapeva nulla di che tipo di persona fosse John o James o Jake.
Andrew, come sempre, era stato molto meticoloso nell’ispezionare l’abitazione del morto, un bizzarro edificio a un piano in finto stile Tudor, incongruo e quasi spavaldo in mezzo a una fila di villette a schiera tutte uguali, ed era arrivato alla conclusione che là dentro non c’era nulla che riconducesse a familiari, prossimi o lontani, con cui il morto fosse ancora in contatto. Aveva anche bussato alla porta dei vicini, i quali si erano mostrati piuttosto indifferenti, se non del tutto ignari dell’esistenza di quell’uomo e della sua recente fine.
Il prete nel frattempo era passato a raccontare qualcosa che aveva a che fare con Gesú, il che nell’esperienza di Andrew era segno che la funzione si avviava alla fine. Doveva ricordarsi quel nome, ormai era una questione di principio. Si sforzava davvero, anche quando non c’era nessuno, di tenere ai funerali lo stesso contegno rispettoso che avrebbe mostrato se intorno a lui ci fosse stata un’intera numerosa famiglia devastata dal lutto. Era perfino arrivato a levarsi l’orologio prima di entrare in chiesa, perché gli sembrava irriguardoso che l’ultimo viaggio di un uomo dovesse essere accompagnato dallo stolido ticchettio di un mediocre oggetto di seconda mano.
Ormai il parroco stava per concludere. Andrew doveva prendere una decisione.
John, decise. Doveva essere John.
– E anche se sappiamo che John…
SÃ!
– … nei suoi ultimi anni ha vissuto momenti difficili e che sfortunatamente ha lasciato questo mondo senza il conforto della famiglia e degli amici, possiamo tuttavia trarre sollievo dal pensiero che Dio lo accoglierà a braccia aperte, pieno di amore e di bontà , e che questo viaggio sarà l’ultimo che compie in solitudine.
Andrew di solito evitava di trattenersi dopo i funerali. Le poche volte che lo aveva fatto si era ritrovato a dover sostenere goffe conversazioni con direttori di pompe funebri e curiosi senza niente di meglio da fare. Era incredibile quanti se ne incontravano: si attardavano sul sagrato, a sparare banalità . Andrew ormai aveva una certa pratica nello sfilarsi da questo genere di situazioni, ma quel giorno aveva perso tempo per leggere un cartello sulla bacheca della chiesa – la réclame di un’allegra quanto inquietante Festa della Follia Estiva – quando un dito gli percosse la spalla con l’insistenza di un picchio. Era il sacerdote. Visto da vicino sembrava ancora piú giovane, con quegli occhi azzurri da bambino e quelle tendine bionde divise con cura nel mezzo come se lo avesse pettinato la mamma.
– Lei è Andrew, vero? La manda il Comune.
– Esatto.
– Non si è trovato nessuno della famiglia, dunque?
Andrew scosse la testa.
– Un peccato. Un vero peccato.
Il parroco pareva in agitazione, come se avesse per le mani un segreto che era ansioso di condividere.
– Posso chiederle una cosa?
– SÃ, – rispose Andrew cercando di escogitare rapidamente una scusa per non dover partecipare alla Festa della Follia Estiva.
– Come le è sembrato? – domandò il parroco.
– Si riferisce al funerale? – disse Andrew tirando un filo che gli sporgeva dal cappotto.
– SÃ. Be’, in particolare il mio contributo. Perché ecco… a essere del tutto sincero, per me è stato il primo. È un sollievo che si sia trattato proprio di questo, glielo confesso, perché non c’era quasi nessuno ed è stato un po’ come un giro di prova. Ora spero di essere pronto a un vero servizio funebre in una chiesa gremita di parenti e amici, non solo un tizio mandato dal Comune…. Senza offesa, eh! – aggiunse mettendogli la mano sul braccio. Andrew fece uno sforzo per non ritrarsi. Odiava quando la gente lo faceva. Fosse stato un calamaro, gli avrebbe spruzzato inchiostro in faccia.
– Dunque, come sono andato secondo lei?
Cosa vuoi che ti dica?, pensò Andrew. Non hai rovesciato la bara e non lo hai chiamato Hitler per sbaglio. Perciò dieci e lode, direi.
– È andato molto bene, – disse.
– Oh, fantastico! Grazie, amico mio, – fece il prete guardandolo con rinnovata intensità . – Lo apprezzo molto, davvero.
Gli tese la mano, Andrew gliela strinse e poi fece per ritrarre la propria, ma quello non accennava a lasciarla.
