Da qualche parte nel golfo della Florida, con l’aria di mare odorosa di pesce salato e le nubi bianche come capsule di cotone, osai chiedere: «Sarò libera laggiú?»
«Laggiú dove?» Langton simulò impazienza, ma aveva capito benissimo. In Giamaica te lo poteva dire qualsiasi negro: cocchieri, falegnami, sarte, cuoche o braccianti agricoli. Per questo lo domandai.
Appena qualcuno respira aria inglese, lui libero.
«A Londra». Fu la prima volta che mi permisi di pronunciare la parola ad alta voce.
Langton sogghignò. «Sarai sotto la mia giurisdizione. Laggiú come dappertutto. Non hai bisogno di sapere altro».
La Giamaica era una somma, un calcolo. Su quello stesso calcolo si fondavano la sua vita e la mia. Qual è il rendimento in ghinee ottenuto addizionando un certo numero di africani, semi di canna da zucchero e sorveglianti ai doni di Dio della terra, dell’acqua e del sole? Anche la libertà era una somma, capace di produrre tanti risultati quanti erano gli uomini che vi avevano riflettuto sopra. Io mi scervellavo nello sforzo di capire. E pensarci mi dava la nausea, lo confesso.
Quando le cime riempirono il ponte e fu dato l’ordine di gettare l’ancora, la libertà era diventata il mio piú profondo timore.
Con quanta chiarezza ricordo lo sbarco dalla nave sui moli delle Indie Occidentali e il trauma che provai, simile a quello di chi entra in un fiume e sente l’acqua fredda sommergergli la testa.
Non mi ero mai vista il fiato prima di allora. Sospeso davanti alle labbra, denso e bianco come le nuvole. Una delle tante cose cui faticavo a credere. La pioggia sulla faccia, per esempio, leggera quanto una piuma. La pioggia inglese non ha peso. È l’aria a essere pesante e sempre impregnata d’acqua. Le strade erano bagnate e sembravano scompigliate da una gigantesca spatola per il bucato. Io rimasi là , frastornata dal fracasso dei martelli e dalla confusione delle impalcature e delle carriole che spostavano pile di mattoni, smantellati dagli edifici o destinati a costruirne di nuovi, per cui la città sembrava impegnata a rigenerarsi e a divorarsi nello stesso tempo. Carrozze in attesa si allineavano lungo l’alto muro, con i cavalli che scartavano sotto la cupa mole dei magazzini. Un uomo che spazzava il selciato per i passanti venne travolto, e la gente in fila si limitò ad aggirarlo come un fiume intorno a un masso.
Tutto sembrava facile da raggiungere. Sollevai una mano guantata, la protesi all’infuori, il palmo in avanti. Poi la ritrassi di scatto. Stupida. Eccomi là , nauseata e spossata dal lungo viaggio in nave, persa nei miei pensieri, con il vento tagliente a sferzarmi le caviglie. Ma dentro di me mi sentivo calda come un tizzone, e il mio cuore si gonfiava come una vela. Perché avevo fatto quello che non era riuscita a fare nessun’altra domestica di Paradise. Avevo elevato la mia posizione.
Braccia e gomiti mi si abbatterono addosso, facendomi perdere l’equilibrio.
«Appena arrivata?» disse una voce burbera vicino al mio orecchio. Mi voltai di scatto per trovarmi di fronte un vecchio marinaio. Gonfio, le gambe storte, il naso unto e cotto dal sole. Era chiaro per chi mi aveva presa; si stava strofinando una mano sulla patta delle brache. Fui sul punto di abbassare gli occhi, e invece sollevai il mento. Lo trattai con freddezza. Un uomo bianco! In quel momento mi sentii ribollire nel petto una sensazione stranissima. Disagio ed esultanza mescolati insieme.
E poi ci avviammo sulla nostra sferragliante vettura a nolo. Macchie di sudore chiazzavano di scuro il cuoio del rivestimento, impregnato del fetore di tutti i corpi saliti a bordo in precedenza. Sul sedile di fronte, Langton tormentava con le dita il fazzoletto da collo che avevo lisciato per lui quel mattino; mi domandò per la terza volta: «Ce l’hai?»
«Ce l’ho». Battei la mano sulla pila di carte al mio fianco. «Le sette copie al completo».
Là accanto c’era anche la mia piccola valigia. Due abiti di saia, le mie edizioni di Moll Flanders e Robinson Crusoe, lo scialle nero che portavo intorno alle spalle, con il bordo smerlato e un motivo di tralci e colibrà di un vivido color senape. Tutto ciò che possedevo.
«Bene», commentò lui, guardando fuori. Le mani gli danzavano in grembo, facendo tremolare il tessuto allentato dei pantaloni. Mi morsi le labbra per reprimere l’impulso di allungare il braccio e fermarne il movimento. «Bene».
