Gli incendiari
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Gli incendiari

  1. 208 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Cosí si dice: da giovane attivista John Leal aveva aiutato i dissidenti coreani a raggiungere clandestinamente Seul dalla Corea del Nord, fino al giorno in cui era stato rapito, gettato in un gulag e torturato. Scampato alla morte, ma non al ricordo degli orrori, era ritornato in America, aveva avuto una rivelazione e si era messo al servizio dell'umanità fondando il gruppo Jejah. Questa storia, o una versione sempre un po' diversa di essa, racconta John Leal ai «discepoli» riuniti al suo cospetto. Ma Will non ci casca. La retorica della fede, i «giochi di magia», l'«abracadabra», come li definisce, gli sono ben noti, e per questo ne diffida. Lui stesso li ha praticati nella sua vita precedente, quando viveva in California e aveva abbracciato la religione e il proselitismo per tentare di salvare una madre sofferente. Un giorno poi si era inginocchiato in preghiera come d'abitudine, ma non aveva sentito niente. La voce di Dio era sparita. Aveva abbandonato la Scuola biblica, cambiato costa e vita e si era iscritto al prestigioso Edwards College. È all'Edwards che Will incontra Phoebe. La sua disinvoltura, la popolarità a scuola e con i ragazzi di quella bruna sottile dai tratti coreani accendono immediatamente il suo desiderio, cosí poco allenato, ma nascondono anche ferite profonde e mai rimarginate: il fantasma di un pianoforte a cui Phoebe ha rinunciato quando ha capito di non poter essere la piú brava, e il fantasma di una madre amorevole e protettiva, morta forse anche per sua colpa. Will e Phoebe si amano come fanno i naufraghi con la terra avvistata, bramosi e incerti, ma le acque che li circondano sono molto insidiose. John Leal subodora il vuoto quando lo incontra, e promette di saperlo riempire. Come in ogni forma d'amore, la battaglia che viene ingaggiata ha per posta l'anima. Quando in tv vede scorrere le immagini di un attentato ai danni della clinica Phipps, dove si praticano aborti, Will deve chiedersi chi infine si sia aggiudicato quella di Phoebe, e la propria.«Ogni esplosivo richiede un detonatore. Gli incendiari è quel detonatore, e leggerlo significa seguire l'inesorabile avvicinarsi della fiammella al bersaglio dell'esplosione: i personaggi, il crimine, la vicenda, e infine il lettore».
Viet Thanh Nguyen «Non mi stancherò di ripeterlo: R. O. Kwon è una potenza».
Lauren Groff

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806243265
eBook ISBN
9788858432891

Capitolo settimo

WILL

Mi è venuta a prendere in macchina per andare da John Leal. Coppie di fanali posteriori pennellavano la strada davanti a noi, un zigzag di luci rosse. Phoebe è uscita dalla strada principale, si è lanciata verso la collina e si è fermata. Abbiamo seguito il sentiero lastricato che conduceva a una villetta alta e bianca. Phoebe mi ha preso per mano e la dondolava, come fanno i bambini. Foglie accatastate volavano di qua e di là, riprendendo vita. Ha suonato il campanello. Le ho sollevato la mano e le ho baciato le unghie mangiucchiate, che a ripensarci ora brillano come quarzi, rocce sottratte alla luna.
La porta si è spalancata. Sono comparsi degli sconosciuti che ci hanno guidati verso il caldo, la luce. Un forte odore di carne cotta ci ha accolto nell’ingresso. Mi è venuta l’acquolina in bocca. Ci hanno chiesto gentilmente di toglierci le scarpe. Avendo la testa che mi girava, ne ho approfittato per accucciarmi. Mentre mi slegavo i lacci stretti delle scarpe ho fatto un bel respiro. Era dalla mattina che non mangiavo niente, salvo una mela rossa rubata. Il mio autobus aveva subíto un ritardo ed ero arrivato al Michelangelo’s troppo tardi per il pranzo del personale.
Ci hanno fatto strada in un corridoio che portava nel soggiorno. Una serie di cuscini piatti blu era disposta a semicerchio intorno a un caminetto acceso. Non c’erano mobili. Ci hanno invitato a sederci, e io ho copiato Phoebe: ho occupato un cuscino, quello piú vicino a lei. Era di stoffa liscia e lucida e mi è scivolato sotto il sedere.
C’è John Leal?, ha domandato Phoebe. Mi piacerebbe molto salutarlo.
