Il mare era basso e piatto. Pareva un immenso marciapiede sul quale avessero gettato l’acqua delle pulizie domestiche.
Guido Floris lanciò l’amo e poi si voltò a guardare gli scogli piú alti, dove suo figlio Antonio se ne stava immobile: il viso corrucciato, le labbra strette come per trattenere il fiato.
Quel bambino aveva il vizio di prendere tutto troppo sul serio: gli aveva chiesto di stare in silenzio al suo posto per non far fuggire le prede, ma ci mancava poco che non respirasse neppure.
Prima di partire per la battuta di pesca, Guido aveva annunciato una grigliata in giardino per cena.
Sua moglie Lucia si era messa subito all’opera: con il pesce bisognava che ci fossero le cipolle al forno, marinate per molte ore nell’aceto. E con le cipolle, la birra: era in fresco già dalla mattina. Mai il vino, quando nelle ricette è previsto l’aceto: era una regola di casa Floris.
«Vedrai, – disse Guido sforzandosi di sorridere al figlio, – è l’ora buona. Adesso abboccano a decine. Non riuscirai neanche a sollevarli da quanto son grossi».
Antonio abbozzò un sorriso anche lui, ma poi si mise a guardare in alto, verso l’orizzonte, quasi si aspettasse di vedere arrivare i pesci dal cielo.
«Sembri un sirenetto», disse il padre, con una dolcezza di cui si vergognò subito.
Antonio non reagÃ. Pareva non aver sentito.
«Vieni, muoviti, – ordinò allora Guido, con un tono piú duro di quel che avrebbe voluto, e che subito cercò di correggere: – Vieni qua, forza… ti faccio vedere come si tiene la canna».
Il bambino, fino a quel momento imperturbabile, cominciò a staccarsi dalla roccia. Pareva un ramo secco che si anima contro la propria natura. Raccolse da terra il cappello di paglia del padre e s’incamminò.
Barcollava. Non era capace di stare dritto sugli scogli, nonostante i sandaletti di plastica. Ormai era abbastanza grande perché si potesse dire che quella era una sua caratteristica: dava sempre l’impressione che stesse per cadere da un momento all’altro. Tipico di Antonio.
Ma poi non cadeva.
Un gabbiano planò all’improvviso tra padre e figlio: prese dal secchio un pesciolino destinato a fare da esca, e volò via.
«Ti sei spaventato?» chiese Guido.
Antonio, guardandolo dritto negli occhi, scosse la testa. Si era fermato solo un attimo, aveva poggiato il cappello e poi aveva ripreso a camminare con la stessa malagrazia di prima.
Questo bambino non piange mai, meditava ogni tanto Lucia, sarà un bene?
Poi ci fu la caduta.
Guido vide la scena come se all’improvviso il tempo stesse rallentando: Antonio che mette un piede in fallo, che prima di trovare il giusto contatto con la roccia muove anche l’altro e finisce sugli scogli, schiacciando col fianco il cappello di paglia.
«Non ti sei fatto niente. Non è niente», si affrettò a gridare.
Invece questa volta Antonio piangeva. La ferita, in tutto quel sangue, non si vedeva neppure, ma doveva essere profonda.
Guido prese la borraccia e gli versò un po’ d’acqua sulla mano.
«Stai zitto, non è niente ti ho detto. È solo la paura. Stai frignando come una femminuccia».
Il taglio era comparso, piú piccolo di quanto Guido avesse pensato. Quando il sangue riprese a sgorgare, però, all’improvviso gli sembrò che la situazione fosse grave: il taglio era piccolo, ma aveva un brutto color terra, come se la ruggine o la polvere stessero strisciando dentro la carne di suo figlio.
«Hai preso un amo o era una roccia aguzza? Cos’era?»
Sembrava che il bambino non capisse neanche la domanda: strillava sempre piú forte e fissava ipnotizzato il sangue senza guardare mai suo padre. Il pianto era per lui una possibilità inaspettata: non controllava i singulti, gli tremavano le spalle e perfino le gambe.
Guido sentà montare dentro una rabbia feroce. «Possibile che tu non abbia mai visto del sangue?» sbottò.
