1. Il metodo.
Nonostante alcuni pregiudizi sui quali dovremo presto ritornare, è certo che, quando produco in me l’immagine di Pierre, è Pierre l’oggetto della mia coscienza attuale. Finché questa mia coscienza rimarrà inalterata, potrò descrivere l’oggetto come mi appare in immagine, ma non l’immagine in quanto tale. Per definire i caratteri propri dell’immagine come immagine, bisogna ricorrere a un nuovo atto di coscienza: bisogna riflettere. Cosí, l’immagine come immagine può essere descritta solo con un atto di secondo grado, con cui lo sguardo si distoglie dall’oggetto per indirizzarsi sul modo in cui quest’oggetto è dato. È quest’atto riflessivo a consentire il giudizio “ho un’immagine”.
A questo proposito è necessario ripetere quello che sappiamo da Descartes in poi: una coscienza riflessiva ci fornisce dei dati assolutamente certi. L’uomo che in un atto di riflessione è consapevole di “avere un’immagine” non si può ingannare. Ci furono senza dubbio degli psicologi che affermarono che al limite non potremmo distinguere un’immagine intensa da una percezione debole. Titchener invoca perfino certi esperimenti a conferma di questa tesi. Ma vedremo in seguito che queste affermazioni si basano su un errore. Infatti, la confusione è impossibile: ciò che per convenzione è stato chiamato “immagine” si dà immediatamente come tale alla riflessione. Ma in questo caso non si tratta di una rivelazione metafisica e ineffabile. Le coscienze di questo genere si distinguono immediatamente da tutte le altre, perché si presentano alla riflessione con certi tratti, con certe caratteristiche, che determinano subito il giudizio “ho un’immagine”. L’atto di riflessione ha dunque un contenuto immediatamente certo, che chiameremo l’essenza dell’immagine. Questa essenza è la stessa per tutti gli uomini. Il primo compito dello psicologo consiste nel definirla, nel descriverla e nel fissarla.
Allora ci potremo chiedere da dove nasca l’estrema diversità delle dottrine. Se solo facessero un minimo riferimento a questo sapere immediato, gli psicologi si troverebbero d’accordo. Noi rispondiamo dicendo che la maggior parte degli psicologi anzitutto non fa riferimento a esso. Lascia questo sapere allo stato implicito e preferisce costruire ipotesi che riguardano la natura dell’immagine1. Come tutte le ipotesi scientifiche, queste possiederanno solo un certo grado di probabilità. Invece i dati della riflessione sono certi.
Ogni nuovo studio dedicato alle immagini deve dunque cominciare con una distinzione radicale. Una cosa è la descrizione dell’immagine, un’altra sono le induzioni relative alla sua natura. Passando dall’una alle altre, si va dal certo al probabile. Primo dovere dello psicologo è evidentemente quello di fissare in concetti il sapere immediato e certo.
Noi lasceremo da parte le teorie. Dell’immagine vogliamo sapere solo ciò che ci insegnerà la riflessione. In seguito, come gli altri psicologi, cercheremo di classificare la coscienza d’immagine tra gli altri tipi di coscienza, di trovarle una “famiglia”, e faremo delle ipotesi sulla sua natura intima. Per il momento vogliamo soltanto tentare una “fenomenologia” dell’immagine. Il metodo è semplice: produrre in noi delle immagini, riflettere su di esse, descriverle, cioè provare a definire e a classificare i loro caratteri distintivi.
2. Prima caratteristica: l’immagine è una forma di coscienza.
Appena cominciamo a riflettere, ci accorgiamo di avere finora commesso un doppio errore. Senza neppure rendercene conto, pensavamo che l’immagine fosse nella coscienza e che l’oggetto dell’immagine fosse nell’immagine. Ci raffiguravamo la coscienza come un luogo popolato da piccoli simulacri e questi simulacri erano le immagini. Senza alcun dubbio, l’origine di questa illusione va cercata nella nostra abitudine a pensare nello spazio e in termini di spazio. La chiameremo illusione d’immanenza. La sua espressione piú chiara si trova in Hume.
Hume ha distinto le impressioni e le idee:
Le percezioni che si presentano con maggior forza e violenza, possiamo chiamarle impressioni […]. Per idee, invece, intendo le immagini illanguidite delle impressioni, sia nel pensare che nel ragionare […]2.
Queste idee sono ciò che noi chiamiamo immagini. Ora, Hume aggiunge alcune pagine dopo:
Ma formarsi l’idea di un oggetto e formarsi un’idea è semplicemente la stessa cosa, poiché il riferimento dell’idea all’oggetto è per una denominazione estrinseca, della quale non porta in sé nessun segno o carattere. Ora, poiché è impossibile formarsi l’idea di un oggetto, che, pur possedendo quantità e qualità, tuttavia non le possegga in nessun grado preciso, ne segue che c’è un’uguale impossibilità di formare un’idea che non sia limitata e circoscritta per ciascuno di questi due aspetti3.
