Se uno dei compiti principali della filosofia politica è quello di ragionare attorno ai principî del buon ordine politico, bisogna osservare subito che questa ricerca, nelle condizioni del mondo contemporaneo, appare indubbiamente assai difficile. Il tempo in cui viviamo, infatti, è caratterizzato non solo dal «politeismo dei valori», per riprendere la famosa espressione di Max Weber, ma dal conflitto tra valori e visioni del mondo che appaiono, in prima battuta, antagoniste e incompatibili. Come è possibile, dunque, individuare principî che possano essere riconosciuti da ciascuno come validi? Prima di riflettere sulla risposta che si può dare a questa domanda conviene ancora chiarirne sinteticamente i termini.
La ricerca della quale stiamo parlando affronta questioni che si possono rubricare sotto la tematica del dover essere: ci si chiede infatti come dovrebbe essere organizzata la nostra convivenza, in che modo dovrebbero essere strutturati i diritti e i doveri degli appartenenti a una comunità politica; ovvero, per dirla con le parole di John Rawls, come dovrebbero essere ripartiti, all’interno di una struttura politica organizzata, gli oneri e i benefici della cooperazione sociale. Se poniamo queste domande, un ulteriore motivo di riflessione ci si presenta subito davanti agli occhi: la ricerca che vogliamo intraprendere è strettamente connessa con quella che riguarda i diritti e gli obblighi che gli individui dovrebbero riconoscere gli uni nei confronti degli altri; e pertanto non è separabile, almeno in prima istanza, dalla riflessione morale, se è vero che la filosofia morale, almeno in molte delle sue declinazioni, si occupa proprio del modo in cui dovremmo trattarci reciprocamente. Anche la filosofia politica si pone questo problema, ma in modo diverso perché, piú che a capire come i singoli debbano rapportarsi correttamente gli uni agli altri, si interroga su quali istituzioni e norme siano idonee ad assicurare una giusta organizzazione della convivenza sociale.
Nei classici della filosofia politica moderna, nei quali il problema dei principî è posto in modo chiaro e consapevole, è infatti strettissimo il legame tra la dimensione morale e quella politica. Non si può dire però che il problema dei principî di fondo che devono sorreggere un giusto ordine politico trovi una soluzione chiara e soddisfacente anche per noi, che viviamo in un’età dove il conflitto dei valori o, per dirla con Rawls, il «fatto del pluralismo» sembra rendere ancora piú difficile la individuazione di principî razionalmente condivisibili.
Se questa è la nostra situazione, dunque, non si può dire che i classici della filosofia politica moderna ci siano di grande aiuto. Ma prima di prendere atto di questa pessimistica conclusione è bene ricordare rapidamente alcuni dei momenti «alti» nei quali la riflessione sui principî della politica ha trovato lucida espressione.
Lasciando da parte John Locke, la cui riflessione sulle leggi di natura pare difficilmente utilizzabile all’interno di un universo «postmetafisico» come quello nel quale noi abitiamo (almeno secondo pensatori come Habermas), vale la pena di richiamare alla mente il modo in cui la questione dei principî della politica è stata posta da quei grandi geni del pensiero politico moderno che sono stati Thomas Hobbes, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, anche perché le loro prospettive conservano un valore archetipico con il quale il pensiero contemporaneo non cessa di misurarsi.
La prospettiva di Hobbes, almeno secondo una lettura che si può dare di essa, si caratterizza per il fatto che i principî della politica vengono ricavati da un imperativo che ogni uomo di buon senso necessariamente fa proprio, e cioè l’imperativo dell’autoconservazione. In estrema sintesi, il ragionamento hobbesiano si può ricostruire nel modo seguente. Le leggi fondamentali della convivenza umana, come quella che impone di trattare gli altri uomini come noi vorremmo essere trattati da loro e quella che impone di rispettare i patti, e che consentirà di stringere il patto politico sul quale si baserà l’umana convivenza, non derivano la loro validità da nessuna fonte nascosta nell’animo umano, sia essa di tipo religioso o di tipo morale: sono semplicemente delle regole di cui tutti possono riconoscere la validità in quanto attenersi ad esse è condizione necessaria per vivere in pace con gli altri uomini e quindi per garantirsi l’autoconservazione, la sopravvivenza. I comportamenti che le «leggi naturali» vietano sono semplicemente quelli che mettono a rischio la nostra vita perché, innescando la conflittualità, ci portano dritti verso la guerra e la possibile morte. Lasciamo per il momento da parte tutto il percorso complicato, e non privo di ostacoli, che conduce dalla individuazione delle leggi naturali alla sottoscrizione del patto politico, e limitiamoci a sottolineare, in modo quasi idealtipico, il punto che caratterizza (almeno secondo una possibile lettura) l’approccio hobbesiano: le leggi fondamentali che dovrebbero regolare i rapporti reciproci tra gli individui si possono ricavare dalla semplice e indubitabile esigenza dell’autoconservazione.
