Troppa importanza all'amore
eBook - ePub

Troppa importanza all'amore

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Troppa importanza all'amore

Informazioni su questo libro

Da Napoli a Liverpool, dal silenzio dei genitori alle parole dei figli, dalla magia inconsapevole della seduzione alle controllate omissioni del tradimento, dallo sguardo di chi muore all'allegria di chi rinasce, ogni storia di Troppa importanza all'amore rivela qualcosa su ciò che ciascuno crede di conoscere meglio di chiunque altro: la propria vita. Valeria Parrella torna alla leggerezza della forma breve che ha consacrato il suo successo fin dall'esordio con mosca piú balena. *** «Quando scrivo racconti sono sempre felice: mi sento in un territorio mio. Credo che siano la misura giusta per i nostri giorni, il tempo tronco, caduco, veloce, rubato: leggere, e poi continuare la giornata. Scrivo racconti quando sento che la realtà è troppo sfuggente e varia per essere cristallizzata in una forma lunga. E scrivo racconti perché mi interessano gli esseri umani: donne e uomini solitari che combattono le loro solitarie guerre. Ma soprattutto, io credo che il racconto sappia parlare di amore cosí come l'amore è: incompleto e sghembo». Valeria Parrella

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806214074
eBook ISBN
9788858434390

Behave

NON SONO GRADITI I BAMBINI
NON SI DISTRIBUISCE ALCOL A PERSONE MINORENNI
Non c’è scritto «welcome» da nessuna parte, neppure sullo zerbino, nel locale dove mangia mio figlio. Lo trovo ragionevole e molto, molto onesto. «Questa è gente che dice quel che pensa», penso. E quel che questa gente pensa è: «Non mi dovete rompere le palle». Almeno il proprietario lo pensa. Non riesco a credere che lo pensa pure quella barista là, che è cosí dolce e ha le tette cosí belle e non puzza mai di sudore e non sbaglia mai a dare il resto. E sente una comanda anche oltre tre spalle di ubriachi. Ma se lavora in questo posto, penso, se quel vecchio fegatoso di George l’ha assunta, lo pensa anche lei: «Non mi dovete rompere le palle», e quindi, soprattutto, anche lei non gradisce i bambini.
Lo trovo onesto, dire ciò che si pensa.
Non è garbato, non è carino direbbe l’assistente sociale. L’assistente sociale non è una che dice quello che pensa. È una morta.
Non è un modo di dire, questa cosa qua a me riesce bene: io quando dico morto, sto proprio dicendo morto. Sto dicendo che dentro le persone normali, che camminano, fanno le loro cose, io vedo i morti. Non lo posso dire troppo in giro questo fatto, sennò mi prendono per pazzo, e proprio non ce n’è bisogno, già combinati come siamo con mio figlio, che mi prendono per pazzo. Ma chi mi conosce bene lo sa che io vedo il freddo, o il caldo, nei corpi della gente. O non vedo niente.
L’ho scoperto quella sera, chissà dove eravamo, 40 miglia ponente di Malta, 60 miglia scirocco di Licata.
Da allora ho un amico, Bill, che quando non ha un cazzo da fare – e non ce l’ha mai un cazzo da fare Bill, che per andar per mare non si è mai sposato e forse figli ce ne ha ma chissà dove e chissà con quale nome –, e cosí ora che è vecchio come me non ha un altro cazzo da fare che chiedermi di sedermi sulla panchina davanti ai docks e fumare.
Stiamo cosí sulla panchina e ogni persona che passa lui mi chiede: – Buddy, è vivo o morto quello?
Io rispondo, e lui a volte dice che sí a volte dice che no, e poi a volte li conosce e dice che è proprio sí, che ho una capacità dentro di me.
– Quell’attracco sull’isola ti ha dato i poteri, Buddy.