Afferrò il dito ferito di Antonio, poi, sotto il suo sguardo esterrefatto, se lo portò alla bocca iniziando a succhiare. Il pianto s’interruppe all’istante. Sul viso del bambino comparve una specie di sorriso beffardo. Un istante dopo cominciò ad ansimare: ansimava, piangeva e poi si bloccava un attimo prima di riprendere, come se non potesse trattenere la paura ma si fosse proibito di piangere ancora.
Quando suo padre smise di succhiare, ritirò la mano e se la guardò. La pelle del dito era raggrinzita, ricoperta da una viscida patina di saliva che scintillava al sole.
Non riusciva a guardare negli occhi l’uomo che gli stava davanti, con le labbra rosse di sangue.
«Non te la mangio mica –. Suo padre si chinò e gli prese il dito: – Mettitelo in bocca, – sussurrò, cercando di infilare un po’ di gentilezza nella voce, – cosÃ, guarda». E, mentre parlava, tra i denti e la lingua, il bambino riconobbe la traccia del suo stesso sangue, simile a un serpentello o a un minuscolo drago.
Antonio prese allora a studiarsi il dito con cautela. Il sangue adesso usciva di nuovo abbondante. Poi, piano piano, iniziò a leccarsi il dito. Pigramente, come se non ci fosse urgenza, ma dovesse soltanto assaporarlo.
Era dolce. Era zucchero fuso.
Anche se adesso era morta, Guido la rivedeva sempre piú spesso giovane, com’era stata il giorno in cui era nato Antonio: illuminata nella cornice della finestra, con accanto il piccolo, che era tutto e non era niente. Solo una magnifica ipotesi.
Gli avevano riferito che aveva gridato durante tutto il travaglio; ma non riusciva neanche a immaginare la voce di Lucia alterata, lei che strepita e urla.
«Tu aspetterai fuori, – gli aveva detto lei entrando in sala parto, – non sono cose che i mariti devono sentire. Anzi, meglio se stai fuori del tutto, fuori nel piazzale».
Tra i parcheggi dell’ospedale, spuntava perfino qualche fiore. Era il 17 aprile del 1970. In un certo senso, la vera e propria data di fondazione della nuova famiglia.
Nelle rievocazioni di Lucia con le amiche, con i parenti e i vicini di casa, quella era diventata una splendida giornata di sole. Da pochi mesi Guido aveva ottenuto la sospirata promessa di un posto come assistente all’università . Gliel’aveva comunicato il professore che aveva seguito la sua tesi di laurea la prima volta che l’aveva invitato a casa sua.
E ora era diventato padre di uno splendido bambino: «È un maschietto», aveva detto un’infermiera incaricata di andarlo a recuperare nel piazzale.
Avevano comprato soltanto l’essenziale, nell’incertezza del sesso del nascituro. Erano rimasti d’accordo che il giorno stesso del parto Guido sarebbe andato a ritirare il resto del corredino, già scelto e pagato da Lucia un mese prima, e del quale restava solo da definire il colore.
A lui non importava molto di farsi comandare a bacchetta. In quelle circostanze era inevitabile: la donna decide, l’uomo esegue.
Questo glielo dobbiamo, si diceva Guido. E, in quel «dobbiamo», finalmente inseriva se stesso nell’universale confraternita dei maschi inseminatori, che con uno slancio geniale ed eroico portano a compimento la natura delle donne.
Ormai da un anno tra loro si parlava solo di carriera accademica, bilancio familiare, quartieri adatti e inadatti, metri quadri, mobili moderni o classici.
Aveva sottovalutato la paternità , non c’erano dubbi. Il suo potere tonificante e purificatorio. Guido aveva sempre pensato che, in fondo, sarebbe stata soprattutto una gran scocciatura.
E invece adesso non solo Lucia era raggiante, come si dice sempre delle ragazze che diventano madri, ma gli sembrava anche piú tenera, protettiva. La trovava eccitante, col seno gonfio e gli occhi lucidi. L’aveva sempre vista inquieta e irrisolta, prima. In quel letto del reparto maternità , però, era semplicemente perfetta.