In sostanza, e volendone dare una ricostruzione un po’ libera, il punto che Thomas Hobbes pone alla nostra attenzione è molto chiaro: trattare gli altri in modo corretto è doveroso per il semplice motivo che è la scelta piú conveniente; la moralità, perciò, non è in antitesi, neppure potenziale, con l’utilità (come hanno sostenuto invece molti altri pensatori) ma è un lineare sviluppo di questa; comportarsi bene è la scelta che riduce al minimo i rischi cui l’individuo è esposto. L’autoconservazione è ciò che tutti desiderano, la principale utilità, e il comportarsi in modo moralmente corretto è l’unico modo per conseguirla.
Come è noto poi, a partire da qui, il ragionamento di Hobbes si sviluppa con alcuni snodi ulteriori: comportarsi in modo corretto sarebbe la scelta migliore, ma non è praticabile finché viviamo nello stato di natura, privo di ordine e di leggi: non è razionale, infatti, trattare gli altri con rispetto senza avere nessuna garanzia che essi, a loro volta, rispetteranno noi; e proprio per questo bisogna uscire dallo stato di natura per dare vita a un ordine costituito. Solo qui potremo finalmente trattare gli altri come eguali e rispettare i patti, perché avremo le garanzie che anche gli altri lo faranno nei nostri confronti in quanto, se non lo facessero, verrebbero rimessi in riga dal potere dello Stato.
Ma la pretesa hobbesiana di ricavare i principî della moralità dal solo imperativo dell’utilità non si può dire del tutto persuasiva. Il punto debole che ne mina la validità (e che ha spinto alcuni studiosi a proporre letture della teoria hobbesiana diverse da quella centrata sull’utilità) è in effetti molto evidente: se il comportamento morale, per esempio il rispetto dei patti, è doveroso perché trasgredendolo rischierei di compromettere la mia autoconservazione, ciò significa che, nel momento in cui mi trovassi in una situazione priva di rischio, non sarei piú tenuto a rispettarlo. Se le leggi di corretto comportamento vengono osservate al fine di conseguire un’utilità (cioè l’autoconservazione) sarà razionale anche non rispettarle se, cosí facendo, si potrà conseguire una utilità maggiore. Questa è appunto la tesi che, nel Leviatano di Hobbes, è sostenuta da quello che l’autore chiama un fool, uno stolto o uno sciocco, ma che in realtà sciocco non è affatto1. Il fool, con le sue conclusioni in ultima istanza immoralistiche, sembra essere piuttosto un hobbesiano coerente, e infatti l’autore del De cive incontra non poche difficoltà, e infine fallisce, quando cerca di dimostrare che il ragionamento dello stolto è sbagliato. In realtà esiste, come si vede nel testo hobbesiano, una via di possibile replica allo stolto, ma non è molto promettente: essa consiste nel rilevare che nessuno può essere assolutamente sicuro che le sue cattive azioni (anche se compiute con la piú assoluta certezza di restare impunite) andranno in realtà a buon fine; perché nella vita umana un margine per quanto minimo di aleatorietà sussiste sempre, e pertanto può accadere che chi credeva di realizzare, per vie immorali, la sua massima utilità scopra di avere messo stupidamente a repentaglio la sua vita.
La conclusione che si può trarre da questa storia è che l’idea di ricavare il dovere del rispetto degli altri dalla sola utilità, per quanto affascinante ed elegantemente semplificante, non funziona. A meno che non si pensi che il perseguimento razionale dell’utilità escluda di assumersi qualsiasi tipo di rischio, e quindi ci vieti di agire scorrettamente anche in situazioni che sembrano presentare benefici massimi e rischi minimi. In altre parole, moralità e utilità possono convergere solo se si considera l’agire razionale come un agire iperprudenziale, totalmente avverso al rischio, in un modo cosí estremo che nessun teorico dell’agire razionale sarebbe disposto ad ammettere.
A proposito del fool hobbesiano può essere utile però svolgere ancora due piccole considerazioni. In primo luogo si può dire che il fool rappresenta quella figura del cinico negatore dei doveri morali e politici con la quale la filosofia politica ha iniziato a confrontarsi dalla sua nascita, da quando Platone ha dato la parola nei suoi dialoghi, per cercare di confutarli, a sofisti radicalmente «immoralisti» come Trasimaco e Callicle. Si tratta di un confronto che per il filosofo politico è molto difficile vincere; ed è ancora piú difficile vincerlo per Hobbes, che con gli immoralisti condivide una premessa essenziale, e cioè che il comportamento dell’uomo non deve essere guidato da alcun motivo ideale, ma solo dal perseguimento della sua autoconservazione.