Il cielo andava offuscandosi, vuoto a parte una spolveratura di uccelli. «Possibile che sia ancora giorno?» domandai. «Eppure l’aria è cosà buia».
In risposta, Langton fece schioccare la lingua sui denti. Durante le sue crisi, incespicava nelle parole, per cui si rifiutava di parlare, ma io capivo quello che desiderava prima ancora di lui. Adesso che eravamo scesi dalla nave, mi voleva sottomessa e silenziosa. Incrociai le braccia, piegandole come salviette pulite, e sentii la saliva che mi colmava la bocca, densa e pungente. Mi guardai le mani, attorcigliando ancora e ancora il tessuto grigio che stringevo tra le dita. Mi ero detta che avrei dimenticato Paradise e tutto ciò che era successo laggiú. Me li sarei raschiati via dalla memoria per poi abbandonarli e lasciarmeli alle spalle: come avevo fatto con la parlata e i modi degli schiavi. Sarei diventata una persona nuova.
Non riuscivo a stare ferma. Con le mani mi lisciai il vestito, fatto di una stoffa di serge lucida come pelliccia di gatto, mi sedetti piú dritta, guardai Langton, guardai fuori. Sfidandolo a vietarmelo. La gonna nuova frusciava contro il cuoio. La differenza tra il tessuto scadente e quello di lusso sta tutta nel modo in cui parla, e lo stesso vale per la gente, diceva Miss-bella. Ma i rumori prodotti dai ricchi sono volgari quanto quelli di chiunque altro, solo che chi ha tanti soldi può permettersi muri piú spessi.
Scostai la tendina che schermava il finestrino. Visto che Langton non obiettò, la aprii completamente. Pioveva, le strade erano velate dalla pioggia e dal sudiciume. Gocce fangose punteggiavano il vetro.
Non mi ero aspettata che Londra si sgretolasse come una pagnotta rafferma. Né che le strade fossero affollate da centinaia di persone! Volti cosà pallidi da dissolversi nella nebbia, per poi riemergere simili a grumi di latte cagliato. Langton appariva scuro qui, la pelle screpolata come il cuoio vecchio. E c’erano tanti di quei poveri. Bianchi sdentati e sporchi; bianchi che ondeggiavano come penose bandierine mentre pisciavano sui marciapiedi. Bianchi con la pelle scorticata, irritata e butterata quanto una buccia d’arancia. Facce dure e affamate. I peggiori erano i bambini. Mani leste, occhi lenti. Nel vedere quei bambini, s’insinuarono in me i primi fremiti di paura. Sapevo anche troppo bene che gli occhi hanno solo due scelte. Aprirsi o chiudersi. Quando si spalancano troppo e diventano troppo neri, è perché non possono fare spazio a tutto ciò che hanno visto. Lo spettacolo di quei bambini innescò un ricordo, l’unica altra cosa che mi portavo dietro e che non potevo abbandonare, anche se non era nella valigia. Mi si abbatté addosso in quel momento, che lo volessi o no, e mi diede un sussulto allo stomaco.
Ogni uomo può essere Dio nel mondo che lui stesso si è creato. Langton si era costruito il proprio mondo, e poi mi aveva portata con sé quando aveva dovuto lasciarlo. Pensavo l’avesse fatto perché apparteneva a quella razza di uomini che non riescono a rimanere tali senza i loro schiavi.
Una copia della sua lettera a George Benham mi giaceva in grembo. Ero stata io a trascriverla due volte su carta pergamena, un foglio da spedire e uno da conservare: del resto, ormai da anni, ero io a tracciare ogni parola che Langton intendeva affidare all’inchiostro.
Mio caro G,
accludo il manoscritto emendato. Crania. Mi rattrista che questo lavoro sia divenuto una fonte di dissapori tra noi. Ma ammetto che almeno su un punto avevi ragione. Un bravo scienziato si limita a cercare le risposte a una domanda già formulata, ma a passare alla storia è chi anticipa la domanda che nessuno ha ancora pensato di porre. Non potrebbe esistere momento migliore per dimostrare come le differenze tra le diverse varietà di uomini non siano fortuiti ghiribizzi della natura, ma rispondano a un preciso disegno. La cosa è piú importante che mai, adesso che l’Inghilterra sembra tanto determinata a distruggere le colonie con questo progetto di emancipazione, a cosà breve distanza di tempo dall’abolizione della tratta.
I nostri politici hanno bisogno di rinfrescarsi la memoria. Una madre non divora i propri figli. Non una madre amorevole, quanto meno.
