O a febbraio o a settembre, erano queste le alternative, perché la borsa copriva solo un semestre e comunque Marcello non avrebbe mai potuto mettersi in sabbatico l’intero l’anno accademico: escluso, stare piú a lungo era semplicemente fuori questione. Ma d’altra parte Claudia lo sapeva già, dopo tutti quegli anni assieme, dopo tutti quei semestri (tre all’anno, perché esistevano anche i semestri estivi, di là dall’oceano), e cosí si era limitata a sondarlo unicamente in via ipotetica, pura teoria insomma, quando lui senza preavviso aveva tirato fuori la storia della Remarque: just in case e quasi solo per sapere se.
Naturalmente questo non rendeva la prospettiva meno allettante. Un appartamento per loro piú un piccolo studio (per lui) e le spese del volo: pareva perfetto, era perfetto, nonostante la fondazione prevedesse soltanto un sussidio economico simbolico, ma questo nel loro caso non costituiva un vero ostacolo, considerato che lui avrebbe mantenuto lo stipendio italiano mentre lei si sarebbe presa finalmente un bel romanzo da tradurre. Con quello che costa vivere a New York! Le case editrici non pagavano bene come il doppiaggio dei film hollywoodiani ma, dopo quasi dieci anni passati a sincronizzare le labiali, l’idea di tornare alla letteratura assomigliava molto a un premio. Jane Austen o magari Emily Brontë (sí, Emily Brontë sarebbe stato persino meglio): un superclassico e sei-sette mesi immersa fino al collo nel Thesaurus della Oxford University Press. Come se poi Claudia non ripetesse già in continuazione che un po’ di tempo all’estero le serviva per ravvivare il suo rapporto con la lingua.
Si trattava di scegliere tra due soggiorni diversissimi: l’autunno con le sue giornate sempre piú corte, verso il freddo ma anche verso il Natale, che a Manhattan poteva essere un vero spettacolo, sperabilmente la neve ma di sicuro il laghetto ghiacciato e i Babbo Natale iperrealistici della Fifth Avenue, o invece gli high twenties di febbraio (come dicevano lí), insomma il gelo come a Roma nemmeno te lo sogni, con quel ventaccio caparbio che si incanala tra i grattacieli e trafigge qualsiasi protezione termica, il lento salire della temperatura, aprile e poi maggio, fino all’improvviso tripudio di giugno, quando da un giorno all’altro scopri tutto assieme che l’estate è tornata, ancora, che puoi di nuovo metterti in fila per gli spettacoli di Shakespeare in the Park, cenare all’aperto o rientrare a piedi con l’indolenza caratteristica di chi vuole godersi un ultimo assaggio del fresco della sera prima di un’altra giornata inverosimilmente afosa: il solito giugno a New York che tutti e due avevano imparato ad apprezzare tanto nei primi anni della loro relazione.
Alla fine aveva prevalso settembre, ma unicamente per una banale questione di sostituzioni in facoltà e senza che Claudia e Marcello avessero deciso per davvero. Prevedibilmente le proteste della madre di lei erano rimaste inascoltate. Perché proprio allora? E intendeva dire (senza mai dirlo): allora che New York era diventata cosí pericolosa: cosí vulnerabile. Non gli era bastato quanto era successo l’anno prima? Gli aerei? Le torri? Non doveva dimenticare che gli avevano affidato la loro unica figlia (ma non diceva nemmeno questo). Sembrava davvero preoccupata finché, messa davanti alla notizia ufficiale che Marcello sarebbe stato tra i fellow dell’anno successivo, aveva miracolosamente deposto ogni lagnanza. L’e-mail con la comunicazione della Remarque era anzi stata festeggiata tutti assieme, con il timballo di pasta che della madre di Claudia era la principale specialità nonché l’unica traccia delle remote origini meridionali dopo una intera vita passata a Roma. Ogni volta che vedeva la suocera, Marcello non poteva smettere di pensare che da giovane doveva aver avuto una lontana somiglianza con l’Alida Valli del periodo americano, gli occhi da pazza soprattutto, basedowiani e intensi, fiammeggianti sopra quel trionfo della gastronomia siciliana. Anche la sua Claudia era bella, ma di una bellezza completamente diversa, morbida e solare, appagante e priva di mistero.
