Il diavolo in Francia
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Il diavolo in Francia

Con l'aggiunta dell'episodio conclusivo La fuga di Marta Feuchtwanger

  1. 280 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il diavolo in Francia

Con l'aggiunta dell'episodio conclusivo La fuga di Marta Feuchtwanger

Informazioni su questo libro

Scrittore molto noto negli anni Venti e Trenta, amato dal giovane Primo Levi, Feuchtwanger si trasferí in Francia dopo l'ascesa di Hitler al potere. Ma allo scoppio della guerra, in quanto proveniente da un Paese nemico, fu internato in un campo ricavato in una ex fornace di mattoni vicino ad Aix-en-Provence. Il libro è il resoconto della lunga estate del 1940 quando lo scrittore, insieme ad altri duemila tedeschi e austriaci, vive un'esperienza sempre piú angosciante man mano che le truppe della Wehrmacht avanzano nella Francia collaborazionista e si avviano a «liberare» i connazionali internati.Racconto acuto, ironico nella sua drammaticità, scritto in una prosa asciutta e al contempo riflessiva in cui l'autore riesce a vedere se stesso con l'occhio di uno scrittore e non di una vittima. Con la consapevolezza di narrare, in prima persona, una serie di episodi che preludono alla fine di un mondo. (...) L'opera piú importante di Feuchtwanger è la trilogia su Flavio Giuseppe, comandante delle truppe ebraiche ai tempi della guerra contro Roma, passato dalla parte dei Romani. Flavio Giuseppe era un traditore? O piuttosto un uomo colto che odiava i fanatici integralisti ebrei e ammirava il cosmopolitismo dei Romani? In ogni caso è lui il fondatore del canone della narrazione laica ebraica e forse il primo vero cronista di guerra. Feuchtwanger con ogni probabilità si identificava con Flavio Giuseppe, se non altro perché professava il cosmopolitismo come un modo di vivere e pensare. Ma capiva anche che l'Europa non era piú un luogo per i cosmopoliti. (...) E, amara ironia della storia, Il Diavolo in Francia, in questa Europa di oggi, dove la condizione del profugo e dell'apolide ci interpella perché specchio deforme e quindi fedele della nostra condizione umana, si rivela un testo piú che mai attuale.
dalla prefazione di Wlodek Goldkorn

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806242602
eBook ISBN
9788858433478
Argomento
Literature
Categoria
Classics

Le tende di Nîmes

Come sono belle le tue tende, Giacobbe,
E le tue dimore, o Israele9.
L’indomani dovemmo alzarci presto e presentarci allineati secondo il vecchio ordine: tedeschi, austriaci, membri della Legione straniera.
Di nuovo rimanemmo in attesa. Come al solito ci facevano aspettare all’infinito, e ci chiedevamo perché ci avessero dato la sveglia cosí in anticipo. A dire il vero, stavolta non fu un’attesa troppo pesante. C’era ancora tanto sonno da recuperare, molti si sdraiarono e dormirono un altro po’ mentre il sole saliva benefico, altri si accucciarono tranquilli. Il cielo era luminoso, l’aria pulita e fragrante. Intorno a noi, dolci declivi azzurrini. Il treno, in realtà, il treno spettrale dove ci avevano rinchiusi per un tempo che ci era parso interminabile, era ancora lí. Ma ecco che, a un certo punto, il convoglio si mise in moto. Tra sospiri di sollievo lo vedemmo percorrere un’ampia curva e poi scomparire. Se ne andava via con lui tutta l’amarezza del viaggio piú orribile della nostra vita.
Ancora ignoravamo dove ci volessero portare. Nei dintorni della città di Nîmes c’erano due o tre siti compatibili con un campo d’internamento. Tutto stava a indicare che ci aspettava una lunga marcia. Non che la marcia in sé ci spaventasse; ma come fare col bagaglio? Sarebbe stato arduo portarcelo appresso su per le colline.
Alcuni uomini anziani vollero avvicinare il capitano. Era uno nuovo; le nostre vecchie guardie, ufficiali e soldati, erano ripartite insieme al treno. Il nuovo capitano dichiarò in tono brusco che i mezzi motorizzati erano previsti solo per il bagaglio dei malati; i sani avrebbero dovuto far lo sforzo di portarselo da soli. Gli anziani mugugnarono. Erano riusciti a salvare i loro ultimi averi durante quel viaggio spaventoso, non volevano perderli proprio ora. Avevano sopportato con coraggio gli strapazzi del trasporto, ma ecco che, su questa faccenda minore, s’impuntavano. Nervosi e incupiti, fecero presente all’ufficiale che erano uomini anziani e dunque non piú in grado di caricarsi addosso quei pesi su per le colline. L’ufficiale rispose, sgarbato, che allora li lasciassero lí. Poi osservò a mezza voce che l’amministrazione militare, al momento, aveva ben altre urgenze che la biancheria di quattro boches.