Poi mi dice di farmi piú in là, perché il sole si è spostato e lui non vuole restare con la gamba all’ombra.
– Questo non è il sole, Buddy, il sole sta in Egitto. Questo è tutto il sole che abbiamo: che è un’altra cosa, Buddy.
Il bar dove mangia mio figlio si chiama Behave, sta dentro uno di quei palazzi di cotto rosso che sono sfuggiti alla mattanza dell’amministrazione. Non l’hanno buttato giú, forse piaceva ai turisti. Qua appena un cornicione traballa ti trovi tutto il palazzo impacchettato di nastro bianco e arancio come se dentro ci fosse una bomba. «Ma io ci sono entrato fino a ieri mattina, – dico, – mica può essere diventato cosí pericoloso in dieci ore…» Però è cosí che fanno. Quella chiesa lí invece, quella dove va a bere mio figlio la sera: quella piace molto ai turisti, e ce l’hanno lasciata. Ne hanno fatto una discoteca. Le hanno anche dato una sistematina, ai dipinti e al soffitto.
Non lo dico perché sono bigotto, e anzi quelle questioni tra noi e i cattolici non le sopporto. Non sono sicuro, voglio dire, che anglicano è meglio. Cioè non come sono sicuro che l’Everton è meglio del Liverpool, questo voglio dire, non con quella certezza evidente, matematica.
Io con Dio non ci parlo molto, abbiamo questa questione del figlio che sta tra di noi, ormai da trentacinque anni, e non ne veniamo a capo: però io me lo ricordo l’odore dell’incenso in quella chiesa, e ora un poco di schifo mi fa che sull’altare invece del sacerdote c’è il deejay. Puzzano di morte pure mentre ballano, quei ragazzi, «Un po’ di rispetto, – dico io, – che cazzo!»
Poi l’odore di incenso che ricordo io era quello di questa chiesa, o di tutte le chiese che ho visto girando sulle navi. Quando scendi, scendi. E se scendi, vai in chiesa. Una qualunque. Ci sono quelle in cui ti togli le scarpe, quelle musulmane, e stai piegato fino a terra, o ti metti sotto i porticati a prendere un poco di pace, prima di attraversare le vie della città nuova. O quelle dove non vedi niente e ti devi solo fidare, ché fanno tutto dietro il paravento. Quelle ortodosse: quella è stata la chiesa in cui ho sentito l’odore di incenso piú forte della mia vita. Fu una folata che mi ripulí dalla nafta e mi fece girare la testa. Ma era una chiesa senza sedie quella. Da poche ore eravamo entrati al Pireo, e il Pireo, bisogna credermi, è già lui stesso una chiesa. Quando arrivi al Pireo capisci che l’uomo non c’entra proprio niente, ha fatto tutto qualcun altro e i portuali se lo sono trovato già bello e fatto. Un gran colpo di culo, se pensi a quelli di Amsterdam o a quelli di Venezia che da mille e mille anni stanno a spalare via l’acqua.
Io entravo sempre nelle chiese, anche se avevano la forma delle astronavi o erano una sala con i neon al primo piano di un palazzo, ma insomma la prima chiesa che ho incontrato sempre, una volta a terra, dopo il tabacchi, ci sono entrato e con il massimo rispetto ho detto: «Che cazzo, questa storia di mio figlio handicappato, tra di noi, non mi fa essere sincero con te. Ma quel poco di sincero che ci trovi prendilo per buono, e falli stare bene a casa, a Jude e a Brandon. Per quanto può stare bene Brandon, tutto quello che può stare bene, lui e la mamma, falli stare bene. E non me li far mancare troppo. Ma neppure troppo poco. Tienimi alla giusta distanza da quelli che amo, Dio, cazzo».
Jude no. Jude ci è stata subito dentro fino al collo. Dentro alle cose, intendo. E questa cosa l’ha pagata, sí.
– Jude, ti porto a bere.
– E Brandon?
– Brandon ha tredici anni, può stare a guardare la tv da solo.