Aveva scoperto la borsa solo per caso. Si trattava di una delle mille istituzioni benefiche anglosassoni a tutela delle iniziative culturali piú disparate che con un po’ di pazienza puoi scoprire sul web. Ceramiche azteche, letteratura coreana, polifonia fiamminga… Ce ne era per tutti i gusti. Questa borsa però poteva interessarlo. «Sostenere e promuovere lo studio dell’Europa e incoraggiare e facilitare la comunicazione tra americani ed europei»: cosí si leggeva, in inglese, sul sito dell’Institute, e Marcello aveva subito memorizzato la pagina. Perché no, dopo tutto? New York: la loro New York. Un intero semestre. Ideale per lui, ideale per lei. E, nei momenti morti della giornata, aveva preso a visitare il sito in cerca di ulteriori dettagli, finché non si era deciso a inviare la domanda.
Lí per lí non aveva fatto troppa attenzione a quel nome. Invece era proprio cosí. Remarque stava per Erich Maria Remarque: quell’Erich Maria Remarque. Come non averci pensato subito? A volte Marcello aveva la testa chissà dove! Solo piú tardi, cercando on-line, aveva scoperto che la fondazione era nata grazie a un lascito della Vedova del Grande Scrittore. Si parlava di venti milioni di dollari donati alla New York University al principio degli anni Novanta affinché venisse onorata con un centro di ricerca la memoria dell’illustre coniuge (Marcello, riconoscente, si sentí in dovere di procurarsi una copia di seconda mano di Niente di nuovo sul fronte occidentale: un best-seller del passato che, a quanto sembrava, oramai non leggeva piú nessuno, almeno lí in Italia). Al tempo la stampa americana ne aveva parlato parecchio e gli articoli erano ancora visibili sul web. – In mancanza di eredi si può largheggiare, – aveva commentato Claudia, puntigliosamente. E che la Vedova, ora Generosa Benefattrice, insomma Paulette Goddard, fosse stata in una vita precedente moglie di Charlie Chaplin, nonché la protagonista femminile di Tempi moderni e del Grande dittatore, rendeva il bando persino piú allettante. Claudia, almeno, era stata da subito ottimista. – Paulette Goddard? Allora questa è la borsa per te. Me lo sento. Te la meriti –. Ma non pensava al dotto progetto sull’americanizzazione dei consumi nell’Italia del secondo dopoguerra allegato alla sua lettera di candidatura, e sotto sotto intendeva dire, piuttosto: noi ce la meritiamo. A nessuno meglio di loro si addicevano i frutti del lascito di Paulette Goddard.
Alla fine Claudia aveva avuto ragione. Il loro merito, il merito al quale aveva fatto riferimento, in questo caso consisteva principalmente in una passione per il cinema di ieri che agli occhi dei non iniziati assumeva i tratti di un incomprensibile culto esoterico. Non per niente si erano conosciuti a Parigi, l’autunno che Claudia approfondiva la lingua straniera numero tre e Marcello trascorreva le giornate murato in una École de Commerce nel quartiere della Défence, tristissima come tutte le architetture futuristiche invecchiate presto e male, ma riusciva egualmente a ritagliarsi quasi sempre il tempo per lo spettacolo di mezzogiorno, quando il biglietto era scontato e sentivi subito di appartenere a una comunità d’elezione anche se eri arrivato da due giorni e non avevi ancora amici. Passando da Lang a Tarkovskij e da Ferreri a Mizoguchi ecco le solite facce ricomparire all’infinito: gli adepti del dio Cinema nel triangolo magico che si estendeva da Place Saint-Michel a Place Saint-Germain per culminare a sud est nel glorioso schermo panoramico del Grand Action, a un passo dalla selva di colonne di cemento di Jussieu, dove anche Claudia, per qualche tempo, non era stata che uno dei tanti volti familiari, senza che mai si decidessero ad attaccar discorso. Nel mondo, si diceva, c’erano sempre meno fedeli, ma non a Parigi, dove le sale del Quartiere Latino si irradiavano ancora nelle viscere della città e bastava una scala ripida per tornare a calarsi nel regno perduto della celluloide. Era già consolante. Gli dèi non erano scomparsi del tutto ma si erano limitati a scendere di qualche metro sottoterra.