I primi gruppi si misero in marcia. O meglio, piú che marciare, si sciolsero già nell’attraversare il prato, e ognuno procedette al proprio passo. Tutti mescolati, soldati di guardia, sergenti, internati, avanzavamo in quel dolce paesaggio, lungo sentieri pietrosi. Colli azzurrini, molta boscaglia, macchia di lecci. Vallette, ruscelli, brughiera, tutta terra incoltivabile, piccole gole, un fiume, e sopra di noi un cielo molto limpido. Si procedeva in salita, per lunghe curve morbide. Mi voltavo a guardare verso il nostro prato. Era disseminato di bagagli di ogni genere. La maggior parte aveva deciso di lasciarli lí. E cosí avevo fatto anch’io.
Nessuno sembrava affrettarsi. Un sergente, un paio di soldati ci incitavano, ma senza fare sul serio. Il ritmo era quello di una passeggiata, ce l’eravamo meritata dopo quel viaggio terribile. Chissà, saremmo forse finiti in un altro vecchio edificio come la fornace di Les Milles. Cercammo cosí, nei limiti del possibile, di apprezzarla, questa passeggiata sotto il cielo luminoso, e ci fermammo spesso a riprendere fiato e a goderci il panorama.
Il cammino si fece piú disteso. Proseguimmo per qualche centinaio di metri lungo la provinciale, passavano pochissime automobili, la benzina scarseggiava. Ci sorpassò una corriera strapiena di gente, con l’iscrizione NÎMES-UZÈS.
Erano ormai due ore che camminavamo in salita. Notai un sentiero laterale che scendeva per un declivio erboso per poi risalire ripido verso la provinciale. Decisi di prenderlo. In fondo c’era un torrente, con tanti fiori gialli dal lungo stelo. Mi sedetti su un sasso. Ero solo. Ero solo per la prima volta dopo molte settimane, su un grande prato sotto il cielo radioso. E tutt’attorno terra ondulata, colline d’un vago cilestrino, aria purissima.
Ero stato imprigionato per settimane, e ora sedevo lí, come un uomo libero. Osservavo i monti e il cielo e i prati, l’acqua che scorreva ai miei piedi; non saprei dire quanto tempo trascorsi cosí, ma fu un trascorrere gradevole, questo lo ricordo bene.
Poi mi rimisi in cammino, piano piano, per risalire verso la provinciale. Non era una salita troppo dura, ma neanche cosí lieve, tanto che, una volta raggiunta la strada, mi dovetti risedere su un paracarro a prendere fiato.
Passarono dei camion militari. Trasportavano i nostri bagagli. L’ufficiale sgarbato non solo aveva fatto raccogliere i colli sparpagliati per il prato, i camion avevano ricevuto l’ordine di caricare anche i bagagli di coloro che se li erano portati appresso. Inoltre qualcuno era riuscito a procurarsi in città un paio di carretti a rastrelliera, ed erano rimasti disponibili dei posti. Riuscii a coprire in quel modo ciò che restava della salita.
Dovevamo aver percorso complessivamente venti, venticinque chilometri, quando giungemmo a un’antica porta in pietra, con l’iscrizione SAN NICOLA erosa dalle intemperie. Questa porta conduceva a un podere che sembrava da lungo tempo in abbandono.
Evidentemente il podere e i suoi terreni erano stati individuati come il nostro nuovo ricovero. C’erano una casa padronale e alcuni edifici di servizio, tutto vecchiotto, un poco primitivo, ma piacevole allo sguardo. Gli ufficiali e le guardie sarebbero stati alloggiati nella casa padronale e nei locali di servizio. Ma noialtri?
Per noi internati non c’era altro che un grande terreno, un vasto prato con alberi di gelso e intorno macchia, poi ancora prati; il tutto in gradevole posizione, ma inadatto, a prima vista, a dar ricovero a tanta gente. Dopo la lunga marcia eravamo tutti molto assetati. Le poche fontanelle potevano garantire acqua di dubbia qualità per una ventina di uomini, non certo per duemila. Al momento non avevamo che l’ombra dei gelsi.