E Jude diceva sí, ma senza crederci. E mentre scendevamo per Duke Street, io le dicevo: – Vedi qua, Jude? Vedi questi segni? Qua era tutto cime che scendevano al mare, è per questo che le strade vanno giú dritte, perché ci dovevano intrecciare le cime per tutta la lunghezza. Qua il college non esisteva, Jude, quando sono nato io, era solo porto. Tutto porto.
E Jude guardava e si poggiava al braccio, ma non immaginava me bambino, o le vecchie fonderie a forgiare ancore, no: lei guardava quei segni nella pietra e immaginava Brandon scendere la mattina per quella stessa strada, e trascinare la sua gamba sinistra e finire proprio in uno di quei solchi e cadere, e spaccarsi il naso. E poi da lí la gente che lo aiutava, e lui nel panico dietro gli occhiali senza ricordare il suo nome, come gli succede quando ha troppa gente addosso, e finalmente qualcuno che lo riconosce, un’insegnante o una vicina di casa: «È Brandon, il figlio di Jude, so dove abita, chiamiamo la madre…»
Tutto questo lavorava nella testa di mia moglie in un secondo, mentre andavamo a bere una cosa al pub. Io vedevo le sue palpebre tendersi dietro il rimmel che aveva messo per me e sentivo il rumore della sua mente in azione e il suo spazio, lo spazio di una donna bellissima, diviso tra ciò che occupava, sotto il mio braccio, e ciò che era: a casa con Brandon.
Io Jude me la sono vantata tantissimo al braccio, perché era la piú bella e ha sposato me, e tutti quei dolori che la malattia del bambino le ha scavato in faccia erano ugualmente bellissimi. Nulla da dire.
– Tu sei una che da una goccia d’acqua fa uscire una fontana, Jude, – le dicevo portandole un profumo dalla Francia o una ceramica dall’Italia. Lei arrossiva.
Quando arrivavamo al centro, non si capacitava di tutti quei turisti che andavano verso The Cavern: – Quei giovanotti non suonano piú qua da un pezzo, saranno quindici anni che se ne sono andati.
– È come un pellegrinaggio, Jude.
– Pazzesco.
Comunque il Behave non l’hanno buttato giú, ed è un buon posto per mettersi in salvo dai turisti e dai Beatles.
Entro che sono poco dopo le due, la porta fa din don, ma con il bordello che c’è dentro nessuno se ne accorge, nessuno sente, nessuno mi fila. Alla vetrina ci sono i tavoli rotondi per quelli che possono perdere piú tempo o che stanno da soli, e allora guardare fuori verso la strada serve. Specie con un chicken tikka bollente davanti. Una specie di piatto locale, secondo loro che hanno passato la vita a terra a cucinare e del mondo non sanno un cazzo.
– In India lo fanno meglio, George. In India sí che lo sanno fare il tikka, – gli ho detto una volta.
– Non mi parlare di politica, Bud.
Di fronte, lungo il muro, ci sono i tavolini quadrati piccoli, per le coppie, che qua dentro sono solo vecchi, alcuni li conosco, molti no. La città poi è grande e si invecchia senza conoscersi. Altri ancora li conosco solo se li vedo seduti lí: se li vedo seduti lí la vecchia può anche cambiare bavero al cappotto o tinta ai capelli e il vecchio avere i baffi o essersi rasato, ma insomma lí dentro li riconosco. Fuori no. Come bevono le vecchie, ma reggono, cazzo. Le coppie qua si siedono di lungo, a fianco lungo il muro, non di angolo come i giovani. Cosí non si devono parlare per forza. Che è la cosa piú bella del mondo, la piú bella in assoluto, quella che mi manca di piú nella mia vita: quando esci con la tua donna, o stai in casa con la tua donna, e non ci devi parlare per forza. Quando io e Jude prendevamo anche tre pinte seduti di fianco: a guardare la gente che cambiava davanti al bancone, e il barista al lavoro, la cassiera che dava il resto, un televisore lontano acceso sullo sport, ma senza audio. Le decorazioni di Natale che avrebbero attraversato la primavera e di nuovo l’autunno per essere già al loro posto il Natale seguente. La licenza per vendere gli alcolici e l’orologio rotto che girava comunque, ma dava i secondi due alla volta, e poi piú niente per un po’.
