Nostalgia.
Quando Odisseo, Ulisse per i lettori moderni, ci viene mostrato per la prima volta è su uno scoglio, davanti al mare, in lacrime. È il quinto libro dell’Odissea, ed è l’entrata in scena di un eroe destinato a occupare un posto di assoluto rilievo nell’immaginario europeo, occidentale e poi addirittura mondiale. Non si sarebbe detto osservandolo su quella roccia, oppresso dal desiderio di tornare nella «cara patria», da una moglie e da un figlio che non vede da anni, e da un padre forse ormai morto (della morte della madre aveva saputo nell’Ade: era morta di dolore, per l’assenza del figlio, «il rimpianto di te, il tormento per te, splendido Odisseo, | l’amore per te m’ha strappato la vita dolcezza di miele»2). Il suo è uno strazio che pare non potersi placare, cosí come non si arrestano mai le onde del mare. «Sul promontorio piangeva, seduto, là dove sempre | con lacrime, gemiti e pene straziandosi il cuore, | al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime»3. Della bellissima ninfa che lo tiene con sé da ormai sette anni, Calipso (letteralmente colei che «nasconde», questo significa il verbo kalyptein), non sembra curarsi troppo, anche se all’inizio non gli era dispiaciuta4.
È una situazione sorprendente, se si pensa a ciò di cui abbiamo discusso nel capitolo precedente: Calipso gli aveva promesso, se fosse rimasto con lei, la lusinga suprema, l’immortalità. E Ogigia, l’isola che li ospita, è una «scheggia di paradiso», in cui la vita trionfa in tutto il suo splendore, tra piante rigogliose e animali variegati5. Ma Ulisse, lí, con la dea, in quel posto meraviglioso, è «il piú infelice degli uomini»6. L’immortalità, o meglio quell’immortalità, non è qualcosa che lo interessa, né l’eventualità della morte qualcosa che lo preoccupa. Ulisse è disposto a tutto pur di tornare a casa dai suoi cari, anche a morire. In parte è comprensibile, se si pensa alla solitudine in cui è confinato: è un’immortalità anonima quella che gli viene promessa. In parte, invece, è strano, e lo diventa ancora di piú se si pensa che persino il grande Achille, quando si erano incontrati negli Inferi, gli aveva mostrato l’orrore della morte, mettendo completamente in discussione il sistema di valori (l’onore e la gloria) che aveva animato le sue azioni nell’Iliade. Poteva salvarsi da tutto questo, Ulisse, ma non vuole. A pensarci bene, però, per il lettore moderno, ancora piú sorprendente è un altro particolare.
Per noi Ulisse è l’eroe della conoscenza, sempre pronto a viaggiare per soddisfare la propria curiosità. Omero si sarebbe stupito, e non poco, ascoltando una simile descrizione: nell’Odissea Ulisse non è quasi mai animato dal desiderio di conoscere. È vero, a volte il suo desiderio di tornare nella «cara patria» è meno intenso rispetto ai momenti passati sullo scoglio di Ogigia, l’isola di Calipso. Dopo aver sconfitto Circe «riccioli belli» e aver recuperato i compagni che erano stati trasformati in maiali, non c’era piú motivo di fermarsi dalla maga. Invece era rimasto per un anno intero: ma è meglio soprassedere sulle ragioni per cui aveva scelto cosí. In altre occasioni Ulisse ha bisogno di conoscere: non lo desidera, ma gli serve per poter realizzare il suo autentico obiettivo, che rimane pur sempre quello di tornare a Itaca. Per questo osa evocare le anime dei morti, perché Tiresia avrebbe potuto rivelargli alcune verità fondamentali sul suo viaggio e sulle sue disgrazie. In tutto il poema, solo in un paio di occasioni Odisseo prova interesse e si attarda perché desideroso di conoscere, deviando dal suo cammino: quando incontra le sirene con i loro canti di seduzione («il canto delle sirene è un invito sessuale, una provocazione dei sensi»7) e, soprattutto, quando decide di aspettare Polifemo, incuriosito da quello che ha visto nella sua caverna, attratto dal «fascino oscuro della profondità, la sua natura ambigua»8. Sarebbe stato molto meglio non farlo, e partire in fretta. Per il resto è sempre spinto dal caso, non cerca avventure, ma le subisce. Insomma: Ulisse ha indubbiamente maturato una grande esperienza nel corso del suo lunghissimo viaggio, come si legge nei primi versi del poema: «di molti uomini vide le città e conobbe il pensiero»9. È tornato, «colmo di tempo e di spazio»10, avrebbe chiosato secoli dopo un altro poeta, Osip Mandelštam. Conosce molto piú di prima alla fine del suo viaggio. È anche dotato di un’intelligenza veloce, che lo ha salvato nelle situazioni piú disperate. Ma tutto questo è in funzione del suo ritorno: «… per riacquistare a sé la vita e ai compagni il ritorno»11.
Ulisse non vuole conoscere o esplorare: vuole tornare a casa. Come è stato tante volte ripetuto, Ulisse è l’eroe della nostalgia, una parola apparentemente greca che in realtà fu coniata da un oscuro medico svizzero molti secoli piú tardi, nel 167712. Ma non è l’eroe della conoscenza, in Omero: non può essere descritto come l’eroe della conoscenza, come il prototipo dell’eroe disposto a tutto pur di saziare questo desiderio. Pronto a rinunciare all’immortalità; viaggiatore suo malgrado; non particolarmente avido di sapere, Ulisse potrebbe apparire come una figura fuori posto in questo libro, e soprattutto in questo capitolo dove si discuterà della morte e della conoscenza a partire da Platone e Aristotele. Non è cosí, come vedremo.
