Rive gauche.
23 marzo.
Mastro Noël Fremin detto la Galea avanzava col suo pancione in avanti, a mo’ di una prua, lungo il selciato di rue de la Parcheminerie, fra le principali botteghe di scrivani e di pergamenai del quartiere latino. Aveva fretta, quel giorno, ragion per cui trotterellava con le sue gambe aperte come un compasso e le maniche della tonaca che si agitavano al vento. Tuttavia, come di consueto, non trascurava di guardare a destra e a manca in cerca di Marie.
Era lei il motivo per cui Fremin si ostinava a procurarsi di persona il materiale scrittorio. Marie. La bella Marie. Sebbene il suo archivio sull’Île de la Cité distasse non poco da quella viuzza sorta a ridosso della Sorbonne, lui aveva sempre rifiutato di affidare quell’incarico a un servo.
Non che la fanciulla fosse al corrente del suo interessamento, né del semplice fatto che uno degli uomini piú grossi e timidi di Parigi facesse la spola da una riva all’altra della Senna soltanto per scorgerla un attimo, di sfuggita, magari affacciata alla finestra di casa o davanti alla bottega del padre. La qual cosa era assai penosa, si diceva tra sé la Galea, che pur avendo il suo sale in zucca non poteva farci proprio nulla. Quella ragazza era la sua debolezza, il suo limite e insieme il suo sogno piú grande. L’apice di ogni giornata vissuto nell’agrodolce attesa di vederla comparire.
Mentre procedeva verso la pergameneria del padre di Marie, una delle piú care di Parigi, Fremin la Galea era dunque cosà preso dai suoi pensieri che per poco non si accorse dei due mocciosi che l’avevano superato di corsa, uno da un lato e uno dall’altro, andandogli a urtare contro i fianchi. Di proposito, gli suggerà una vocina nella mente.
Quei due mostriciattoli si erano strusciati di proposito contro la sua cintura.
L’uomo li guardò per un attimo. Stavano davanti a lui di almeno cinque passi, e avevano rallentato. Con le loro facce da furbetti, lo stavano fissando quasi intendessero sfidarlo.
Fremin portò le mani alla scarsella e, ritrovandosi a stringere il vuoto, sobbalzò.
– Piccoli farabutti! – esclamò. – Rendetemi subito la mia borsa!
Ma i bambini, a quel punto, ripresero a correre.
Ingoiando una maledizione per risparmiare il fiato, il grassone si lanciò all’inseguimento col suo goffo incedere. Di norma non avrebbe avuto speranze. Per qualche oscura ragione, però, la coppia di diavoletti rallentava di tanto in tanto per accertarsi che il poveretto guadagnasse terreno.
Un sadico scherzo, presagà la Galea. Quei due si stavano divertendo un mondo a guardarlo arrancare e avrebbero smesso soltanto quando l’avrebbero visto stramazzare a terra, come un bue sfinito.
Però Fremin non demordeva.
C’erano pur sempre gli sbirri, diceva tra sé. Se solo ne avesse scorto uno far capolino tra i passanti, gli sarebbe bastato chiedere aiuto e…
Ma ecco i ladruncoli svoltare all’improvviso dietro la facciata gotica di Saint-Séverin! Pezzi d’asini! Assolutamente certo che si fossero infilati in un vicolo cieco, l’uomo trascinò la sua mole di pachiderma in quella direzione, ritrovandosi nel cortile di alberi da frutto retrostante la chiesa.
– Ah! – ansimò trionfante. – Ora vi acciuffo e, per santa Genoveffa, ve ne darò cosà tante che…
Ammutolà all’istante.
I giovani tagliaborse si erano fermati sotto un pero, con la scarsella rubata tra le mani del piú alto. A fargli da esca.
Mentre alle sue spalle, a sbarrargli l’unica via di fuga, erano appena spuntate dal nulla due persone. Un uomo dalle vesti corvine e una giovane donna dai capelli color vinaccia.
– Ebbene, – fece l’uomo in nero, rivolto alla ragazza, – sarebbe questo l’informatore di Dambourg?
Lei si strinse nelle spalle.
– Non ne ho idea, – rispose, sguainando la sua daga dalla lama ricurva. – Non l’ho mai visto prima d’ora.
Rive droite.
– Michault Culo d’Oca! Michault Culo d’Oca! – ridacchiavano i ragazzini al suo passaggio.
