Ore 8.
Bisognava prepararsi.
Little Angel era sdraiato sul divano a guardare la luce mattutina che strisciava nel salotto di MaryLú. C’era ovunque un profumo dolce e farinoso.
Tutti i parenti pensavano che Little Angel in qualche modo stesse fregando il sistema. Un ladro di cultura. Un finto messicano. Piú gringo che altro. Lui lo sapeva. Aveva sentito sua sorella dargli del «mezzogringo». Come se essere un qualche tipo di messicano gli avesse mai regalato dei punti nel Grande Gioco. Come se essere un qualche tipo di messicano in California equivalesse a occupare un posto privilegiato. Ma cosa avrebbe potuto dire? Doveva raccontare di tutte le volte che gli avevano dato del «chicano» o del «latino»? O del «mangiafagioli»? Gli avrebbero riso in faccia. Doveva fare un elenco delle ragazze messicane che aveva baciato da giovane? Mostrare le poesie che aveva scritto in spagnolo?
Lo spagnolo! Alla sua famiglia non piaceva nemmeno parlargli in spagnolo. Quando lui ci provava, quelli si ostinavano a rispondere in inglese. Anche se sapevano bene che parlava lo spagnolo come loro e meglio dei loro figli. Ognuna delle parti aveva qualcosa da dimostrare ma nessuna delle due sapeva bene cosa.
A loro non piaceva la sua agiatezza in quel mondo a Nord fatto di bastardi pallidi e sofisticati.
Pensavano che lui ce l’avesse fatta, visto che era cresciuto sia con l’inglese che con lo spagnolo. E in nessuna delle due lingue c’era piú traccia d’accento. E probabilmente era ricco. Tutto gli era venuto con grande facilità. Aveva ottenuto ciò che voleva. Compreso loro padre.
Immaginavano le sue mattine di Natale come orge di giocattoli sgargianti e radioline e biciclette.
Avevano visto le sue lezioni su YouTube. Parlava di autori messicani di cui loro non avevano mai sentito parlare. Sapevano che prendeva in giro il loro accento. Lo trovavano irrispettoso verso Don Antonio. Be’, forse chiamarlo «Il Donatore di Sperma» nel suo corso sulla paternità nella letteratura ispano-americana era stato avventato. Questo lo ammetteva.
Quando raccontava a lezione le storie delle loro manie, Little Angel era convinto di rendere un omaggio. Sentiva il peso di esserne l’unico testimone in vita. In qualche modo i particolari piú sciocchi delle loro giornate per lui erano sacri. E credeva che se solo la cultura dominante avesse potuto vedere quei piccoli istanti, avrebbe visto anche la propria vita riflessa in quella altrui.
A sua insaputa, dall’altra parte della città, Big Angel era di nuovo rientrato nel proprio corpo dopo essere andato sulla tomba del padre a Tijuana e alla casa di famiglia a La Paz, ormai in rovina e infestata dalle erbacce. Piú un momento di voyeurismo in camera della Gloriosa per guardarla sognare.
La Gloriosa si svegliò presto. Non capiva perché secondo gli altri era sempre in ritardo. Cabrones. Di solito era in piedi prima di tutti. Ci voleva del tempo per diventare cosí bella: non è che saltavi fuori dal letto già con l’aria da leggenda vivente di famiglia. Ay no. Quindi forse non era dove avrebbe dovuto nel momento esatto in cui era attesa, ma faceva in modo che si ricordassero per sempre del momento in cui arrivava.
Anche se dormiva da sola, a letto si metteva sempre in ghingheri. Quella mattina portava un pagliaccetto rosso con il bordino nero di pizzo. Tutto seta e delicatezza. Era cosí morbido che perfino a lei piaceva passarsi le mani sulle costole.
I capelli erano un disastro ma le piacevano cosí. La sera prima si era struccata, come faceva ogni sera, e non le piaceva guardarsi senza fondotinta e ombretto messi a dovere. Gli occhi sembravano gonfi e minuscoli senza quelle piccole attenzioni. Sotto la luce del mattino la pelle era chiazzata. E ogni notte le sue labbra svanivano. Ci volevano due passate di rossetto per tirare fuori il loro potere seduttivo. Il centro delizioso del suo bacio e i margini piú cupi e suggestivi. Gli uomini dovevano avere la sensazione di precipitare nella sua bocca.