Era quello il cinema, per loro. Le catacombe. L’antro della Sibilla. La caverna di Platone. Anche Claudia e Marcello, però, una volta tornati in Italia, si erano dovuti rassegnare al minimalismo dello schermo domestico. Per i conoscenti piú superficiali la loro era una stravaganza come tante, che si concretizzava innanzitutto nell’avveniristico videoproiettore professionale esposto in bella vista nel salotto. Negli ultimi tempi i prezzi si erano notevolmente abbassati e a poco a poco aggeggi del genere stavano diventando sempre piú comuni anche tra i loro amici, ma Claudia e Marcello lo avevano cambiato già una volta da quando, cinque anni prima, erano entrati nella nuova casa. Con i libri abbandonati nelle buste cinesi a strisce bianche, rosse e blu e il materasso ancora in terra la prima cosa che si erano preoccupati di sistemare era quel loro cinema privato, la lampada e il lettore di dvd precariamente abbarbicati su una pila di scatoloni che avrebbero cominciato a disfare solo l’indomani (il frigorifero, rosso fiammante e bombato come nelle pellicole americane degli anni Sessanta, sarebbe arrivato quasi un mese dopo).
L’entità del mutuo che avevano sottoscritto con la banca avrebbe dovuto sconsigliare qualsiasi spesa superflua, e invece loro non avevano voluto rinunciarci a nessun costo. Erano fatti cosí. Imbiancavano le pareti tutto il giorno per risparmiare sulla manodopera, poi mettevano su un vecchio film e a volte due; spesso Claudia faceva i popcorn e la serata passava in questo modo, smangiucchiando stesi in terra, tra i cuscini, se non erano troppo stanchi facendo l’amore mentre sulla parete Audrey Hepburn imparava per l’ennesima volta a rompere le uova come un vero chef francese. Avevano avuto i soldi per la lavastoviglie e i divani bianchi soltanto quando, qualche tempo dopo, il dipartimento lo aveva promosso ad associato.
La parete con i dvd e le arcaiche videocassette faceva una certa impressione, mentre bisognava essere un poco piú addentro ai feticci della cinefilia per riconoscere a colpo d’occhio la collezione dei «Cahiers du Cinéma», quasi integrale (il grande vanto di Marcello). No, nessuno dei loro amici si sarebbe piú stupito, conoscendoli: e non solo perché Claudia, dato il suo lavoro, frequentava soprattutto gente dell’ambiente. Chiunque li aveva accompagnati in vacanza all’estero aveva dovuto imparare a proprie spese la loro passione per i set cinematografici, a San Francisco ripetendo le peregrinazioni di James Stewart dietro a un fantasma in completo grigio, o in giro per le pasticcerie di Monceau, la volta che avevano consumato un’intera giornata nel tentativo, poi rivelatosi infruttuoso, di ritrovare tutte le location di un vecchio cortometraggio di Rohmer, con grande disappunto di Daria e Franco che non erano mai stati a Parigi prima e non capivano l’intestardirsi di Claudia e Marcello con quelle mete semiperiferiche, trascinati dalla memoria di un fotogramma in bianco e nero.