– Ora devo andare, – disse Andrew.
– SÃ, certo, – disse il prete mollando finalmente la presa.
Andrew si avviò per il vialetto con un sospiro di sollievo per essere scampato a un ulteriore interrogatorio.
– Spero di rivederla! – gli gridò dietro il parroco.
Negli anni si era cercato piú volte di chiamarli in altri modi: «funerali di igiene pubblica», «sociali», «di welfare», «sezione 46», ma nessuno di questi termini avrebbe mai sostituito l’originale.
La prima volta che si era imbattuto nell’espressione «funerale di povertà », Andrew l’aveva trovata molto evocativa, persino romantica, carica di echi dickensiani. Gli faceva venire in mente un tempo remoto, un villaggio sperduto tutto pozzanghere e galline chioccianti, in cui in cui si moriva appena ventisettenni di sifilide fulminante e si veniva inumati senza tanti piagnistei in una semplice fossa, cosà da andare subito a nutrire la terra. Nella realtà si trattava invece di una procedura piuttosto asettica e deprimente. I funerali erano ormai un obbligo per le pubbliche autorità di tutto il Regno Unito. Ne erano beneficiari quelli che erano scivolati tra le maglie, la cui morte veniva notata solo quando cominciava a sentirsi la puzza o perché nessuno pagava piú le bollette (tuttavia a Andrew era capitato piú di una volta che il deceduto pagasse le bollette con l’addebito diretto in banca e avesse sul conto denaro sufficiente a coprire le spese per mesi dopo la morte, col risultato che il riscaldamento rimaneva in funzione accelerando cosà il deterioramento del corpo. La quinta volta che questo era accaduto, Andrew aveva pensato di riportare il fenomeno nella sezione commenti del rapporto sulla soddisfazione lavorativa che compilava ogni anno. Alla fine però aveva preferito chiedere un nuovo bollitore per la cucina comune).
Un’altra espressione che gli capitava di sentire spesso era «il servizio delle nove». Il suo capo, Cameron, un giorno gli aveva spiegato l’origine di quel modo di dire mentre pugnalava con un certo vigore la pellicola di un biriyani precotto prima di infilarlo nel microonde. «Se muori da solo, – e giú con il coltello, – hai piú possibilità di essere seppellito da solo, – altre pugnalate, – e allora la chiesa vuole sbrigare il funerale entro le nove. Perché tanto, pure se cancellano un treno o si blocca un’autostrada, non fa nessuna differenza –. L’ultimo fendente. – Dato che al funerale non verrà nessuno».
L’anno prima Andrew aveva organizzato venticinque funerali di povertà , un record. Aveva partecipato personalmente a ognuno di essi, anche se da contratto non era obbligato a farlo. Gli sembrava un gesto piccolo ma significativo, essere là in maniera gratuita, senza alcun obbligo. Ma sempre piú spesso gli capitava di stare a guardare la modesta bara di legno grezzo mentre veniva inumata nel disadorno angolo del cimitero dedicato a questo tipo di tombe, ben sapendo che l’avrebbero tirata fuori piú e piú volte per farcene stare delle altre – un macabro Tetris – e pensando che la sua presenza non servisse proprio a un bel nulla.
Seduto in autobus, diretto all’ufficio, Andrew si ispezionò la cravatta e le scarpe. Sia l’una sia le altre avevano visto giorni migliori. Sulla cravatta c’era una macchia ostinata, di origine sconosciuta, che non era mai riuscito a eliminare. Le scarpe erano ben lucidate ma ormai piuttosto logore, ammaccate da troppa ghiaia di cimitero e con il cuoio deformato in punta dalle dita dei piedi che si arricciavano ogni volta che un sacerdote diceva qualcosa di inappropriato. Si ripromise di sostituirle al prossimo giorno di paga.
Ora che il funerale era terminato, si concesse un attimo per prendere mentalmente congedo da John (di cognome Sturrock, constatò dopo aver riacceso il cellulare). Come tutte le volte dovette scacciare un pensiero ossessivo: come aveva fatto John a ridursi a una tale condizione di miseria. Davvero non c’era nemmeno un nipote che gli mandasse una cartolina a Natale? Un amico d’infanzia, che gli telefonasse magari solo il giorno del suo compleanno? Ma era una china scivolosa. Doveva mantenere il giusto distacco, per sé stesso e anche per essere in grado di occuparsi del prossimo poveraccio che presto avrebbe fatto la stessa fine....