Arrivarono altri ritardatari. E già avevano trovato il modo di presentarsi quassú anche certe persone provenienti dalla città. Offrivano sigarette, cioccolato, caramelle, tutto a caro prezzo. Il prezzo era dovuto, dissero, al tragitto lungo e faticoso. Arrivare fin qui da Nîmes, spiegarono, era disagevole. Lungo la strada non c’era niente, nemmeno l’acqua, bisognava portar su tutto dalla città. Tra l’altro, Nîmes a sua volta era sotto pressione, s’era riempita di profughi francesi, belgi, olandesi, la popolazione era praticamente triplicata.
Ci guardavamo preoccupati. I bisogni di tutti quei profughi avevano la precedenza: chi si sarebbe occupato dei nostri? Ma presto ci scuotemmo di dosso i nostri timori. Era una gradevole giornata di inizio estate, sopra di noi un bel cielo limpido. Era dieci volte meglio della fornace di Les Milles, cento volte meglio di quel treno maledetto.
Ed ecco che comparvero i primi autocarri con i rifornimenti inviati dalle autorità militari. Ci affrettammo ad andare a vedere che cosa fosse arrivato. Acqua? Scorte alimentari? Non era acqua, non era cibo, non erano neanche assi per costruire baracche, né badili per scavare latrine. Era filo spinato.
Mentre oziavamo sparsi per il prato, si presentarono da me due giovani dall’aria accigliata, e mi dissero che dovevano parlarmi. Ma non volevano farlo davanti ad altri, e mi pregarono quindi di seguirli.
Entrammo in una piccola corte di acciottolato, che un recinto separava dal prato. Un lato del cortile era occupato da una rimessa aperta. Ci dirigemmo lí. La rimessa aveva un tetto inclinato, il pavimento era coperto di paglia, c’erano una rastrelliera, una grande mangiatoia, un vecchio carro agricolo. Ricordo quel luogo nei dettagli.
Ci mettemmo all’ombra, nella corte assolata c’erano soldati che oziavano e bighellonavano, e anche un po’ di gente nostra, parecchi erano affaccendati intorno alla pompa del pozzo, che non dava acqua. Non appena mi scorsero, alcuni compagni mi vennero incontro per fare due chiacchiere. Ma i due che mi avevano portato fin qui li pregarono di lasciarci soli perché dovevamo parlare tra noi, e mi condussero in un angolo appartato, cercando di coprirmi alla vista altrui.
Mi misero in mano un foglio di giornale. – Legga qui, –dissero. Cosí feci. Era un giornale fresco di stampa, un giornale locale di Nîmes, e riportava le condizioni dell’armistizio. Ricordo con esattezza quei momenti, ricordo il piccolo formato del foglio, la struttura della frase che annunciava tutti i punti salienti dell’armistizio. Lessi con apprensione, i sensi allertati, clausola dopo clausola, lentamente e velocemente insieme. Lessi la clausola numero uno, la numero cinque, la quindici, la diciannove. La clausola diciannove sentenziava che i francesi s’impegnavano a consegnare ai nazisti tutti i cittadini tedeschi che figuravano come ricercati.
Mi tremavano le ginocchia, interruppi la lettura. «Tutti i cittadini tedeschi che figurino come ricercati». Nei discorsi e nella stampa di partito io ero stato citato piú volte come «nemico numero uno». Se i nazisti avessero consegnato una lista di ricercati, di sicuro il mio nome sarebbe stato tra quelli in cima.
– Grazie, – dissi, e resi il giornale. Era la terza volta, in tempi ravvicinati, che sentivo la morte cosí vicina a me. La prima volta l’avevo avvertita la notte in cui i nazisti erano in avvicinamento e il nostro treno non arrivava mai. La seconda volta a Bayonne, quando girava voce che i nazisti ci stessero accerchiando. Adesso allungavano le grinfie una terza volta, da distanza ravvicinata, e coloro a cui mi ero affidato per ottenere protezione avevano accettato di consegnarmi.