Cosí, la mia idea attuale di sedia è solo esteriormente in relazione con una sedia esistente. La sedia che ho percepito un momento fa non è la sedia del mondo esterno, non è quella sedia di legno e di paglia che permetterà di distinguere la mia idea dalle idee di tavola o di calamaio. Eppure la mia idea attuale è un’idea di sedia. E questo può solo significare che per Hume l’idea di sedia e la sedia in idea sono una sola e medesima cosa. Avere un’idea di sedia significa avere una sedia nella coscienza. Lo prova il fatto che quello che vale per l’oggetto vale per l’idea. Se l’oggetto deve avere una quantità e una qualità determinate, anche l’idea deve possedere quelle determinazioni.
La maggior parte degli psicologi e dei filosofi ha adottato questo punto di vista, che è anche quello del senso comune. Quando dico “ho un’immagine” di Pierre, loro pensano che in questo momento io abbia nella mia coscienza un certo ritratto di Pierre. Oggetto della mia coscienza attuale sarebbe proprio quel ritratto e Pierre, l’uomo in carne e ossa, sarebbe colto solo in modo molto indiretto, in modo “estrinseco”, per il solo fatto di essere raffigurato dal ritratto. Analogamente, in una mostra di quadri posso contemplare a lungo un ritratto di per sé, senza vedere che sotto il quadro c’è scritto “Ritratto di Pierre Z…”. In altre parole, un’immagine è implicitamente assimilata all’oggetto materiale da essa rappresentato.
Può stupire che non si sia mai avvertita la radicale eterogeneità della coscienza e dell’immagine cosí concepita. Senza dubbio perché l’illusione di immanenza è sempre rimasta allo stato implicito. Altrimenti si sarebbe capito che era impossibile far scivolare quei ritratti materiali in una struttura sintetica cosciente senza distruggerla, tagliare i contatti, arrestare la corrente, rompere la continuità. La coscienza smetterebbe di essere trasparente di per sé, ovunque la sua unità sarebbe frantumata da schermi opachi, inassimilabili. Invano lavori come quelli di Spaier, di Bühler, di Flach hanno sciolto la nozione stessa d’immagine, mostrandola viva, compenetrata dall’affettività e dal sapere. L’immagine, pur passando al rango di organismo, resta comunque un prodotto inassimilabile per la coscienza. Per questa ragione certi spiriti logici come François Moutier4 hanno creduto di dover negare l’esistenza delle immagini mentali per salvare l’integrità della sintesi psichica. Questa soluzione radicale è contraddetta dai dati dell’introspezione. Quando voglio, io posso pensare in immagine un cavallo, un albero, una casa. E tuttavia, se accettiamo l’illusione d’immanenza, siamo necessariamente portati a costituire il mondo dello spirito con oggetti del tutto simili a quelli del mondo esterno, e che obbedirebbero semplicemente ad altre leggi.
Lasciamo da parte queste teorie e, per liberarci dall’illusione d’immanenza, vediamo che cosa ci insegna la riflessione.
Nel momento in cui percepisco una sedia, sarebbe assurdo affermare che la sedia è nella mia percezione. Secondo la terminologia da noi adottata, la mia percezione è una certa coscienza e la sedia è l’oggetto di questa coscienza. Adesso chiudo gli occhi e produco l’immagine della sedia che ho appena percepito. La sedia, dandosi ora in immagine, non potrebbe certamente entrare nella coscienza piú di quanto facesse prima. Un’immagine di sedia non è e non può essere una sedia. In realtà la sedia di paglia sulla quale sto seduto rimane sempre al di fuori della mia coscienza, sia che la percepisca sia che la immagini. In entrambi i casi è qui, nello spazio, in questa stanza, di fronte alla scrivania. Ora, sia che percepisca sia che immagini questa sedia, la riflessione ci insegna prima di tutto che l’oggetto della mia percezione e quello della mia immagine sono identici: si tratta sempre della sedia di paglia sulla quale sono seduto. Semplicemente, la coscienza è in rapporto con questa stessa sedia in due modi diversi. In entrambi i casi mira alla sedia nella sua individualità concreta, nella sua corporeità. Solo che in uno dei due casi la sedia è “incontrata” dalla coscienza, nell’altro non lo è. Ma la sedia non è nella coscienza e neppure in immagine. Non si tratta di un simulacro di sedia che d’un tratto sarebbe penetrato nella coscienza e che avrebbe solamente un rapporto “estrinseco” con la sedia esistente. Ma si tratta di un certo tipo di coscienza, cioè di un’organizzazione sintetica che è direttamente in rapporto con la sedia esistente e la cui intima essenza consiste appunto nell’essere in rapporto, in questo e in quel modo, con la sedia esistente.