È in cucina, hanno risposto. Ci raggiungerà fra un attimo. Nel giro di pochi minuti la conversazione si è divisa in due. Phoebe ha chiacchierato con una ragazza di cui non avevo afferrato il nome, poi con un certo Ian. Quest’ultimo è uscito dalla stanza ed è ritornato con delle tazze di porcellana piene. È vin brûlé, ha detto. Io, nel frattempo, ho scambiato qualche battuta con Philip Hecht, anche lui studente di Edwards. Mi chiedevo quando sarebbe arrivato il colpo di scena. Quando, non se, pensavo ancora. Philip mi ha chiesto di dove fossi; la ragazza, Jo, ha sorriso. Ho cominciato a snocciolare tutte le bugie che raccontavo dal primo giorno a Noxhurst, mezze verità che gonfiavo come un pallone finché, in poco tempo, mi trasformavo in un altro Will, che guardava dall’alto i soliti problemi dei Kendall. Buttavo le zavorre. Provavo l’ebbrezza della mongolfiera. La cronologia degli eventi si spezzava, cambiava; mio padre riaccostava la propria sedia vuota al tavolo. La casetta in affitto di mia madre si imbarcava per il Sud, lasciando la noiosa Carmenita annebbiata dalla metamfetamina per le colline di Los Angeles, trasformandosi a metà volo in una grande villa con una piscina di forma assurda, di quelle che si vedono solo nelle case dei ricchi. Di notte era illuminata, un incendio blu in cui amavo nuotare.
Mentre parlavo, il vin brûlé mi fluiva dentro, caldo e speziato, squagliando ogni mia cautela, come quel caldo pomeriggio d’autunno in cui avevo trascinato le mie valigie fino al terzo piano della Latham Hall. Avevo trovato i miei coinquilini in soggiorno, cinque ragazzi in maglietta polo. Stiamo per andare a mangiare, avevano detto, proponendomi di unirmi a loro. Ci eravamo stretti la mano. Erano tutti studenti del secondo anno, come me, ma si conoscevano dall’anno prima. Gioviali, cortesi, si erano offerti di darmi una mano con i bagagli e mi avevano chiesto come fosse andato il viaggio, se fossi arrivato a Edwards in aereo o in macchina.
Ho preso il pullman, avevo risposto. Be’, piú di uno. Dalla California…
Avevano fatto la stessa faccia, rimanendo per un lungo istante pietrificati dallo stupore. Quand’erano tornati in sé io avevo già capito come correggere la mia immagine. Mia madre proveniva da una famiglia di Pasadena ricca ma dissoluta, che aveva sperperato i suoi ultimi averi quando lei era già abbastanza grande da serbare il ricordo della felicità perfetta che aveva perduto, perciò usavo le sue memorie di vita nell’hacienda. Le palme svettanti, gli spettacoli di opera lirica all’Hollywood Bowl nelle sere di giugno. Attingevo a una nostalgia ereditata. Introducevo qualche particolare secondario per entrare meglio nel ruolo: la piscina, ad esempio, il tonfo nell’acqua dei frutti maturati al sole sulle piante d’agrumi. In questo paradiso colorato d’azzurro non penso allo spreco. Sto a mollo, faccio qualche bracciata. Le arance Navel luccicano sulle piastrelle del fondo come medaglioni. Un domestico ripesca fischiettando quelle andate a male. Nessuno patisce la fame, nessuno si ammala.
Cercavo di far parlare di sé anche Philip, ma aveva l’aria preoccupata e gettava continue occhiate oltre la mia testa. L’ennesima volta che ha alzato lo sguardo mi sono girato anch’io… e ho visto una figura sulla soglia del soggiorno, con un grembiule bianco immacolato annodato intorno alla vita. Mi è sembrato che fluttuasse nell’aria; ho guardato meglio, ed era il luridume che aveva sotto le piante dei piedi, un centimetro di pelle nera, mentre quella dei talloni era spaccata e si stava squamando. Accortosi che lo stavo guardando, mi ha fatto un cenno con la testa. È venuto verso di noi, tenendo fra le dita grappoli di bicchieri da vino. Non era alto, ma i muscoli delle spalle tiravano il tessuto della semplice camicia bianca che aveva indosso. Un polso era rigonfio per via di un cordino rosso che gli affondava nella carne. I capelli pettinati in modo da stare dritti sulla testa, a mo’ di pennacchio, mi davano la sensazione di un eccesso di energia, non totalmente contenuta, come nei libri illustrati per bambini in cui i colori escono dai contorni. Si è girato verso di me.