– Lei che ne pensa? – mi chiesero i due giovani. – Cosa facciamo? – Io sono Tr…, – disse uno dei due, – forse ricorderà. Dopo la rissa a coltellate durante la manifestazione avvenuta in quella tal data i nazisti mi avevano accusato di avere ucciso il membro del partito Fischer. In primo grado fui assolto. Ma per i nazisti, naturalmente, io sono l’omicida. – Cosa facciamo? – chiesero di nuovo. – Ci troviamo nelle stesse condizioni, lei e noi. Filarcela adesso sembra ancora possibile. Domani potrebbe essere tardi –. Parlavano in tono pacato, stavano ragionando. – Mi diano un’ora di tempo per pensarci con calma, – risposi. – Io sono lento, ho bisogno di riflettere sui pro e i contro. – D’accordo, – dissero. – Abbiamo voluto avvertirla perché lei è tra quelli a massimo rischio. Vuol tenere il giornale? – No, – replicai, – ne so quanto basta –. E ci separammo.
Quando uscii dalla piccola corte mi venne incontro Karl, era di buon umore. – C’è qui la sua valigia, – disse. – Ho messo insieme tutte le sue cose. E le ho portato qualcosa da bere, – continuò orgoglioso. – Ho anche trovato un buon posto dove si può sistemare e riposare un po’. Vuole che le porti là la sua coperta? – Lo faccia senz’altro, – dissi. – Grazie, Karl.
Aveva un thermos con del tè. Ne bevvi. Poi andò a prendere la coperta e mi accompagnò attraverso il prato fino a un lieve declivio sotto un gruppo di alberi. Stese la coperta, era punteggiata dai giochi di luce tra i raggi del sole e l’ombra dei rami. Mi coricai e chiusi gli occhi.
Compagni di internamento che hanno avuto occasione di osservarmi nelle situazioni piú sfavorevoli e pericolose di quei mesi sostengono che io abbia mostrato piú coraggio e autocontrollo di molti altri.
Le mie opinioni circa il significato etico del coraggio, specialmente del coraggio fisico, divergono un poco dalle opinioni correnti. Nel giudicare il coraggio come qualità io mi sento un eretico, come lo era il filosofo Platone o come lo è l’aviatore Saint-Exupéry. Platone, nella gerarchia delle virtú, assegna al coraggio il rango piú basso. L’aviatore, famoso per il suo personale ardimento, e dunque esperto in materia, constata che il coraggio, almeno il coraggio fisico, si compone di impulsi e sentimenti di dubbio valore, ovvero di rabbia, di superbia e di banale spirito agonistico.
Vorrei qui citare un piccolo episodio, frutto della mia esperienza personale. Io ho un fratello che a soli diciassette anni, durante la Prima guerra mondiale, andò al fronte come volontario e si rese meritevole di atti di valore. Ricevette la piú alta onorificenza militare e fu uno dei pochi soldati semplici che nel corso della guerra furono espressamente nominati nei resoconti del Comando supremo dell’Esercito. Quando gli domandai come e perché fosse giunto a commettere quegli atti di eroismo, mi rispose, con un’ombra di vergogna ma, ritengo, con sincerità, che diversamente avrebbe forse cominciato ad annoiarsi.
Il coraggio fisico è una qualità abbastanza diffusa. La Prima guerra e ancor di piú quest’ultima hanno dimostrato come esista al mondo una quantità di coraggio decisamente superiore a quanto abbiamo sempre ritenuto. In entrambe le guerre, innumerevoli volte è capitato di dover compiere azioni le cui probabilità di successo erano assai inferiori alla probabilità dell’autore di trovarvi la morte. Sempre e ovunque vi furono migliaia di volontari disposti ad assumersi il rischio di tali azioni.
Sigmund Freud, in un piccolo grande libro che ebbe il coraggio intellettuale di pubblicare durante la Prima guerra, fa risalire l’eroismo fisico alla circostanza che ogni individuo è conscio razionalmente del proprio rischio di morire, e tuttavia, nella propria sfera piú intima, nessuno crede davvero alla propria morte. Il dato esperienziale per cui ogni uomo è destinato a morire in nessuno di noi è penetrato cosí a fondo nel subcosciente da evitare che il nostro essere interiore si ribelli con tutte le forze all’idea di un mondo che possa continuare a esistere anche in nostra assenza.
Se dunque nella nostra epoca il valore fisico lo si può incontrare di frequente, tanto piú infrequente, in questo mondo d’oggi, appare il valore spirituale, il coraggio civile. Coloro che hanno dato prova di massimo coraggio del corpo, a volte falliscono quando si tratta di esprimere il coraggio dello spirito. Io sono stato testimone di come, in questa guerra, uomini che si sono dimostrati all’altezza di situazioni di estremo pericolo, assi dell’aviazione, non abbiano avuto il coraggio di difendere le proprie opinioni durante un cocktail party, se tali opinioni potevano risultare sgradite ad alcuni presenti.