– Quando le cambia le pile a quell’orologio, secondo te, Jude?
– Secondo me mai: lui lo tiene di spalle, che se ne fa di un orologio di spalle? Manco lo vede, con tutte quelle bottiglie rovesciate lí in mezzo.
Questo ci dicevamo io e Jude, magari per tutto un pomeriggio solo questo. E poi: – Andiamo?
– Andiamo.
Oppure andavamo a passeggiare ai magazzini per vedere il mare. La tenevo sotto braccio o lei stava qualche passo avanti, perché le dava fastidio che qualcuno, io in particolare, invadesse l’orizzonte. Però da sola non ci veniva mai, non ci sarebbe mai venuta. O forse voleva essere guardata contro il mare, con in controluce quel cielo pesante e luminoso come il piombo quando lo lucidi bene. Perché era una bella donna. Ma comunque stavamo cosí per ore senza parlarci, in perfetto silenzio finché uno dei due diceva: – Andiamo?
– Andiamo.
Questa cosa nella vita non la puoi fare con nessuno se non ti fidi al mille per mille. Io non la faccio con nessuno, pure con Bill qualche cazzata sulla squadra ce la diciamo, e con Brandon anche. Anzi con Brandon parlo continuamente perché ho paura che nel silenzio arrivi qualcosa su cui io poi non so cosa pensare. E poi Jude mi ha insegnato cosí fin da quando lui era piccolo: che gli dovevamo riempire la testa del mondo che c’era attorno.
Solo con Jude io mi sono potuto permettere la ricchezza del silenzio perfetto: perché sapevo che non stavamo perdendo nulla. E questa cosa qui se non l’hai mai sentita, non la puoi capire.
A metà del bancone George solleva gli occhi su di me e io gli faccio cenno con la testa: No, che non voglio ancora bere, sono solo venuto a vedere Brandon a che punto sta.
E Brandon sta là, dove il locale si apre sulla sala grande, con cinque tavoli che ci si possono sedere anche sei persone, otto se ti fai portare gli sgabelli per i capotavola. E poi c’è un bancone in disuso che George mette in piedi solo per le feste grandi, una o due volte l’anno, poi la porta del bagno e poi la tirata dei finestroni con quattro tavolini piccoli e una panca lunga, cosí che quando ti siedi non puoi manco appoggiare la testa, che dietro hai il vetro. Però la panca è comoda.
Brandon sta là, in piedi, ancora con la giacca a vento addosso e il cappello tirato sulle stanghette degli occhiali, e neppure la borsa ha poggiato per terra.
Sono le due, non dev’essere entrato da molto, chissà quanto ancora ce ne vuole. Brandon guarda verso la sala, è di spalle ma so che sta sudando, è impossibile non sudare quando stai dentro con gli stessi vestiti di fuori.
Ma lui è troppo teso per pensare alla temperatura, per pensare di poggiare la borsa a terra. Tutti i tavoli davanti a lui sono occupati e lui sta pronto per prendere il prossimo posto, appena un tavolo si libererà. Ha una gamba in avanti e una dietro, come se fosse ai blocchi di partenza, e gira la testa sudata, incappucciata, a destra e a sinistra ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il giorno dopo la festa
  4. Gli esposti
  5. Behave
  6. Rispetto per chi sa
  7. 99/99/9999
  8. Il castello
  9. Troppa importanza all’amore
  10. L’ultima vita
  11. Restituzione
  12. Il libro
  13. L’autrice
  14. Della stessa autrice
  15. Copyright