Campo di battaglia
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Campo di battaglia

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Campo di battaglia

Informazioni su questo libro

Il racconto di una quotidiana, devastante, divertente guerra familiare. Da una parte un ragazzo in balia degli ormoni e delle pressioni sociali, dall'altra suo padre. Al centro, i sentimenti inquieti, spesso inspiegabili ma pieni di amore, tra genitori e figli. «Jérôme Colin ritrae il momento fatale in cui la bestia divora l'innocenza per rigurgitare un adolescente».
L'Express «Il guaio con i bambini è che crescono. Un bel mattino, senza preavviso, si presentano in sneaker, rispondono a grugniti, ascoltano musica orrenda, sbattono le porte. Mangiano, dormono, si fanno la doccia, sudano, puzzano, cambiano umore ogni cinque minuti. Ti esasperano. Ti odiano. Ti disprezzano. Consumano tonnellate di carta igienica. E, come se non bastasse,  smettono di considerarti Dio in Terrra».L'unico posto in cui il padre di un quindicenne può trovare rifugio è il bagno di casa. Solo qui, circondato da pareti piastrellate e dal silenzio, può cercare di capire cosa è andato storto. Perché questa è la storia di una coppia che rischia di andare in pezzi di fronte agli assalti ripetuti di un figlio adolescente: Paul, che passa tutto il tempo a smanettare sul telefono, grugnisce invece di parlare e, come se non bastasse, è stato ripreso piú volte dai professori per aver gridato «Allah Akbar» nel cortile della scuola. Cosa abbiamo fatto di male?, si chiedono i genitori. Niente. Ma la guerra è ormai dichiarata. E loro non sono preparati. Tra goffi tentativi di salvare un matrimonio in crisi, gesti sorprendenti, ansie e paure, Jérôme Colin ci consegna un ritratto di famiglia umoristico e straziante, puntuale e senza tempo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2021
Print ISBN
9788806244279
eBook ISBN
9788858434024

Campo di battaglia

ai miei figli,
a Colette
Domani, dico, e che ne so? Qui c’è tutto l’oggi che serve.
ERRI DE LUCA, Tre cavalli
Posso restare qui per interi minuti a guardarmi i piedi. La stanza è grande due metri quadrati al massimo. Pavimento di pietra blu e motivi floreali alle pareti. Una scelta di Léa. Comodità di seduta ottimale, tazza in ceramica, protezione anticalcare, chiusura ammortizzata, doppio scarico da tre o sei litri per il risparmio idrico. È la mia fortezza. Mi chiudo qui dentro, certo che nessuno verrà a disturbarmi. Lasciar defecare la gente in pace è una delle poche regole che ancora si rispettano in questa casa.
A braghe calate, leggevo un articolo sull’Hiram Bingham, il mitico treno che attraversa le Ande peruviane da Cuzco a Machu Picchu, quando ho sentito il rumore della porta d’ingresso e il passo pesante di mio figlio grande. Ho terminato con calma la mia lettura e dopo aver tirato l’acqua ho gettato un’ultima occhiata alla tazza in ceramica. Automatismo che mi permette di lasciare sempre il gabinetto come vorrei trovarlo.
Stravaccato sul divano, lo smartphone sulle ginocchia, il telecomando in una mano e un pacchetto di patatine nell’altra, aveva un’aria inoffensiva. Eppure da un anno a questa parte si applicava metodicamente a mettere la nostra famiglia a ferro e fuoco. A scuola le note disciplinari non si contavano piú e con svariati professori la situazione era decisamente critica. Dopo Natale si era beccato tre giorni di sospensione per aver urinato insieme a un compagno sulla porta dell’aula di religione. Soltanto la minaccia di un piano di studi personalizzato aveva sortito un leggero recupero sul filo di lana. Cosicché il consiglio di classe aveva deliberato in favore della riammissione.
Eravamo all’inizio del nuovo anno scolastico, si sperava migliore del precedente.
Mi ha salutato senza nemmeno alzare gli occhi e quando gli ho chiesto di mostrarmi il libretto ha sbuffato. Con un cenno della testa mi ha indicato lo zaino. – Prenditelo, è là dentro, – ha detto aumentando il volume della tivú. La scuola era ricominciata da quindici giorni e all’orizzonte ancora nessuna nota. Forse si iniziava a intravedere la fine del tunnel.
– Come va a scuola? Sono simpatici i prof?
– Sí!
– Hai tutto quel che serve? Libri? Materiale?
