Ama da sempre i dettagli.
È un amore assoluto, che richiede una vita di spasmodica applicazione alla causa. Pignolissimo, è nemico giurato dei perplessi, ma piú di loro detesta gli altri pignoli, che gli offuscano quel sentimento del rimanersene, solo e furtivo, a godere dell’esistenza svelata delle piccole cose. Si tiene in generale ben lontano da chiunque, come chi ha spazio per una passione soltanto e sente quanto sia fragilmente fondata quella sua via esclusiva di accesso al mondo. E la protegge, e nel proteggerla vi aggiunge un particolare ogni giorno, e a ciascuna aggiunta gli pare di darle un poco di piú di fondamento. La mole delle minuzie – non si direbbe – tende a moltiplicarsi oltre misura, cosí si è scelto, tra i tanti, il mestiere del giornalista, che ha inteso come il modo piú elegante di custodire i suoi archivi, dargli la piú larga pubblicità possibile e insieme guadagnarci il pane. Come inizia la sua carriera, comincia anche a tenere dei dossier nominativi sui politici. Ne ricerca le dichiarazioni, le segue giorno dopo giorno, le conserva1. E poi aspetta la contraddizione. Si impegna con metodo in questa leggera trasformazione della propria passione d’un tempo: ha scoperto che i dettagli contengono la chiave per svelare errori che solo un’attenzione millimetrica consente di cogliere e quell’imprevisto regalo a tante sue ore di impegno gli permette di amarli per una ragione di piú. Il gusto della scoperta delle prime incoerenze lo rende impaziente. Vuole pescare le bugie dei potenti. Beccarne le incongruenze. Coglierli in fallo. A furia di stare all’erta dei possibili raggiri, ne vede piú di quel che trova e incomincia a sospettare la corruzione piú dell’omissione, il peccato piú dell’errore. A rischio e pericolo altrui, allena la memoria sulle cronache giudiziarie. Gli interessano i fatti, solo i fatti, nient’altro che i fatti. Li segue passo passo, sollevarsene appena un poco verso qualche tipo di elaborazione teorica gli dà le vertigini: per non tradirli e per non tradire neanche il proprio equilibrio si abitua a non correre mai quel rischio. D’altronde i fatti sono composti di dettagli, la sua vera consolazione. E sono suscettibili di accertamenti concreti, tangibili, palpabili, eccoli! Sono proprio qui davanti, com’è chiaro a chiunque abbia la pazienza di spiarli e riportarli per iscritto.
Di evidenza in evidenza, si fa l’idea che la verità sia una soltanto. Basta circondarla con i fatti giusti e verrà fuori da sola. Chi non la riconosce, ha qualcosa da nascondere. Sempre piú abbacinato dall’indignazione, non c’è reato cosí lieve da non suscitare una sua denuncia e non c’è avversario polemico che non meriti almeno un insulto infilato nell’editoriale che sta scrivendo per l’indomani. Coltiva le sue forze di scrittore saggiandole su riferimenti culturali che vanno da Totò, di cui utilizza le battute piú abusate ma non introietta la diffidenza verso il potere, a Montanelli, depurato meglio degli usi e costumi coloniali che di quelli reazionari. Certo non gli mancano le occasioni di trovare impuniti tra le schiere dei potenti che tanto voleva castigare, ma la postura del giustiziere è difficile da dismettere, ormai se la tira dietro chiunque condanni. E il contagio dalle persone si trasmette fatalmente all’ambiente. L’Italia in cui vive è una nazione predata. «I nostri guai derivano dal fatto che abbiamo due bande che si fanno chiamare destra e sinistra e che per ragioni affaristiche e di convenienza si sono impadronite del Paese e se lo sono mangiato, proprio a colazione, pranzo e cena, lasciandoci soltanto gli ossicini e le briciole»2. Sempre piú puntiglioso e superficiale su ogni aspetto della vita politica nazionale, giurerebbe che si può contare su un solo uomo che sia capace di snidare e insieme sottrarsi a questo contagio di ladrocinio: lui stesso.
Marco Travaglio in persona.
«Un solo uomo, in città e nel circondario, si sottrasse completamente a quel contagio e, qualsiasi cosa facesse papà Madeleine, restò ribelle come se una specie d’istinto incorruttibile e imperturbabile lo tenesse sveglio e inquieto. Si direbbe infatti che esista in certi uomini un vero istinto bestiale, puro e integro come tutti gli istinti, che crea le antipatie e le simpatie, che separa fatalmente una natura da un’altra, che non esita, non si turba, non tace e non si smentisce mai, luminoso nella sua oscurità, infallibile, imperioso, refrattario a qualunque consiglio dell’intelligenza e a qualunque solvente della ragione […]»3.