Credo sia di qui che siamo partiti. Come si sono divise le nostre strade? Nonostante tutto, sono ancora convinto che una lettura attenta della versione finale corretta possa indurti a riconsiderare le tue posizioni. Forte del tuo nome, l’opera prenderà il volo. Devono pur esserci in questo Paese editori (per quanto sappia che spesso non vedono al di là del loro naso) capaci di riconoscere il valore commerciale e scientifico di questo libro.
Alcune faccende urgenti mi tratterranno qui per un certo periodo, e sembra che per arrivare da te mi occorrerà addirittura piú tempo di quanto impieghi il nostro infernale servizio di posta. Perciò per il momento questo messaggio andrà affidato all’impersonalità della carta e dell’inchiostro.
Io lo seguirò appena possibile.
Cordialmente,
John
George Benham. Il personaggio importante. Quello che aveva avviato il lavoro per Crania e poi aveva scritto per comunicare di aver cambiato idea. Al pensiero che con ogni probabilità ci saremmo incrociati fui percorsa da un brivido. Il testo di Crania, accanto a me sul sedile, mi sfiorava la gamba. L’opus magnum di Langton. Avevo scritto io anche quello, nel mio miglior corsivo. Eppure dovevo lottare contro l’impulso di scagliarlo fuori nel fango.
«Sei impaziente di sperimentare i tuoi nuovi modi londinesi tanto quanto eri ansiosa di metterti quel vestito». Le labbra di Langton si arricciarono in una smorfia, le sue parole soffocarono nel silenzio. A volte la malattia le bloccava completamente.
Balzai su dal sedile, gli strinsi la mano nella mia. «Un crampo?»
«Mi occorre un po’ di rum».
«No».
«Cosa diavolo ne sai tu?» Ritrasse la mano di scatto, mi appoggiò le nocche sullo sterno, mi spinse indietro. Ma i brividi lo sopraffecero un’altra volta, dita, polsi, spalle. «Qui non siamo a Paradise, ragazza. Non puoi semplicemente… spiattellare… i fatti privati che ci riguardano…»
«Sono talmente tanti i fatti privati che ci riguardano. Non potrò dire neanche una parola».
Langton distolse lo sguardo, la bocca stretta. Le mani, che teneva incurvate in grembo, sussultavano come cani addormentati. Anche le spalle erano curve.
I moribondi non si limitano a indugiare nel passato: se lo inventano.
«Non ti ho mai toccata», disse.
Tornai al mio posto, appoggiai la testa al cuscino, sedetti rigida come cuoio, badando bene a non guardare Langton. Quando mi disse di non mettermi troppo comoda, non gli feci caso.
«Questo dannato traffico», osservò poi sbirciando fuori. «Ecco qua Londra al tuo servizio. Tutto si muove rapidamente, finché non ti accorgi che gira in tondo. Niente è avanzato nemmeno di un passo in duecento anni».
Decise di scendere nei pressi del London Bridge per andare a cercare un barcaiolo, aprendosi una strada a gomitate tra la folla. Ero costretta a trotterellare per non esserne inghiottita, con i nervi tesi, assillata dal pensiero di tutto ciò che rischiava di andare storto. Langton poteva cadere, inciampare, subire un attacco o semplicemente svoltare un angolo senza di me e scomparire. C’erano centinaia di modi in cui avrei potuto perderlo di vista. E allora che ne sarebbe stato di me?
Il freddo sembrava emanare un suo odore, simile a quello della carne cruda, e mi piombò addosso con la repentinità di un tagliaborse. L’aria di Londra, umida come un bacio. Rabbrividii e sollevai le mani per stringermi nello scialle. «L’unico modo per abituarcisi è passare un po’ di tempo fuori», mi gridò Langton girandosi. Diverse teste si voltarono. La gente mi fissava come mi fissavano i marinai sulla Pride, appena non c’era pericolo di essere sorpresi. Mi sentivo scrutata come un orologio. Essere nera in una marea di bianchi ti fa desiderare il dono dell’invisibilità .
Tenevo gli occhi fissi sulla schiena di Langton, sulla sua nuova giacca nera tesa come una gota, sollevando i piedi per evitare i mucchietti di letame, le pozzanghere dense e scivolose. Ogni volta che gli arrivavo troppo vicino, dimenticando di rallentare il passo al ritmo del suo, reagiva con rabbia. «Mantieni un po’ di spazio tra di noi, ragazza». Come se la distanza potesse trasformarci magicamente in un gentiluomo con la sua cameriera, al posto di ciò che vedevano gli altri: un pigro creolo e la sua sgualdrina mulatta.
Non avevo ancora recuperato l’andatura stabile della terraferma: mi fermai ad appoggiarmi a un muro e lasciai che l’onda nella mia testa s’innalzasse e si pla...