– Sí!
– Con la prof di religione va meglio dell’anno scorso?
– Sí…
– E chi hai di matematica quest’anno?
– Oh, cominci a rompere, eh?
– Modera il linguaggio.
– No, sei tu che rompi le palle a parlare sempre di scuola.
Ha sbattuto la porta sbraitando «Che palle!» ed è salito in camera sua, calpestando quasi sicuramente i vestiti disseminati per terra per andare a buttarsi sul letto a guardare video di rapper idioti e magari anche qualche porno. Gli è venuta voglia di farsi una doccia. Poi ha cambiato idea. Avrebbe dovuto alzarsi dal letto, scendere le scale, spogliarsi. Troppa fatica. Mi dicono che non è colpa sua. Che il processo di maturazione del suo cervello è ancora incompleto. Che le connessioni della sostanza bianca della corteccia prefrontale, responsabile del controllo delle emozioni, della capacità di organizzazione dei pensieri e di pianificazione non sono ancora giunte a compimento. Che il suo cervello è sviluppato per l’ottanta per cento. Ed è proprio quel venti per cento mancante a renderlo cosí impulsivo e incapace di raccogliere le mutande da terra. Insomma, mi hanno spiegato che in fondo non è un idiota. È solo una questione di età. Be’, me lo auguro di cuore.
Il guaio con i bambini è che crescono. Un bel mattino, senza nessun preavviso, si presentano in sneaker, rispondono con onomatopee, ascoltano musica orrenda, sbattono le porte e si esprimono a monosillabi. Mangiano, dormono, si fanno la doccia, sudano, puzzano, costano una fortuna in creme antibrufoli, cambiano umore ogni cinque minuti e gli si ingrandisce il naso. Si trascinano dal divano al letto, mettendosi d’impegno a ricordarti che non vali niente come padre. Ti esasperano. Ti odiano. Ti disprezzano. Sono crudeli, i bambini che crescono. Per non parlare del fatto che consumano tonnellate di carta igienica. E come se non bastasse, una volta superato il metro e cinquanta, smettono di considerarti Dio in Terra. E tu non puoi fare altro che abbozzare! Ormai non conti piú niente, sei solo un estraneo programmato per rovinargli l’esistenza e impedirgli di vivere.
Non sanno che in realtà te la fai sotto dalla paura perché hai letto che dall’infanzia alla fine dell’adolescenza il tasso di mortalità è di circa trecento volte superiore. E non c’entrano le malattie: nei Paesi sviluppati la maggior parte dei decessi di adolescenti è provocata da incidenti evitabili. Il cancro uccide gli adulti. La stupidità falcidia gli adolescenti. E massacra le storie d’amore dei loro genitori.
«Che palle!» aveva sbottato prima di uscire dalla stanza. Tre sillabe. Siamo alle solite. È sceso un’ora dopo per mangiare. Léa era tornata. La tavola era apparecchiata. Dopo aver scansionato la cucina con lo sguardo ha detto a sua madre: – Si vede che guardi Un dîner presque parfait! – Sono scoppiati tutti a ridere. Io no. E di colpo mi è passata la fame.
Paul è nostro figlio maggiore. Ci detesta per amnesia. È convinto che siamo piombati all’improvviso nella sua vita pochi mesi fa al solo scopo di dirgli di studiare e mettere in ordine la sua camera. Prima non è esistito niente. Non abbiamo mai pianto di gioia alla sua nascita. Non abbiamo mai discusso appassionatamente per trovargli un nome. Non abbiamo mai festeggiato il suo primo compleanno e tutti quelli che sono seguiti. Non lo abbiamo mai portato a vedere il mare. Non gli abbiamo mai insegnato ad andare in bicicletta. Non gli abbiamo mai pulito il sedere. Non gli abbiamo mai teso le mani quando muoveva i primi passi. Non abbiamo mai versato lacrime il suo primo giorno di scuola. Non abbiamo mai trascorso il sabato a guardarlo giocare a calcio. Non l’abbiamo mai stretto tra le braccia. Non l’abbiamo mai portato in braccio quando era stanco di camminare. Non abbiamo mai fatto del nostro meglio. Niente di tutto questo: ci siamo materializzati il giorno del suo quindicesimo compleanno per dirgli di raccogliere i fazzoletti disseminati in giro e di mettere le mutande nel cesto della biancheria sporca.