È la prima descrizione di Javert, l’ispettore di polizia che lungo tutti i tribolati vent’anni di storia francese descritti ne I miserabili, Victor Hugo mette alle calcagna del protagonista del romanzo, papà Madeleine. Non c’è dubbio che l’implacabilità dell’ispettore, se proiettata nello scenario dell’attuale vita pubblica italiana, si troverebbe a proprio agio nella fisionomia di Marco Travaglio. Paladini di un ordine composto di zelo e disciplina, entrambi non rinuncerebbero al proprio lavoro per nulla al mondo. Sono consacrati a un’etica professionale che investe le sue migliori risorse nella ricerca accanita di una straordinaria coscienziosità. E tanto s’impegnano nell’operare con un’attenzione meticolosa e febbrile, che l’altro lato della coscienziosità, quel richiamo interiore che cerca il rapporto tra quel che si fa e il sentimento del bene e del male che ognuno distingue in sé, viene lasciato volentieri da parte. Alle loro risorse migliori non rimane che assecondarne l’apostolato e cedere all’unica facoltà che in loro non si placa mai: l’intransigenza. Sono composti «di due sentimenti semplicissimi e relativamente assai buoni», ma che rendono «quasi cattivi, a furia di esagerarli: il rispetto dell’autorità e l’odio delle ribellioni»4. In un mondo morale in cui tutti i crimini sono altrettante forme di ribellione, proprio come Javert «copriva di sprezzo, d’avversione e ripugnava tutti coloro che, anche una sola volta, avessero varcato la soglia legale del male»5, cosí Travaglio è animato dalla stessa smania di assoluto. Ma se l’ispettore «circondava d’una specie di fede cieca e profonda tutto quello che ha una funzione nello Stato, dal primo ministro fino alla guardia campestre»6, per il giornalista tutte le professioni gratta gratta finiscono per rivelare la loro corruttibilità.
I politici su tutti. Voltagabbana e fannulloni per natura, ipocriti e bugiardi per mestiere, capaci di qualsiasi oscenità per detenere il potere, la loro corruzione li rende «la classe politico-imprenditoriale piú malfamata d’Europa»7. È un mondo di trucchi e mazzette, frequentazioni pericolose e ladrocini, dove «fa curriculum essere pregiudicati»8 e «non c’è piú ricambio nemmeno tra i tangentari e i faccendieri»9. I politici, «ladri purtroppo viventi»10, sono la «casta, anzi la cosca»11, la «vera emergenza italiana»12. E quello che piú temono è venire scoperti.
Ma anche chi ne potrebbe denunciare gli abusi è colluso. I suoi colleghi giornalisti sono nati a corte. Tutti schiavi di qualche padrone, c’è chi tende alla bontà al prezzo di un orologio Cartier13, chi decide delle notizie sulla base del «loro colore, cioè della convenienza o sconvenienza per la Causa»14, chi non fa domande15, chi nasconde i fatti o li inventa con frasario zuccheroso, in tanti raccontano balle. «Il caso del 90% del giornalismo italiota» è di essere «allergico alle notizie»16, e un po’ tutti sono malati di «leccaculismo», come campeggia sui titoli dei libri loro dedicati, da La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni a Slurp. Lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinato. In breve, la funzione dei giornali in Italia è pressoché una sola: «coprire le menzogne dei potenti»17.
E la denuncia del malcostume nazionale non ammette eccezioni. Perfino nei confronti dei magistrati, verso i quali Travaglio afferma quotidianamente un solido pregiudizio positivo e che in genere sono considerati come baluardo della democrazia, la lista dei capi d’imputazione è lunga: «spocchia, autoreferenzialità, ipocrisia, doppiopesismo, astrattezza, elitismo, negazione dei problemi, allergia a tutto ciò che viene dal popolo (bue), autocompiacimento di stare dalla parte dei buoni e dei giusti, compatimento per la plebe “giustizialista”, “populista” e “sovranista”»18.
Cosa rimane dell’esemplare devozione di Javert alla legge e ai suoi tutori, quella fede cristallina che lo portava a dire «Il funzionario non può ingannarsi e il magistrato non ha mai torto»19?
Certo, a leggere le invettive incessanti di Travaglio contro il marciume che sovrasta l’Italia, egli parrebbe condividere con l’ispettore del romanzo «l’opinione di quelle menti estremiste che attribuiscono alla legge umana non so quale potere di fare, o se si vuole, di accertare dei dannati, e che collocano uno Stige sul fondo della società»20.