Michault du Four, sergente veterano dello Châtelet, continuava procedere al trotto fingendo di non udirli. Non che gli sberleffi di quei piccoli sorci lo lasciassero indifferente. Far capire di essere stato toccato dalle loro parole, però, l’avrebbe reso ancora piú ridicolo. Specie ai suoi commilitoni, che in quel momento procedevano insieme a lui lungo rue de Saint-Martin. Michault sapeva benissimo che i piú arretrati del gruppo stavano additando il suo posteriore, incitando il popolino a canzonarlo. E lui era costretto a mandar giú, consapevole d’avere un sedere spropositatamente grosso, una sorta di cuscino, specie quando montava in sella. «Un culo da femmina», diceva suo padre con sprezzo, quand’era ancora al mondo. O d’oca, a parere dei piú spiritosi.
Ma non si lamentava troppo, Michault, dal momento che era stato proprio per merito del suo culo se era diventato uno degli armigeri piú celebri di Parigi. Perciò continuò a dar di sprone fino alla piazzola davanti all’antico priorato di Saint-Martin-des-Champs.
La corte dell’edificio, una collegiata imponente quanto un castello, si collegava alla strada mediante una cinta di mura munita di portone, sotto il cui arco si era radunato un capannello di gente intenta a borbottare con animosità .
– Ebbene? – starnazzò du Four, fermando il cavallo davanti alla folla. – Dov’è il sobillatore?
– Quale sobillatore? – fece uno dei popolani.
Michault si consultò con uno dei suoi compagni, che aveva ancora un sorriso di scherno disegnato sul volto, infine tornò a fissare l’uomo di strada. – Un arruffapopoli, – spiegò. – Ci è stato riferito che ce n’era uno proprio qui, nemmeno un’ora fa. Ha rubato la scena a un banditore di sua maestà e sputato calunnie sui magistrati di Parigi. È andata cos�
– Potete scommetterci! – ridacchiò una vecchia megera ai lati del capannello. – Ma non ce l’aveva coi magistrati, signore mio.
– Con chi? – si meravigliò il sergente.
– Col prevosto.
Michault spostò l’ingombrante sedere sulla sella. – Siete sicura?
– SÃ, sÃ, – replicò un altro, un ciabattino con gli occhi incastonati fra nere occhiaie. – Ce l’aveva proprio con sua grazia Jacques de Villiers! Ha sentenziato che è un ladro. Un imbroglione.
– Infame! – berciò du Four, mentre voltava il destriero per guardarsi intorno. – E dove se la sarebbe filata, lo schifoso?
A quel punto tutti si zittirono.
– Allora? – insistette il sergente, minaccioso. – Volete che vi faccia trascinare dall’Orefice dei Legni? – e si voltò verso un commilitone. – Evrard, prendete quella faccia da gufo! – ordinò, mentre indicava l’ultimo che aveva parlato.
– No, per sant’Elena! – implorò il malcapitato. – Non ce ne sarà bisogno, io sono un suddito fedele…
– Prendetelo! – rimarcò Michault Culo d’Oca.
– È andato di là … – squittà allora il ciabattino, già attorniato dagli armigeri.
Du Four seguà i movimenti delle sue mani, intente a indicare una via diretta a Les Halles. – Sapreste anche descriverlo? – soggiunse.
– Un pellegrino, – fece l’uomo, tremebondo. – Un comunissimo pellegrino, con una conchiglia di san Giacomo appuntata sul mantello.
– Nient’altro? – volle sincerarsi il sergente.
– Era cieco, – intervenne a quel punto la megera. – Cieco come una talpa. E accompagnava i suoi passi con un bordone.
– Non l’avevate mai visto prima d’ora? – ripeté Villon, in preda allo sconcerto.
Joséphine accennò un diniego facendo oscillare la lama della daga. – Conoscevo soltanto il suo nome, – rivelò, – oltre alla sua professione, naturalmente.
– Nöel Fremin, – ricapitolò il poeta. – Notarius della Tesoreria generale des guerres, – e dopo aver squadrato l’interessato, che se ne stava impalato a fissarli sotto gli alberi del cortile, sfiorò una spalla dalla ragazza. – Dambourg non vi ha davvero raccontato altro?
– Dambourg? – trasalà Fremin la Galea. – Alludete a Nicolas Dambourg?
– Oh! – celiò Villon. – Il bietolone ha il dono della favella!
– È stato Dambourg a mandarvi? – insistette il malcapitato.
– Il suo fantasma, – rispose Joséphine.
Gli occhi di Fremin caddero sulla daga.