È difficile non avercela con loro. Non detestarli. Cercare di giustificarli. Di ricondurre il loro disprezzo a una questione ormonale e al loro cervello immaturo. La neurologia non aiuta quando vostro figlio quindicenne vi guarda in faccia con occhi di brace e vi urla: «Quanto rompi, cazzo! ’Fanculo!» Stringete i pugni e incassate il colpo, perfettamente consapevoli di avere a disposizione un decimo di secondo per decidere quale sia il miglior atteggiamento da adottare.
È successo di punto in bianco, piú o meno un anno fa. Abbiamo dato il bacio della buonanotte al nostro figlioletto. Gli abbiamo detto «Buonanotte, sogni d’oro», prima di richiudere piano la porta per non fare rumore. Poi io e Léa siamo sprofondati sul divano e, dopo aver guardato un film, sono ripassato in camera sua per un ultimo bacio. Adoravo dare un bacio ai miei figli mentre dormivano. Il giorno dopo, era un sabato, è sceso piú tardi del solito. Stavamo facendo colazione. È entrato in cucina sbuffando. Si è seduto senza dire buongiorno. «Niente croissant?» ha esordito. Ha sbadigliato. Ha detto alla sorellina che era brutta. Ha ingollato quattro fette di pane e Nutella. «Oggi pomeriggio vado in centro con degli amici», ha annunciato. Gli abbiamo negato il permesso. «Uff…» Ha mangiato un’altra fetta di pane e Nutella. Ha detto: «Vado a fare la doccia». Si è alzato senza sparecchiare. Ha strascicato i piedi fino in bagno. E ha sbattuto la porta. Quella notte il nostro angioletto era stato divorato dal mostro. Era cominciata la guerra e noi eravamo impreparati. Nessun bambino dovrebbe mai superare i dodici anni. Dodici è il limite massimo, a mio modesto parere. Dopo iniziano i guai.
Le possibilità di sopravvivere a un cancro al pancreas sono quasi pari a quelle di sopravvivere alla presenza di un bipede sotto il vostro stesso tetto. Noi ne eravamo la prova vivente. Avevamo resistito agli assalti della prima infanzia e allo sfinimento fisico. Eravamo ormai sul punto di soccombere, invischiati nella guerra di trincea che è l’adolescenza.
Dopo cena abbiamo controllato i compiti, firmato le verifiche, ripreso i telefoni e preparato gli zaini. Avevamo dovuto combattere per conquistare ogni centimetro quadrato di terreno e, a forza di strategia e minacce, avevamo avuto la meglio. Dopodiché ciascuna delle parti ha ripiegato nei propri quartieri. I ragazzi nelle loro camere, che presto bisognerà derattizzare. Noi in soggiorno. Léa si è messa a fare un puzzle. Io a guardare il telegiornale. Eravamo riusciti a contrastare la loro resistenza. E, una volta di piú, eravamo stremati per la battaglia.
Come ogni sera, ho fatto il giro delle stanze. Élise era di traverso sul letto, con gli auricolari alle orecchie. Per terra, un pacchetto di patatine vuoto, due paia di mutandine e il libro di geografia. Funesti segni precursori di quello che presto ci sarebbe scoppiato in faccia. Per il momento, però, era ancora una bambina che voleva bene ai suoi genitori. Abbiamo parlato un po’ di com’era andata la giornata, della scuola, delle sue compagne, del suo telefono «troppo vecchio, era ora di cambiarlo!» Le ho detto che eventualmente potevamo farlo riparare. Mi ha fatto notare che non eravamo piú negli anni Ottanta. L’ho stretta fra le braccia. – Ti voglio bene, piccola mia, – le ho sussurrato all’orecchio. Come una promessa, lei ha risposto: – Anch’io, papà. Te ne vorrò sempre –. Non sapeva che era una bugia. Che nel giro di qualche mese gli ormoni avrebbero avuto il sopravvento. Che sarebbe arrivata a odiarmi. Le ho mandato un cuore con le mani. Lei ha sorriso. Ho richiuso la porta pregando che il mostro non venisse a divorarla nottetempo.