Ci sono donne cosÃ: nate per comandare, per apparire impeccabili; ma solo a patto che qualcuno le veneri e le protegga.
Io la venero, si disse Guido Floris. Io la proteggo. Quel bambino, poi, emanava una luce nuova che si rifletteva su tutti loro. Una luce ancora piccola, certo, ma destinata a crescere: c’era tutto il tempo per orientarla nella direzione giusta.
Seguire le fasi dello sviluppo.
Correggere.
Stimolare.
Esaltare e, se necessario, censurare e punire.
L’importante era non commettere gli stessi errori dei suoi genitori, intellettuali e distanti. Da ragazzo Guido aveva dovuto combattere per ogni cosa: per farsi mandare al liceo scientifico invece che al classico, e poi alla facoltà di Lettere moderne invece che a quella di Lettere classiche, dove suo padre conosceva tutti.
Erano state comunque piú le volte in cui aveva ceduto senza nemmeno discutere, o quelle in cui aveva finto di obbedire ed evitare cosà le discussioni. Aveva detto di aver votato Democrazia Cristiana, nel 1968, per non far piangere sua madre e per non sentire una delle filippiche di suo padre contro il comunismo.
E su quella specifica questione politica, come su molte altre, aveva poi dovuto fingere ancora per anni. Praticamente fino alla loro morte.
È perché mi hanno avuto in tarda età , si diceva per giustificare la sua accondiscendenza. Sono piú dei nonni che dei genitori.
Antonio invece avrebbe avuto un vero padre al suo fianco. Sempre. Su quello non dovevano esserci dubbi.
Bisognava incoraggiare quel bambino in ogni momento e sorvegliarlo con polso sicuro: fargli studiare le lingue, mostrargli la disciplina, i limiti, il rispetto, ma permettergli anche di coltivare le ambizioni. E le piú spiccate. Le piú personali. Perché no? I piccoli momenti di follia. Con i figli è cosÃ: non c’è niente di piú irragionevole che essere troppo ragionevoli.
Assieme, i due maschi di casa Floris, avrebbero cavalcato il mondo: bastava solo aspettare.
Lo stesso sangue, la stessa tenacia.
L’infermiera prendendolo in braccio aveva detto: «Fidatevi di me, che ne ho visti tanti: il carattere si capisce subito, voi qui avete un gioiello di bambino».
Ora che anche lui era vecchio veniva la parte piú difficile: Guido, come tutti coloro che lo avevano preceduto, doveva prepararsi a quello stupidissimo giorno che è il giorno della propria morte. Il trapasso nell’ignoto.
Aveva visto Lucia dileguarsi nel nulla: la vita che letteralmente si cancellava dal suo volto. Ormai non gli restavano piú né risorse né sotterfugi per dare un nome a quell’ignoto.
Inoltre adesso c’era il problema delle gaffe.
La signora Spiga, sul pianerottolo, lo aveva invitato a passare da loro per una fetta di torta: «Domani mia madre fa ottant’anni».
«Be’, meglio sbrigarsi a festeggiare, allora, – aveva risposto Guido, – oggi ci siamo, domani chissà …»
Lei aveva sgranato gli occhi, solo per un istante; poi aveva provato a sorridere.
Per cercare di attenuare l’effetto, Guido aveva aggiunto: «Pure io, mi sa che sono piú morto che vivo».
Ma quella pietosa sottolineatura, invece che correggere la gaffe, l’aveva accentuata; cosà aveva sbuffato ed era rientrato in casa senza aggiungere altro.
Quella con la signora Spiga era stata un’avvisaglia, ma non era detto che si fosse trattato del primo episodio della serie: solo che, da là in poi, aveva cominciato a farci caso.
Ad esempio Paolo Canu era guarito dal cancro. Lui e sua moglie Patrizia erano passati a trovarlo a casa per portargli certe foto di Lucia che avevano trovato in un cassetto.
«Guarito, mah… – aveva commentato Guido. – Col cancro è meglio non cantare vittoria troppo presto».
Per fortuna era riuscito a fermarsi prima di tradurre in parole anc...