E che cos’è l’immagine, esattamente? Evidentemente non è la sedia: in genere l’oggetto dell’immagine non è a sua volta un’immagine. Diremo che l’immagine è l’organizzazione sintetica totale, che è la coscienza? Ma questa coscienza è una natura attuale e concreta, che esiste in sé, per sé, e che potrà sempre offrirsi alla riflessione senza mediazioni. Quindi la parola “immagine” può designare soltanto il rapporto tra la coscienza e l’oggetto. In altre parole, è un certo modo con cui l’oggetto appare alla coscienza o, se si preferisce, un certo modo con cui la coscienza si dà un oggetto. A dire il vero, l’espressione “immagine mentale” si presta a equivoci. Sarebbe meglio dire “coscienza di Pierre-in-immagine” o “coscienza immaginativa di Pierre”. Siccome il termine “immagine” è impiegato da lungo tempo, non possiamo rifiutarlo del tutto. Ma, per evitare ogni ambiguità, qui ricordiamo che un’immagine non è nient’altro che un rapporto. La coscienza immaginativa che ho di Pierre non è coscienza dell’immagine di Pierre. Pierre è colto direttamente, la mia attenzione non è diretta su un’immagine, ma su un oggetto5.
Cosí, nella trama degli atti sintetici della coscienza appaiono di quando in quando alcune strutture che chiameremo coscienze immaginative. Esse nascono, si sviluppano e spariscono secondo leggi proprie che tenteremo di definire. E sarebbe un grave errore confondere questa vita della coscienza immaginativa, che dura, si organizza e si scompone, con quella dell’oggetto di questa coscienza, il quale, durante questo tempo, può benissimo restare invariato.
3. Seconda caratteristica: il fenomeno di quasi-osservazione.
Quando abbiamo incominciato questo studio pensavamo che avremmo avuto a che fare con immagini, cioè con elementi di coscienza. Ora vediamo che abbiamo a che fare con coscienze complete, cioè con strutture complesse che “intenzionano” certi oggetti. Vediamo se la riflessione può insegnarci qualcosa di piú su queste coscienze. La cosa piú semplice sarà di delineare l’immagine in rapporto al concetto e alla percezione. Percepire, concepire, immaginare: questi sono infatti i tre tipi di coscienza con i quali ci può essere dato un medesimo oggetto.
Nella percezione io osservo gli oggetti. Dobbiamo intendere con ciò che l’oggetto, pur entrando completamente nella mia percezione, mi è dato soltanto un lato per volta. È noto l’esempio del cubo: non posso sapere che cos’è un cubo finché non ne ho osservato le sei facce. A rigore posso vederne tre a un tempo, ma mai di piú. Quindi le devo cogliere in istanti successivi. E quando passo, per esempio, dall’apprensione delle facce ABC a quella delle facce BCD, rimane sempre possibile che durante il mio cambiamento di posizione la faccia A si annulli. L’esistenza del cubo rimarrà quindi dubbia. Al contempo, dobbiamo notare che quando vedo tre facce del cubo contemporaneamente, queste tre facce non mi si presentano mai come dei quadrati: le loro linee si appiattiscono, i loro angoli divengono ottusi, e devo ricostruire la loro natura di quadrati partendo dalle apparenze che percepisco. Cose già dette cento volte: la peculiarità della percezione è che l’oggetto appare sempre e solo in una serie di profili, di proiezioni. Il cubo mi è ben presente, posso toccarlo, vederlo, ma posso vederlo soltanto in un certo modo, che richiede ed esclude contemporaneamente un’infinità di altri punti di vista. Dobbiamo apprendere gli oggetti, cioè moltiplicare su di essi i possibili punti di vista. L’oggetto stesso è la sintesi di tutte queste apparizioni. La percezione di un oggetto è dunque un fenomeno con un’infinità di aspetti. Questo che cosa significa per noi? La necessità di fare il giro degli oggetti, di attendere che “lo zucchero si sciolga”, come dice Bergson.
Quando invece penso al cubo mediante un concetto concreto6, penso allo stesso tempo le sue sei facce e i suoi otto angoli, penso che i suoi angoli sono retti, le sue facce quadrate. Sono al centro della mia idea, la afferro subito e interamente. Naturalmente ciò non significa che la mia idea non abbia bisogno di completarsi attraverso un progresso infinito. Ma posso pensare le essenze concrete in un solo atto di coscienza: non devo ristabilire delle apparenze, non devo apprendere nulla. Senza dubbio è questa la differenza piú netta fra pensiero e percezione. Ecco perché non potremo mai ...