Ho bussato alla porta di Paul. – No! – ha risposto. Ho contato fino a cinque per lasciargli il tempo di infilarsi le mutande e far sparire i fazzoletti e poi l’ho aperta lo stesso. La sua camera è un ecosistema composto da vestiti sgualciti e avanzi di cibo. Un compost che si ottiene evitando di mettere i vestiti sporchi nella cesta della biancheria e di gettare i rifiuti nel bidone della spazzatura, contando piuttosto sul processo di autodisintegrazione e trasformazione in humus. La stanza di un adolescente è un sapiente equilibrio agroecologico. – Buonanotte, – gli ho detto. – Sí, – ha risposto. Mi sono avvicinato per dargli il bacio della buonanotte e lui si è voltato dall’altra parte. Ho fissato la sua nuca e ho detto: – Sarebbe il caso che ti calmassi e crescessi un po’. Cosí ci esasperi.
China sul tavolino, Léa era tutta concentrata sul suo puzzle. Uno sgargiante pappagallo di duemila pezzi. Mi sono seduto accanto a lei, sul nostro bel divano Corréo con i piedini bassi, in tessuto sfoderabile, piacevole al tatto. Era sempre stato il sogno di Léa. Mai sottovalutare l’importanza del divano nella vita di coppia.
Dopo aver guardato in tivú le immagini di un attentato avvenuto quel pomeriggio in Siria, ho deciso di parlarle di una cosa che non mi era andata giú.
– Ti prende in giro dicendo che guardi Un dîner presque parfait e tu ci ridi sopra. Cosí gliela dài vinta.
– Non esagerare! In fondo non ha detto niente di male.
– Non dico questo. Dico solo che dobbiamo essere cauti non possiamo permetterci un altro anno di crisi. Non sopravvivremmo. Bisogna stargli dietro, Léa. Per il suo bene!
Le ho proposto di berci un bicchiere di vino, lei ha risposto: – Stasera no, magari domani… – Detestavo quella frase. Come se si potesse rimandare il piacere all’indomani. Come se non avessimo le ore contate. Il domani non è una certezza, al massimo un’eventualità.
Léa ha rilanciato la discussione dicendo che era fiduciosa per quest’anno, vedeva netti miglioramenti e sentiva che Paul stava maturando e cominciava a diventare piú responsabile. Le ho fatto notare che durante la giornata mi ero sentito dire «Quanto rompi» e «Che palle». Secondo lei un adolescente ha il diritto di ribellarsi, piuttosto ero io a non dovermela prendere ogni volta. E ha aggiunto:
– Guarda, ha iniziato bene la scuola, non ha ancora preso una nota! Vorrà pur dire qualcosa…
– Sí, ma non mi sembra il caso di fare i salti gioia! La scuola è ricominciata da appena quindici giorni!
– Lo vedi qual è il tuo problema? Non sei mai contento, non ti va mai bene niente! C’è sempre un «ma»…
Eccoci arrivati sul suo terreno preferito. Se ero tanto preoccupato dell’andamento scolastico dei nostri figli perché non andavo mai ai colloqui con gli insegnanti? Non perdeva occasione per attaccarmi a questo riguardo, anche se conosceva benissimo la risposta. Non mi era mai piaciuta la scuola e un bel giorno avevo deciso di chiudere definitivamente con quel periodo della mia vita. Mi aveva persino consigliato di rivolgermi a uno psicologo.
Erano le 22.00. Lo squillo della sveglia ha messo fine alla nostra discussione. Era il suo turno di guardia. Si è gettata un maglione sulle spalle ed è scesa in farmacia. Due minuti dopo era già tornata. – Un altro tizio che voleva del Cialis senza ricetta! – Cos’è il Cialis? – le ho chiesto. Mi ha spiegato che era un medicinale che inibiva la degradazione enzimatica della guanosina monofosfato ciclico a livello dei corpi cavernosi, inducendo un rilassamento delle fibre muscolari lisce con vasodilatazione peniena. Insomma, un farmaco utilizzato in caso di problemi di erezione. Erano sempre piú numerosi gli uomini che lo richiedevano. Secondo lei la maggior parte non aveva nessuna disfunzione, volevano solo essere sicuri che gli si drizzasse. Fenomeno sociale di cui le sfuggiva completamente il senso. Non capiva che la rivoluzione femminista non si è limitata a trasformare la condizione della donna, ma ha anche modificato profondamente il ruolo dell’uomo a letto. – O magari sono le donne a mandarli, per garantirsi un venerdí sera con orgasmi multipli, – ha aggiunto, ridendo della sua battuta. Io non ho riso. Era da un pezzo che lei veniva una volta sola. Quando andava bene.
Di punto in bianco ha detto: – Vado a farmi il bagno –. Era il suo modo per troncare la discussione. Si trin...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Campo di battaglia
  4. Ringraziamenti.
  5. Nota al testo.
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Copyright