– El rosseto.
Sapeva che la sua bellezza era sorretta, non diminuita, dall’artificio. La Monna Lisa aveva una bella cornice, qué no? La vera natura del suo viso migliorava quando lei sfruttava quegli accorgimenti per aiutare l’occhio degli altri a metterla a fuoco. E la sua bellezza avrebbe mostrato l’oro puro nascosto dentro di lei.
Un po’ di ombretto color rame sulle palpebre e un po’ di eyeliner steso con cura facevano davvero meraviglie ai suoi occhi. La lineetta azzurra quasi impercettibile sopra quella nera. E quel mascara. Era la sua arma segreta. A parte la sua bellezza in generale. Era complesso, in certi giorni, rimettersi in sesto. Le sarebbe piaciuto a volte legarsi solo un foulard sui capelli, inforcare un paio di occhiali da sole e correre libera sulla spiaggia.
– Buenota, – si disse, perché le sembrava d’essere un bel bocconcino. Era il suo mestiere dirselo. Si stiracchiò. Aveva dei bellissimi bicipiti, ma la parte inferiore del braccio, troppo flaccida, la faceva ammattire.
– Grandioso, – disse en inglés, anche se non pronunciava bene la parola. Grandiosso.
Prima della seduta di trucco, ovvio, una lunga doccia. Le spiaceva tanto per la penuria d’acqua. Ma la doccia doveva essere lunga e calda. Il rasoio sulle gambe, lo shampoo francese, la crema per la pelle marca L’Occitane, una saponetta pulita alla pesca e alla mandorla, un flacone di detergente cremoso per il viso. Niente sapone sul viso! Scrub esfoliante e idratante. Non voleva sembrare vecchia come le altre ragazze della famiglia. Forse stava invecchiando, certo, ma tutti dovevano ricordarsi che era pur sempre la piú giovane delle sorelle.
Quando era piccola, chiamavano le ragazze carine mangos. E lei era ancora succosa. Chi non avrebbe amato del mango fresco sulla lingua?
Finita la doccia, cominciava a disporre le cremine. La Gloriosa non faceva un passo fuori di casa senza che una lozione coprisse ogni centimetro della sua pelle e quelle delicate pozioni segrete venissero assorbite dal viso e dal collo prima del trucco. Piccoli tocchi di profumo misterioso negli angoli piú reconditi. E poi il segreto principale della sua bellezza: un po’ di Preparazione H sotto il mento e sugli occhi prima di andare a dormire. La perfezione esigeva qualche sacrificio.
Le ragazze giovani preferivano la ceretta, cosí le raccontavano. La ceretta? Pazze. La Minnie, per esempio, andava a un salone di bellezza chiamato Pretty Kitty, a Chula Vista. Pretty Kitty, cioè «micia carina»! L’allusione era cosí scoperta? C’era un limite. Anche se Minnie le aveva regalato un buono sconto da dieci dollari, lei non avrebbe mai lasciato che una filippina le rovesciasse la cera su tutta la «micia».
– Eso sí que no! – disse ad alta voce.
Si lasciò scorrere l’acqua calda sulla schiena. C’era sempre un problema. Nessuno gliel’aveva detto mentre cresceva, che ti arrugginisci e i dolorini spuntano nei posti piú impensati. Le facevano male i fianchi. Le faceva male la testa. Inalò il vapore. Le emicranie la spaventavano. E il dolore dietro il seno sinistro. Intercostale. Era cosí impaurita da quei dolorini che non ne parlava con nessuno e li ammetteva a malapena con sé stessa. O perfino con Dio.
Ignorò un pensiero fugace riguardo a Little Angel. Lui che le sollevava i seni da dietro. Lui che le alleviava il dolore tra le costole. No.
Si passò una mano sulla cicatrice che le segnava il bassoventre dalla nascita del figlio. La imbarazzava l’idea che qualcuno la vedesse nuda. Povero figliolo. Il suo unico figlio. Pianse, rinfrancata dall’acqua bollente.
Guillermo. Ay, Guillermito. Qualcuno gli aveva sparato cinque volte. Perché? Gli avevano sparato e l’avevano lasciato lí per la strada. E avrebbe potuto sopravvivere, perché era davvero forte. Avrebbe potuto sopravvivere. Ma quello era tornato e gli aveva sparato in faccia, la sua bellissi...