– Bambina mia, – sospirò Villon, – rinfoderate la lama prima che costui se la faccia sotto.
– Io non ho nulla a che fare con Dambourg… – si schermà Fremin, tremebondo.
– Come no, come no, – gli si avvicinò il poeta, prendendogli le guance tra le dita. – E con Villiers, Bruneau e Raguier?
Al sentir pronunciare quei nomi, l’uomo divenne ancor piú pallido di quanto già non lo fosse. – Come potete essere a conoscenza dei…
– Dei crimini di guerra? – insinuò Villon. – O meglio, dei crimini compiuti da quei tre farabutti alle spalle dei veterani? Sappiamo tutto, mio florido Nöel, e siamo pronti a fare giustizia.
Un lampo di stupore attraversò il volto di Fremin. – Giustizia? – snocciolò. – Ne parlate come se fosse un gioco da bambini…
– Quanta sottigliezza per chi sottile non lo è affatto! – rise il poeta. – Raccontateci piuttosto come diventaste l’informatore di Dambourg, e sforzatevi d’essere chiaro. Perché, a meno che non abbia perso il lume della ragione, qualcosa non quaglia. Con quel tamburo che vi ritrovate al posto della pancia, non avete affatto l’aria del Coquillard.
– Non lo sono mai stato, in effetti.
– Però conoscete i fuorilegge della Conchiglia, nevvero?
Fremin si ritrasse. – Io… Io non…
– Joséphine! – esclamò Villon. – La daga!
– E va bene! – si decise la Galea. – Dambourg mi salvò la vita!
– Cosà va meglio, – lo assecondò il poeta. – E come capitò? Vi tirò fuori da una botte di mostarda?
Fremin si guardò intorno, quasi cercasse soccorsi tra gli alberi da frutto, ma trovò soltanto i due bambini che l’avevano borseggiato. Tornò quindi a rivolgersi a Freccia Ardita e a Villon. – Anni fa, mentre stavo viaggiando con alcuni compagni per le selve di Borgogna, fui assalito dai Coquillards e spogliato di ogni bene, – disse. – Quei banditi mi avrebbero di sicuro passato a fil di spada, se un uomo sbucato dalla boscaglia non avesse ordinato loro di risparmiarmi, – e si passò una mano sulla faccia.
Leggendo nei suoi gesti una vaga intenzione di temporeggiare, Villon raccolse da terra un rametto e glielo puntò contro il ventre prominente. – Ebbene?
– All’epoca non conoscevo Nicolas Dambourg, – confessò Fremin. – O meglio, avevo udito molte canzoni sul Lupo, il re dei Coquillards, però non immaginavo che quel fuorilegge fosse d’indole tanto nobile. E quando poi mi resi conto che era addirittura cieco, ma capace di vedere dentro…
Joséphine parve addolcirsi. – Intendete dentro i cuori delle persone?
L’uomo annuÃ. Ora il pallore del suo volto andava svanendo, lasciando trapelare il colorito roseo delle guance e un guizzo di curiosità negli occhi, che si posarono con rinnovato interesse sul poeta e sulla ragazza. – Voi eravate… suoi amici?
– Figli in spiritu, – precisò Villon.
– Eredi del suo retaggio, – soggiunse Joséphine.
Fremin li fissò con incredulità . – Il suo retaggio… – ruminò, mentre si appoggiava al tronco di un pero come un natante in procinto di arenarsi.
– Non vi chiediamo di esporvi ad alcun rischio, – sottolineò Villon, sforzandosi di apparire amichevole. – Ci interessano soltanto le informazioni che a suo tempo deste a Dambourg. Informazioni che ci sarebbero utili per… Come dire…
La Galea abbozzò un sorriso amaro. – Mettere in scacco sua grazia Jacques de Villiers, suppongo.
– Paffutello ma arguto! – commentò il poeta.
– Credete che Dambourg non ne abbia fatto cenno? – seguitò Fremin con tono gravoso. – Dopo avermi salvato la vita, egli mi confessò che l’assalto dei predoni non era stato un caso. Essendogli giunta voce che un notarius della Tesoreria regia era in transito per la Borgogna, aveva sguinzagliato i suoi Coquillards di proposito, con l’ordine di trovarmi. Cercava qualcuno che gli desse manforte, capite? Qualcuno disposto ad aiutarlo a punire un vergognoso reato ricaduto sui veterani di guerra congedati senza paga.
Villon scambiò un’occhiata d’intesa con Joséphine. – Alludete agl...