Un altro punto che può essere interessante notare è che il nesso tra prudenza e moralità, cosí affascinante per la sua capacità di semplificare i problemi, ha conosciuto nel nostro tempo una nuova vitalità nella Teoria della giustizia di Rawls. Egli mostra infatti che, se gli individui dovessero scegliere le regole della cooperazione assumendo un’ottica imparziale, cioè, nel linguaggio di Rawls, imponendo a se stessi un velo di ignoranza, sceglierebbero regole tali da far sí che sia tutelata innanzitutto la condizione di coloro che stanno peggio: poiché se gli individui (sotto velo di ignoranza) non sanno quale sarà la loro sorte sociale, prudenza impone che si preoccupino innanzitutto di essere tutelati nel caso in cui la sfortuna li faccia capitare nelle classi piú svantaggiate. In Rawls si avrà dunque il tentativo di sviluppare una giustificazione prudenziale della solidarietà sociale (e soprattutto della solidarietà con i piú svantaggiati) cosí come in Hobbes vi è il tentativo di sviluppare la moralità a partire dalla razionalità prudenziale. Entrambi i tentativi, però, non sono privi di difficoltà. E, soprattutto, si distanziano in un punto essenziale: a differenza di Hobbes, infatti, Rawls assume che i suoi decisori scelgano le regole della convivenza sociale dopo essersi auto-imposti un velo di ignoranza; ma questo significa che hanno già assunto una prospettiva imparziale, che incorpora già da sempre la moralità, senza però dare una effettiva risposta alla domanda: «perché dovremmo essere morali?»
In Rousseau l’indagine attorno ai principî della politica segue una strada completamente diversa: Rousseau non cerca, almeno in prima istanza, di ricavare i principî della politica da piú originari principî morali, ma piega il ragionamento in un’altra direzione. Alla base del giusto ordine politico, sostiene, vi può essere un solo principio, che è quello della libertà. Ma in che senso l’ordine politico può attuare il valore della libertà, se esso è un ordine coercitivo, che cioè impone agli individui di obbedire a leggi che regolano la loro reciproca convivenza? La risposta di Rousseau è molto chiara: il valore della libertà può essere conservato e affermato nell’ordine politico solo se le leggi alle quali gli individui dovranno obbedire saranno opera degli individui stessi; politicamente, essere liberi significa obbedire solo alle leggi che noi stessi ci siamo dati. E questo non è altro che il principio della democrazia, cioè di un sistema politico dove i cittadini sono essi stessi gli autori delle leggi alle quali si sottomettono. Ma se la libertà è il principio dell’ordine politico, come si giustifica a sua volta questo principio? Perché i cittadini debbono preferire il sistema politico nel quale la loro libertà è garantita, e non possono scegliere quelli nei quali vige invece l’obbedienza a leggi date da qualcun altro, per esempio da un saggio sovrano? Perché i cittadini non potrebbero, liberamente e volontariamente, rinunciare alla loro libertà?
La risposta che si ricava dai testi di Rousseau è sufficientemente chiara2: chi rinunciasse alla propria libertà, accettando di sottomettersi a leggi date da altri, consentirebbe a questi altri di governare le sue proprie azioni; quindi abbandonerebbe la personale responsabilità delle sue azioni per delegarla a qualcun altro. Ma cosa succederebbe se questo altro gli ordinasse di tenere comportamenti ripugnanti e inumani, come per esempio quelli che i tiranni nazisti imponevano ai propri seguaci? Chi dovrebbe portare la responsabilità delle azioni criminose che i sudditi, per obbedire a leggi eteronome, sarebbero costretti a commettere? I sudditi stessi o coloro che le hanno ordinate? È evidente che rinunciare alla libertà significa abdicare alla responsabilità morale delle proprie azioni. Dunque gli uomini non possono rinunciare alla libertà finché vogliono continuare a pensarsi come gli autori responsabili delle azioni che essi stessi compiono. Ma perché mai non si dovrebbe poter rinunciare alla propria responsabilità morale? Rousseau risponderebbe che essa fa parte della natura dell’uomo, ma nella moderna prospettiva di un pensiero postmetafisico questa assunzione pare difficile da sostenere. Si può affermare pertanto che Rousseau riesce senza dubbio a stabilire un legame forte tra libertà politica e responsabilità morale, ma non riesce a spiegarci in modo persuasivo perché la responsabilità morale sia qualcosa da cui non ci possiamo separare.
Non meno problematico è il modo in cui i principî della politica vengono giustificati nella prospettiva kantiana. In Kant è sicuramente stretto, anche se non facile da determinare con esattezza, il rapporto tra legge morale e principî politici. La legge morale viene definita, con una grande prestazione intellettuale, con la formula di quello che Kant chiama l’imperativo categorico: «Agisci unicamente secondo la massima che tu puoi volere ad un tempo che divenga legge universale»3. Ma Kant non riesce a dare una giustificazione del perché si dovrebbe seguire questa massima; e pertanto, dopo il geniale tentativo consegnato alla Fondazione della metafisica dei costumi, si rassegna, nella Critica della ragion pratica, a considerare la moralità come un «fatto della ragione».
L’ambito della libertà politica è connesso con quello della l...