Eppure New York rimaneva imbattibile, quanto a set naturali. Anche per questo la sentivano come la loro città: piú ancora di Parigi. Ed era stato cosí pure questa volta, sin dal momento in cui avevano messo piede nel funzionale, economico e dignitosamente lugubre appartamentino che li avrebbe ospitati fino alla fine del soggiorno in un gigantesco palazzone appena a un isolato da Washington Square – un esempio della piú squallida architettura modernista che avrebbe potuto trovarsi benissimo nella periferia di Seul o di Caracas. Non importava. Come si poteva non amare una città del genere? Persino Alphabet City, persino la ridicola messa in scena di Little Italy: sbiadita come il bianco, il rosso e il verde dei tricolori ai lati della strada per indicare anche ai piú distratti che si era usciti da Chinatown e che qui, per due isolati, la soia e il bambú avevano ceduto il posto alla pizza e ai busti di Benito Mussolini. Persino certi palazzi abbandonati all’altezza dell’Harlem ispanica che si vedevano arrivando dall’aeroporto. Erano stati i registi che amavano a insegnare al mondo quanto quelle bruttezze, fotografate con i filtri e gli obiettivi giusti, riuscissero inspiegabilmente evocative. La forza dei sentimenti in un mondo inospitale e ostile, l’etica privata dei rebel without a cause: nonostante tutto.
No, non c’era al mondo un altro luogo come New York. Nei primi giorni, però, dopo la prevedibile fatica del viaggio e del trasloco, si erano limitati a esplorare il quartiere. Il portiere del mattino (d’una specie in via d’estinzione, l’antica razza dei portieri dalla faccia grigia) poteva far pensare a un Tommy Lee Jones malato d’itterizia (la definizione, calzantissima, questa volta era di Claudia, mentre per il suo collega del pomeriggio non erano riusciti a trovare una somiglianza altrettanto persuasiva). Il Remarque Institute rimaneva invece off limits. Gli studi, con vista mozzafiato su Washington Square, sarebbero rimasti inagibili ancora per tutto il mese (una ristrutturazione da tempo rimandata, ma assolutamente necessaria e ora non piú posticipabile, come aveva precisato una e-mail prima dell’inizio del semestre), e Marcello avrebbe dovuto accontentarsi della sistemazione provvisoria che gli avevano trovato presso il dipartimento di sociologia. Gentili. Era un ufficio dignitosissimo, telefono, computer, una poltrona e persino una lavagna alla parete, insomma perfetto per le sue esigenze se solo lui non avesse preso quel piccolo incidente come un invito ad assaporare fino in fondo la dolcezza del settembre newyorkese.
Avevano fatto bene ad anticipare la partenza di due settimane. L’ondata di caldo eccezionale non accennava a lasciare la presa, ma la temperatura era comunque piú mite che in Italia, se dovevano credere alle notizie che venivano dalla madre di Claudia. E passeggiare senza meta per le stradine del Village era il loro modo di ristabilire i contatti con l’angolo di Manhattan che tutti e due sentivano piú familiare. Il loro ultimo soggiorno risaliva all’estate di tre anni prima – un tempo infinito per una città che non dorme mai, ma piú ancora dopo le torri e quello che le torri avevano rappresentato. Alcuni negozi avevano chiuso, nuove attività avevano aperto, eppure si orientavano lo stesso piuttosto bene. Il buco che vendeva le mozzarelle fresche era sempre al suo posto, come il ristorante libanese e il farmer market di Union Square, ideale per le marmellate e i succhi naturali. Il Virgin megastore. L’anziano barbiere messicano di Bleecker Street, cosí eccessivamente gay. A chiudere, soggiorno dopo soggiorno, erano soprattutto le librerie, mentre il Film Forum, incurante delle stagioni, continuava a proporre le sue speciali rassegne sui maestri del muto o sul cinema europeo, con qualche timida incursione a Oriente o verso il Sud, secondo una geografia che coincideva sostanzialmente ancora con quella tracciata a suo tempo nei volumi gialli dei «Cahiers» che, a Roma, Marcello e Claudia esibivano in salotto.