Tu sei Will, giusto?, ha detto, a bassa voce. Ha posato i bicchieri e mi ha preso una mano fra le sue. Io sono John Leal. Scusate il ritardo. Dovevo controllare le braciole. Non il piatto migliore da servire quando si hanno ospiti, a quanto pare. Era da tanto che non invitavamo nessuno a cena. Sono molto contento che siate venuti. Siamo molto contenti. Entriamo.
In sala da pranzo ci siamo seduti a un tavolo basso, appena rialzato rispetto al pavimento, su altri cuscini di seta. Una ragazza bionda è entrata con un vassoio ed è subito riuscita. Mi sono chiesto che razza di gente fosse, per assumere una cameriera per un tavolo da sei. La ragazza ha servito del Malbec, e un liquido rosso rubino mi è vorticato nel bicchiere. Ma non l’ho neanche toccato. Il piccolo assaggio di vin brûlé era bastato a farmi girare la testa.
Sottolineo quest’assenza di alcol perché, essendo ridiventato ben presto sobrio, dovrei avere ritenuto un ricordo piú preciso di ciò che seguí. Invece, per la massima parte, è andato perduto. Mi sono rimasti il quadro d’insieme e alcuni frammenti di conversazione. Immagini sparse. Interi segmenti, invece, sono sfocati come in una vecchia pellicola. È questo il problema? Ho ritoccato la scena del primo banchetto con loro talmente tante volte, che ci ho lasciato sopra le ditate. Il pezzo di carne rosa ha sanguinato quando l’ho tagliato, facendo scricchiolare le parti carbonizzate come piccoli ossicini. Quando ho spezzato in due il panino, ha fumato; il burro si è sciolto. Dell’olio è gocciolato, indorando la porcellana bianca. Il polso sottile della cameriera ha tremato quando ha tolto il piatto. L’ho ringraziata, è trasalita. Inesperienza, ho pensato. Denti smaglianti, sorrisi. Col mio passato, avrei dovuto capire che cosa ci fosse dietro quell’accoglienza calorosa: un repertorio di trucchi da illusionista. Il senso comunitario, il cibo. Il pane caldo è l’esca, l’abracadabra, offerta in abbondanza, come Dio: prendete e mangiate, questo è il mio corpo fatto a pezzi per voi. Le tende aperte scoprivano un’infilata di finestre. Nelle profondità del vetro, ombre che si chinavano e muovevano: noi al nostro meglio. Ho sentito di essere visto proprio come volevo. Mi sono rilassato e ho preso altro cibo.
Finite le torte al limone, siamo tornati in soggiorno. Alla luce incerta del camino, i cuscini brillavano come lazulite. Phoebe e John Leal si sono seduti in un angolo, in disparte. Ogni volta che li guardavo, era sempre lui che parlava. Phoebe teneva gli occhi bassi, fissi in grembo. I capelli cascavano giú, facendo scivolare in avanti la fascia con cui li legava.
… sei troppo attaccata a questo dolore, e ti dimentichi che non sei l’unica a soffrire, ha detto lui, a un volume appena percepibile.
Non lo sono, ha detto lei, alzando lo sguardo. Non credo.
Hai ragione. Non penso che tu lo sia.
La cameriera girava in mezzo a noi offrendo tè o vin brûlé. Tè, grazie, ho detto. Nell’inclinare, mordendosi le labbra, la teiera, ha lasciato cadere i bei capelli slegati. Phoebe aveva di fianco a sé la borsa, in parte chiusa da una cerniera, e mentre parlavano ho visto John Leal che la prendeva da terra, la apriva e ci metteva dentro una mano. L’ha perquisita senza smettere di parlare. Phoebe me l’aveva data da reggere, quella borsa; conoscevo la sensazione al tatto della sua pelle viva, felpata, di vitello. Ho ripensato alla borsetta rigida di mia madre, il bauletto di cui era cosí gelosa che ne avevo visto il contenuto una sola volta in vita mia, quando l’avevano ricoverata in ospedale. Avevo dovuto firmare una ricevuta con l’elenco dei beni personali, siglando ogni singolo oggetto. Gel disinfettante per le mani. Pillole regolarmente prescritte. Olio di pesce, aspirina. Rossetto. Unguento di jojoba. Fischietto antistupro. Non le avevo mai raccontato quello che ero stato costretto a vedere: avrebbe odiato l’intrusione. Phoebe, invece, imperturbabile, continuava a guardare in faccia John Leal. Lui ha affondato le dita nell’apertura opalescente. È spuntata la fodera di raso lucido. Avrei voluto fermarlo, ma lei lo lasciava fare. Come se la borsa fosse appartenuta a lui.