Immortali?
Il viaggio di Aristotele nell’Etica Nicomachea, alla ricerca della felicità e del senso dell’esistenza umana, è lungo e faticoso quasi quanto quello di Ulisse: e le conclusioni a cui arriva una volta giunto al termine sono cosí paradossali che alcuni studiosi hanno addirittura messo in dubbio l’autenticità delle pagine finali del suo libro14. In parte le sorprese si spiegano per la natura peculiare degli scritti aristotelici. Non bisogna mai dimenticarlo: Aristotele pubblicò numerosi scritti, che furono molto apprezzati per l’eleganza dello stile («un fiume aureo di eloquenza»15, commentò Cicerone). Ma questi testi sono ormai andati persi. Quello che ci è rimasto sono le sue note di lavoro. Non pensate per la pubblicazione, sono state organizzate nei «libri» che oggi leggiamo solo molto tempo dopo, nel I sec. a.C. da Andronico di Rodi e altri filosofi peripatetici. Cosí può capitare che in uno stesso libro ci siano ripetizioni e sovrapposizioni di cui non si capisce la ragione (nell’Etica Nicomachea, ad esempio, Aristotele discute due volte il piacere, nel settimo e nel decimo libro), o, fatto piú grave, lacune impreviste. Alcuni dei problemi piú spinosi del trattato dipendono proprio da questa situazione, dal modo in cui si sono conservati e trasmessi i suoi testi.
E all’inizio infatti, dopo aver introdotto (e criticato) la «bella vita» e la vita politica, Aristotele aveva menzionato una terza possibilità, limitandosi però a dire che avrebbe affrontato il problema in seguito: «il terzo è la vita contemplativa, di cui tratteremo in seguito»16. Il tema è evidentemente importante: se la «bella vita» e la vita politica non vanno bene è forse qui, in questa terza opzione, la soluzione al problema della felicità? Una trattazione adeguata è dunque il minimo che ci si possa aspettare. Ma per tutto il resto dell’opera non si trova nulla o quasi: solo all’ultimo, nel momento decisivo, il lettore che abbia avuto la pazienza di seguire Aristotele nella sua laboriosa indagine s’imbatterà in un’altra frase, non meno sibillina e laconica della precedente. Sono le pagine in cui finalmente Aristotele tira le conclusioni della sua ricerca, esaltando l’importanza proprio della vita contemplativa: sí, una vita felice è una vita contemplativa. Questa è la risposta, ecco la soluzione. Nulla però lasciava presagire che questa fosse la conclusione. Perché, allora, questa soluzione? E in che cosa consisterebbe questa vita contemplativa? Aristotele tace; tutto quello che scrive, a conferma della sua tesi, è un conciso «è già stato detto» («Ora, che questa attività [l’attività migliore] sia un’attività contemplativa è già stato detto»17). Dove? Riferimenti non ce ne sono quasi nelle pagine che precedono. Questo è un primo problema, e non è quello decisivo. Magari qualche pagina è andata persa nel corso dei secoli; o magari il maestro non ha mai trovato il tempo o la voglia di mettere per iscritto quello che aveva comunque spiegato a lezione. È possibile.
A risultare davvero sorprendente è quello che scrive dopo, quando arriva a dire qualcosa su questa vita, poche righe piú avanti: «Non si deve dare ascolto a coloro che consigliano di porre mente, essendo uomini, a cose umane e non, essendo mortali, a cose immortali, ma, per quanto è possibile, bisogna sempre farci immortali [athanatizein]»18.
Nel passo tutto ruota intorno al misterioso athanatizein, un verbo di difficile o impossibile traduzione, che allude comunque alla presa d’atto della nostra immortalità. L’invito a «pensare da mortali» esprime un caposaldo della moralità tradizionale delfica: sei un essere umano, non pretendere di piú, impara ad accettare. Aristotele lo rifiuta con il rinvio all’immortalità: come intendere questo invito a riscoprire la nostra natura immortale, perché noi (o almeno una parte di noi: l’intelletto, la sede del pensiero) siamo divini, vale a dire immortali? Sono poche parole, molto enfatiche (distanti dunque dal suo stile abituale). Sorprendenti di per sé, diventano assolutamente sconcertanti se messe in relazione con tutto quello che era stato affermato nelle pagine precedenti. Lo sviluppo della sua indagine sembrava condurre il filosofo in un’altra direzione. E allora perché questa conclusione, in cui felicità, contemplazione e immortalità sono improvvisamente associate? Che il tema della morte e quello della felicità siano accostati però non stupisce, come abbiamo ormai messo in chiaro. Per fare chiarezza conviene allora ritornare dove ci eravamo fermati alla fine del capitolo precedente.
All’inizio dell’Etica Aristotele aveva delineato tre modelli possibili per una vita felice, senza però risolvere il problema. Per questo, dopo aver criticato la «bella vita» e la vita politica, e dopo aver liquidato nel modo che abbiamo visto la vita contemplativa, aveva preso una nuova strada per uscire dall’impasse in cui rischiava di arenarsi. Visto che le opinioni degli altri, di chi aveva perorato la causa della «bella vita» o della vita politica, rischiavano di non condurre da nessuna parte, Aristotele decide di seguire una pista diversa, prendendo le mosse da una riflessione piú approfondita sull’essere umano. ...