E tanto piú appare allora singolare la longanimità con cui vengono trattate alcune figure. A Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo, per esempio, Travaglio ha rinnovato un credito costante lungo la sequenza di annunci e rivelazioni, denunce e accuse che accompagnano la sua tormentata vita giudiziaria. Nonostante le diverse e talvolta clamorose smentite, e le condanne per riciclaggio, tentata estorsione, concorso in associazione mafiosa, calunnia e detenzione di esplosivo, la difesa di Ciancimino e della sua attendibilità procede con perizia e puntigliosità. E rivela il suo scopo: sostenere l’affidabilità di chi viene presentato come testimone chiave della trama detta trattativa Stato-Mafia. Di fronte al moltiplicarsi delle incongruenze nelle dichiarazioni di Ciancimino e delle manipolazioni nei documenti da lui presentati agli inquirenti, Travaglio prima si lancia in una elucubrazione sulla sua configurazione giuridica di persona informata sui fatti e non di pentito, il che attesterebbe la bontà delle sue affermazioni in ragione dell’essere stato iscritto nel registro degli indagati. Poi almanacca sottili distinzioni tra aspetto mediatico e giudiziario della vicenda, insegue arzigogolate differenze tra veridicità e autenticità delle testimonianze, s’impunta in problemi schiettamente filosofici: «Il documento che cos’è?», e ancora «Cos’è l’autenticità?»21 E infine tira le conclusioni. La «leggenda piuttosto fantasiosa, molto avvincente, poco credibile e cioè che Ciancimino, a un certo punto, decida di rovinarsi la vita cominciando a sparare a zero su alcuni fra gli uomini piú potenti d’Italia» va da sé che sia una ulteriore riprova del teorema in virtú del quale: «non è che si faccia carriera andando dai giudici a dire qualcosa di brutto su Berlusconi, Dell’Utri in Italia. Si fa carriera a non dirle, certe cose»22. Eppure, a guardare quella di Travaglio, di carriera, non si direbbe.
Rimangono i documenti falsificati. E di fronte a quello che è pur sempre un fatto, ineludibile e inesorabile, invece di trarne la conseguenza piú logica – che cioè Ciancimino possa essere una figura poco affidabile – Travaglio si rivolge alle risorse della narrativa d’invenzione. Fantastica un intreccio da thriller psicologico. Il personaggio principale, Ciancimino, è perseguitato dalle minacce di qualche criminale, di cui conosce i delitti. Ha comunque trovato il coraggio di denunciare, ma ora è in una posizione pericolosa. Noi lettori non possiamo sapere quali siano le trame occulte dei poteri che si agitano contro il protagonista, ma lo scrittore lascia cadere nella storia quella studiata intuizione da detective consumato, che soltanto alla fine scopriremo essere quella giusta. «Il sospetto è che lui nell’ultimo periodo abbia cominciato a fare delle cose per sputtanare quello che di vero aveva detto e consegnato in precedenza. Allora la domanda è: lo sta facendo spontaneamente, sotto minaccia, sotto pressione di qualcuno, sotto ricatto di qualcuno, è costretto a fare il kamikaze suicida oppure lo sta facendo spontaneamente magari in attesa di qualche tornaconto, o è semplicemente pazzo? Perché non c’è nulla di lucido e di lineare in quello che è successo»23. Come nei gialli piú classici, la morale conclusiva tende inevitabilmente a ripristinare l’ordine sociale violato dalle vicende sordide, illogiche e caotiche appena descritte. E se la giustizia non può ancora trionfare, non rimane allo scrittore che rivolgere un appello accorato perché il protagonista sveli infine il suo carattere piú segreto, permettendo che i colpevoli piú biechi siano sconfitti e il mondo ritrovi la sua integrità. «Speriamo che tra la paura di restare in carcere e la paura di quelli che probabilmente lo minacciano Ciancimino decida di tornare a essere collaborativo sul serio con la magistratura, quindi se c’è qualcuno che lo ha costretto o lo costringe sotto minaccia o ricatto a portare una carta falsa e poi a mettere la firma di fatto sotto quel falso, ci dica chi è e perché lo fa. Se invece dietro di lui non c’è nessuno e ha fatto tutto lui, allora vuol dire che merita il manicomio, il reparto psichiatrico perché è completamente matto»24. Travaglio costruisce un personaggio la cui mirabolante epopea viene allucinata fino al punto di ipotizzare che viva sotto costante minaccia. L’invenzione è cosí densa di fascino che forse le tante intimidazioni che Ciancimino negli anni ha denunciato gli devono qualcosa quanto a fantasia.
Altrettanta benevolenza da parte di Travaglio ha meritato la figura tutta diversa di Antonio Ingroia. Prima pubblico ministero, poi leader politico, infine avvocato. Ha istruito il processo per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, quello per concorso esterno mafioso a carico dell’alto funzionario del Sisde Bruno Contrada, un altro a carico del parlamentare di Forza Italia Marcello Dell’Utri e uno ancora sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia. È stato lui a riaprire il fascicolo sulla strage di Portella della Ginestra e sempre lui a disporre la riesumazione del cadavere del bandito Salvatore Giuliano, ucciso nel 1950. Uno dei misteri d’Italia cari ai ricercatori di retroscena che si è risolto scoprendo che in effetti la salma era proprio quella del morto.
Nel novembre del 2012 va in Guatemala per conto dell’Onu, con l’incarico di dirigere il Dipartimento Investigazioni della Cicig25, un ente sovranazionale per la lotta alla criminalità organizzata dell’America Centrale. Due mesi e alcuni reportage per «il Fatto Quotidiano» dopo, Ingroia torna in Italia....