Mi sentivo a disagio, cosí sono andato a cercare un bagno. Al mio ritorno ho trovato tutti in piedi e Philip che spingeva dentro un pianoforte verticale. Lo ha appoggiato contro una parete, con il coperchio aperto. Ian ha portato una panchetta imbottita e Phoebe si è avvicinata allo strumento. Ho chiesto a Jo che cosa stesse succedendo. Mi ha spiegato che di solito era Ian che suonava il pianoforte, ma che si era fatto male a un pollice. Phoebe aveva accettato di sostituirlo.
Lei…, ho detto, ma mi sono subito interrotto. Phoebe si è seduta sulla panca. Ha girato una manopola per regolarne l’altezza. Non molto tempo prima eravamo passati di fianco al pianoforte a coda di Wyeth Hall. Brillava di inattività, e io avevo detto che non avevo mai visto nessuno usarlo. Che spreco, avevo detto. Ma tanto non è un buon strumento, aveva detto lei. Le avevo chiesto se sapesse suonare. Io?, aveva detto. No.
Hanno attaccato le prime note. Le mani si muovevano sui tasti, tirandone fuori morbidi accordi, mentre lei sedeva impettita, con il busto rigido, come se non avesse niente a che fare con la musica. Poi le dita hanno acquistato velocità, come onde sul mare. In un assolo della mano destra la musica si è impennata. Phoebe ha ripreso vita. Tenendo la nota, si è inclinata sul pianoforte. Ha girato il collo, per sentire. Il suono produceva un’eco, e io ho pensato che i muri di quella casa sarebbero crollati, Noxhurst sarebbe stata rasa al suolo, il mondo intero sarebbe stato cancellato, e sarebbe rimasta solo Phoebe, a tenere quell’unica, lieve nota. Ha fatto scivolare una mano sulla tastiera, e ha continuato a suonare.
Dopo che la porta d’ingresso, con uno scatto, si è richiusa alle nostre spalle, Phoebe mi ha chiesto di guidare. Sono imbottita di vino, ha detto, ad alta voce, nel vento forte. Si è tolta qualche ciocca di capelli dalla bocca. Hai bevuto anche tu come me? No, certo, che domande. Ti sei controllato. Una volta lo sapevo fare anch’io, ma ho perso la consuetudine. Sennò chiamo un taxi.
Guido io, ho detto. Dentro la macchina, nell’improvviso silenzio, sentivo ancora il pianoforte irraggiare le sue ultime, deboli note: una luce fioca, che avvolgeva la quiete. Ho acceso il motore. Io non avevo mai imparato a suonare uno strumento. Per anni, però, nel cercare di sfuggire alle tentazioni del diavolo, avevo ascoltato musica classica. Possedevo qualche disco di pianoforte, che adoravo. Esecuzioni di Lupu, ad esempio. Di Gould. Di Uchida. Non era Liszt quello che aveva suonato? Cercavo di mostrarmi competente. Una volta, durante una gita con i miei genitori, avevo visto la partenza di uno stormo di storni. Gli uccelli prima si erano raggruppati e agitati confusamente come reti piene di pesci, poi si erano levati in aria, tutti insieme, formando una spirale intrecciata, che con un guizzo, compatta come uno scudiscio, si era lanciata verso l’orizzonte. Parassiti, aveva detto mio padre, pragmatico come al solito. Io invece l’avevo trovato uno spettacolo stupefacente, la rappresentazione tangibile del disegno divino, proprio come l’esecuzione di Phoebe: uno sciame di note che prendeva forma, la manifestazione evidente di un fine superiore. Dovresti stare su un palco, le ho detto. Se avessi una dote simile, io…
… tu ne faresti la tua ragione di vita, ha detto lei. Tu, Will Kendall, saresti un celebre pianista, un gran sacerdote della musica.
Non capisco perché ridi.
No, è che io ci ho provato. Volevo diventare una pianista. Non sono sicura che sia una dote. Ho smesso di suonare perché avevo capito che era meglio non avere affatto talento, anziché abbastanza da rendermi conto di quanto me ne mancava. Stasera ho suonato perché ha insistito lui. Nient’altro. Mi stava raccontando della sua esperienza nel gulag, e io…
«Lui» naturalmente è John, ho detto, interrompendola.
Non potevo sottrarmi…
Nel gulag?
Oh, ha detto.
È stato in un gulag.
Oh, Will.