Per quanto mi riguarda, il pericolo fisico, nel momento in cui si manifesta, mi rende nervoso. Se in una strada poco frequentata sbucano dall’oscurità un paio di figuri sospetti per chiedermi da accendere, o se in tempi di rivolte politiche uomini armati mi perquisiscono la casa e minacciano d’arrestarmi, subito mi sale dallo stomaco una sensazione di malessere e il viso mi s’imperla di sudore. Basta che a teatro un attore agiti una rivoltella per mettermi a disagio. Se dunque i miei compagni di prigionia, dal mio atteggiamento in situazioni di pericolo, hanno avuto l’impressione che io sia un uomo di coraggio, probabilmente è solo perché il mio senso di panico in genere non dura che pochi istanti ed è poco visibile all’esterno. Rapidamente, infatti, tende a ridestarsi in me quella fede nel destino di cui piú volte ho avuto modo di parlare. Fors’anche è particolarmente viva in me quella certa superstizione di stampo freudiano, come a rassicurarmi che proprio nei momenti cruciali nulla di fatale possa o debba succedermi.
Se da una parte, perciò, sono convinto che in generale, malgrado le apparenze, io non sia certo un campione di coraggio fisico, dall’altra ritengo che solo in rari casi io abbia mancato di dar prova di coraggio civile.
L’impulso a dar voce a ciò che penso mi è profondamente innato. Non so tenere la bocca chiusa nemmeno quando è pericoloso. Se uno, per esempio, sostiene che Montaigne è nato intorno al 1600, mi è impossibile frenarmi, e anche se si tratta di un uomo potente e facile all’ira, mi vedo costretto ad aprir bocca e a replicare: «Si sbaglia, caro signore, Montaigne nacque nel 1533».
Il fatto di non possedere il talento di saper chiudere il becco al momento giusto mi ha procurato parecchi nemici, oltre a espormi a seri imbarazzi. Mi capitò di sentire un signore spiegare che il governo dei soviet, ogni due anni, fa esaminare le mani di tutti i cittadini, e coloro che risultano avere mani curate e delicate vengono spediti nelle miniere. Non potei esimermi dal replicare che io invece conoscevo un bel po’ di russi sovietici dalle mani ben curate che non hanno mai lavorato nelle miniere, per esempio lo scrittore Aleksej Tolstoj, il regista cinematografico Ejzenštejn, il segretario del partito Stalin. Quel signore rinunciò a ribadire la sua teoria dei criteri di selezione dei minatori in Unione Sovietica, ma da allora non mi può vedere.
Un’altra volta, quando un grand’uomo sostenne che l’americano medio vive nell’abbondanza, non potei evitare di commentare che, secondo le statistiche piú accreditate, su centotrenta milioni di americani, ottanta milioni campano con un reddito medio di sessantanove dollari al mese per nucleo familiare. Da allora anche quel potente non è piú mio amico.
Del resto, ogni qualità ha un suo doppio fondo. Cosí, la mia smania di contrapporre le cose che ritengo certe, come l’espressione «due per due fa quattro», a quelle che giudico indimostrate, come «due per due fa cinque», ecco, questa mia smania la si potrà anche chiamare insolenza, o coraggio di esporsi. A ogni modo questa insolenza, o coraggio di espormi, è una delle mie caratteristiche salienti, e mi distingue da buona parte dei miei contemporanei.
È probabile che io abbia sviluppato questa mia caratteristica in tal misura perché mi ritengo uno scrittore. Dire come stanno le cose, ovvero come io credo che stiano, mi sembra il massimo piacere che offra il mestiere dello scrittore. E sebbene per questo piacere io debba pagare un alto prezzo, com’è accaduto, come accade e accadrà ancora, ebbene questo prezzo non lo trovo eccessivo. A che scopo mi sarei conquistato una qualche considerazione come scrittore, se non mi potessi permettere questo piccolo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. di Wlodek Goldkorn
  4. Il Diavolo in Francia
  5. I mattoni di Les Milles
  6. Le navi di Bayonne
  7. Le tende di Nîmes
  8. I giardini di Marsiglia
  9. La fuga. di Marta Feuchtwanger
  10. Note del traduttore
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Copyright