Claudia sembrava la piú stupita e non faceva che lodare questa capacità di assorbire i colpi. – Ti rendi conto? Con quello che hanno passato. E invece è la New York di sempre –. Era vero. Se non ti spingevi deliberatamente a sud, verso il cratere, dopo appena due anni stentavi a trovare qualsiasi traccia dell’attacco. Certo, ogni volta che passavano davanti alla chiesa metodista, sul lato meridionale di Washington Square, potevano controllare il numero dei caduti aggiornato quotidianamente (c’erano anche i civili e le vittime irachene), ma quella era comunque un’altra storia, la guerra, una delle tante guerre americane, e la chiesa era famosa in tutto il paese per la sua attività pacifista sin dai tempi di Ho Chi Minh e dell’Indocina. Make love, not war (uno slogan che sarebbe sicuramente piaciuto a quel vecchio antimilitarista di Remarque). Ma che qui non si era piú in Europa lo capivano principalmente da tutti quei ventenni in carrozzina che si incontravano per strada. Le statistiche ufficiali riportate dal quotidiano dicevano che rispetto alla seconda guerra mondiale il rapporto tra feriti e morti era cresciuto di almeno quattro volte: miracoli della medicina da campo e della microchirurgia, ma questo significava anche piú invalidi da riassorbire, dopo. Erano loro l’indizio piú vistoso del nuovo ciclo di brutalità innescato dalle torri.
Eppure New York non era mutata nel profondo. Il mondo andava in fiamme, un’altra volta, e i postini continuavano a consegnare in orario la corrispondenza, incuranti di tutto gli scoiattoli reclamavano la loro porzione di bagel durante la pausa per il pranzo, lí nel parco, mentre Joe’s Shanghai non aveva smesso di servire i migliori dumpling della città e forse della costa est. Era rassicurante, come il verde dell’erba (cosí verde anche in estate) e il traffico delle ore di punta, regolare e intenso, rassicurante pure quello. L’iced cappuccino da Dean & DeLuca, gli inserti domenicali del «New York Times», il nauseabondo odore di frittura che annunciava con dovuto anticipo i McDonald’s. Per non dire del numero massimo di richieste alla New York Public Library, che era rimasto esattamente lo stesso di tre anni prima. Il rassicurante jogging mattutino dei cinquantenni in lotta con l’ipertensione, la rassicurante sirena di Starbucks, i rassicuranti coni gialli delle pulizie. La New York che amavano.
O invece no. Era stato Marcello a notare per primo la scritta, un giorno che con la metropolitana salivano verso Columbia. Il cartello li aveva colpiti entrambi, ed era strano che non se ne fossero accorti prima, o forse era soltanto una conferma della loro riluttanza a uscire dal Village, perché una delle prove che si sentivano in vacanza era proprio questa loro tendenza a spostarsi a piedi, sempre e comunque, senza preoccuparsi del tempo in piú che ci voleva e tenendo costantemente il naso in aria, ai grattacieli, come una qualsiasi coppia di turisti appena sbarcati dall’Italia. IF YOU SEE SOMETHING, SAY SOMETHING, diceva il cartello – lettere gialle in campo nero, con un grande occhio stilizzato a rafforzare il concetto e forse a suggerirlo anche a coloro che non masticavano l’inglese. Se vedi qualcosa, di’ qualcosa: e poi un numero per le emergenze, facile da ricordare come sempre in questi casi. CALL 1-888-NYC-SAFE. L’antrace. La guerra batteriologica. La bomba sporca. Nessuno sapeva da dove sarebbe venuta la prossima minaccia. CALL 1-888-NYC-SAFE. Come in un film con Br...