Nella primavera di due anni fa…
(cosí mi ha spiegato Phoebe, girata verso di me, con una mano calda sulla mia coscia, mentre filavo per le vie deserte di Noxhurst, superando i semafori che macchiavano la notte)
… John Leal viveva a Yanji, una città cinese vicina alla Corea del Nord. Lavorava con un gruppo di attivisti americani che aiutavano i nordcoreani fuggiaschi a uscire dalla Cina e raggiungere Seul. Era un viaggio lungo e tortuoso che comprendeva anche l’attraversamento a piedi della giungla del Laos, talmente pericoloso che usavano come guide i corrieri della droga. Poi, una notte, è stato catturato dalle spie nordcoreane, portato oltreconfine e gettato in un gulag. Non riesce ancora a parlare molto di ciò che ha visto. Vite buttate via come spazzatura, dice. Un bambino di cinque anni impiccato per aver rubato un po’ di riso. Stupri di gruppo. Denutrizione. Un uomo privato delle sue razioni di cibo ha mangiato gli stracci imbrattati di merda usati per pulire le latrine. Una volta hanno scoperto un cadavere nascosto nel ghiaccio, con segni di denti umani sui pezzi mancanti. Un giorno ha visto i secondini dare calci in grembo a una ragazza incinta. La ragazza si raggomitolava per proteggere il pancione. L’hanno lasciata a terra sanguinante.
La gente si ritraeva, per paura. Anche lui. Poi, però, aveva visto un vecchio aiutarla ad alzarsi, e si era vergognato. Aveva curato segretamente la ragazza, Mina. Aveva qualche nozione elementare di pronto soccorso appresa dai suoi amici attivisti. La ragazza viveva clandestinamente in Cina, finché era stata denunciata alla polizia da alcuni vicini ostili. Quando aveva saputo che sarebbe stata rispedita indietro aveva capito immediatamente che cosa l’aspettava: poiché il sangue straniero era considerato contaminato, il regime faceva abortire tutti i feti concepiti all’estero. La ragazza piangeva, disperata di perdere il bambino. John Leal aveva fatto del suo meglio ma non era riuscito a fermare l’emorragia. Quella notte Mina era morta, insieme al bambino che portava nel grembo.
Cinque mesi dopo il rapimento, senza alcuna spiegazione, lo avevano portato al confine con la Cina, lo avevano picchiato e gli avevano intimato di attraversare il fiume ghiacciato e tornare a Yanji. L’aveva fatto: era sopravvissuto, ma con tredici chili in meno e il braccio sinistro rotto. In quelle condizioni non poteva essere d’aiuto al gruppo, cosí era tornato negli Stati Uniti. La ragazza che non era riuscito a salvare, Mina, aveva viaggiato con lui. Ogni notte, quando cercava di dormire, si materializzava di fianco al suo letto. Le chiedeva che cosa volesse, ma lei non rispondeva. Stringeva le labbra e lo osservava. Solo dopo molte notti si era accorto che era scalza. Da viva possedeva un paio di sandali che alla sua morte lui aveva regalato a una prigioniera senza scarpe. Le aveva chiesto se fosse quello il suo desiderio: un paio di scarpe. Lei aveva ignorato la domanda.
Il mattino seguente, d’impulso, era uscito di casa scalzo. Si era mess...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gli incendiari
  4. Capitolo primo
  5. Capitolo secondo
  6. Capitolo terzo
  7. Capitolo quarto
  8. Capitolo quinto
  9. Capitolo sesto
  10. Capitolo settimo
  11. Capitolo ottavo
  12. Capitolo nono
  13. Capitolo decimo
  14. Capitolo undicesimo
  15. Capitolo dodicesimo
  16. Capitolo tredicesimo
  17. Capitolo quattordicesimo
  18. Capitolo quindicesimo
  19. Capitolo sedicesimo
  20. Capitolo diciassettesimo
  21. Capitolo diciottesimo
  22. Capitolo diciannovesimo
  23. Capitolo ventesimo
  24. Capitolo ventunesimo
  25. Capitolo ventiduesimo
  26. Capitolo ventitreesimo
  27. Capitolo ventiquattresimo
  28. Capitolo venticinquesimo
  29. Capitolo ventiseiesimo
  30. Capitolo ventisettesimo
  31. Capitolo ventottesimo
  32. Capitolo ventinovesimo
  33. Capitolo trentesimo
  34. Capitolo trentunesimo
  35. Capitolo trentaduesimo
  36. Capitolo trentatreesimo
  37. Capitolo trentaquattresimo
  38. Capitolo trentacinquesimo
  39. Capitolo trentaseiesimo
  40. Capitolo trentasettesimo
  41. Capitolo trentottesimo
  42. Capitolo trentanovesimo
  43. Capitolo quarantesimo
  44. Ringraziamenti.
  45. Il libro
  46. L’autrice
  47. Copyright