Una mano le strinse il braccio appena sotto l’ascella.
– Siamo arrivati.
Era Francesca, parlava a voce bassa. Lucia si riscosse dal sonno, guardò l’orologio della macchina. Ci avevano messo parecchio, ricordava viaggi brevi verso la collina, la pianura e poche salite.
Le girava la testa, sentiva un formicolio ai piedi. Fu contenta di uscire e sgranchirsi le gambe. L’aria era fresca, cadeva una pioggia sottile. I bambini dormivano.
– Li abbandoniamo qui? – disse Francesca.
Scherzava. Lucia rise con sforzo, come sempre quando qualcuno faceva battute del genere sui figli.
– Scusami se non posso parcheggiare proprio davanti all’ingresso, – proseguà Francesca. – Un paio di settimane fa è caduto un albero e non l’abbiamo ancora tolto. Scarico la macchina, tu rimani a fare la guardia.
– Non possiamo portare prima loro?
Ci sarebbero voluti tre adulti. Non era possibile portarne in casa due e lasciarne uno in macchina. Bisognava occuparsi di un bambino alla volta, mentre una mamma restava fuori a curare gli altri. Pareva quell’indovinello: ci sono un lupo, una pecora e un cavolo che devono andare dall’altra parte del fiume.
– Scarico la roba. Ci metto un attimo, promesso. Stai qui con loro.
Francesca prese dal bagagliaio due grandi contenitori di plastica. Sembravano pesanti, ma li maneggiava come fossero vuoti. S’incamminò per una salita tenue, un vialetto di piccole pietre che facevano un rumore di umido.
Ai margini c’erano dei lampioncini, se ne vedeva uno fioco all’inizio, abbastanza vicino alla macchina, e quello subito dopo, spento, e di certo ce n’erano altri poi, forse le lampadine dentro erano bruciate. In lontananza, una luce di sicurezza illuminava delle scale e un portone.
«La villa», pensò Lucia.
Era un luogo addomesticato solo in parte.
Tornò in macchina e chiuse la portiera. I capelli erano un po’ bagnati per la pioggia. Martina, la figlia di Francesca, dormiva composta nella posizione che aveva tenuto sin dall’inizio del viaggio, come se le avessero insegnato ad appisolarsi nel modo migliore possibile e lei facesse sempre e solo cosÃ. I figli di Lucia apparivano piú irrequieti. Elena era piegata nella direzione opposta rispetto a dove stava Martina. Ogni parte del suo corpo esprimeva il desiderio di non avvicinarsi troppo alla compagna. Di sicuro era scomoda, se si fosse svegliata avrebbe protestato per il fastidio. Paolo teneva la testa appoggiata a quella della sorella e le dava la mano come durante una passeggiata. Aveva un’espressione soddisfatta, ma i piccoli movimenti del viso e degli arti tradivano un sonno agitato.
Lucia avvertà qualcosa, uno scatto e un cambio di scenario: d’improvviso si vedeva tutto meglio. La facciata era di colore giallo; la luce che veniva dalle finestre del pianterreno era calda, e questo già bastava per sentirsi piú tranquilli. In pochi minuti Francesca era di nuovo alla macchina.
– Porto su le borse dei vestiti.
– Le porto io.
– Stai qui, non voglio strapparti ai tuoi bambini. Sei ospite.
Francesca prese le ultime cose dal bagagliaio. Tornò una terza volta per sua figlia, e una quarta per aiutare a trasportare gli altri due. Lucia prese in braccio Paolo, che avrebbe potuto svegliarsi sentendo il corpo di un’estranea e aveva piú bisogno della madre perché era piú piccolo. Francesca sollevò Elena, che pesava molti chili ormai; la raccolse come niente. Era una donna forte, nonostante l’apparenza delicata.
Il vialetto con i lampioni spenti era affiancato da sempreverdi, si sentiva un odore di resina, e finiva in un piazzale davanti alla casa, un edificio di tre piani, grande ma non monumentale. Vi si accedeva tramite una scalinata, alla base della quale si ergevano due statue alte un metro. Astratte, bianche, tutte anse e rigonfiamenti, senza neppure uno spigolo. Avevano un piccolo buco nel mezzo. Lucia rifletté un attimo e concluse che non potevano essere figure femminili, come le veniva spontaneo immaginare, non poteva essere cosà semplice. Ogni tanto le capitava di vedere genitali dove non ce n’erano. Una cosa che la faceva ridere e che teneva per sé. Forse succedeva perché aveva una «mente perversa», si ricordò di queste parole che le aveva detto anni prima un ragazzo, ai tempi dell’adolescenza. Stava già con Pietro, ma era andata a una festa senza di lui, quel ragazzo le dava un passaggio in macchina. A un certo punto le aveva chiesto di parlare di una cosa seria. Aveva parcheggiato in una zona riparata, su una stradina. Le aveva detto:
«Tu hai una mente perversa».
Poi l’aveva baciata, senza chiederglielo.
La villa aveva un portone di legno chiaro. Dietro c’era una bussola con una seconda porta, a vetri. Francesca abbassò la maniglia col gomito e spinse facendo molto rumore.
– Cosà adesso lo sa tutta la collina che siamo qui, – imprecò.
Con Paolo in braccio era difficile guardarsi intorno, ma Lucia vide quanto bastava. Nell’ingresso c’erano uno specchio molto grande, con la cornice dorata e liscia, senza stucchi, e una poltroncina di velluto color salvia. Le pareti erano ricoperte di una carta da parati verde scuro; in un angolo su un tavolino rotondo c’erano un lume a forma di fiore e un vaso di alabastro. Il parquet scricchiolava.
– Le camere da letto sono su, – disse Francesca. – Domani mattina apriamo tutte le finestre. C’è una puzza.
Salendo le scale, in effetti, l’aria sapeva di chiuso. Di cera per i pavimenti, di legno, di polvere, di umidità . Non era cattiva, però. Come l’odore di un museo.
Il corridoio del primo piano aveva alle pareti una serie di quadri molto simili, facce antiche e pallide che emergevano da sfondi quasi neri.
– Sembra un film, – disse Lucia, ansimando per la fatica.
– Li hanno comprati i miei genitori a Londra, all’asta. Qualche casa inglese svuotata. Li hanno pagati niente, fanno scena.
Sbuffò, poi aggiunse:
– Mi piace, qui. Come casa da weekend è perfetta. Certo, se fosse mia sul serio la cambierei tutta. Ma mio padre non mi lascia.
Lucia le disse che capiva il suo desiderio di modificare alcune cose. In verità non lo capiva affatto. Le sarebbe piaciuto avere una casa proprio come quella, senza cambiare niente. Pietro non sarebbe stato d’accordo con lei. Non amava la collina, né gli oggetti di antiquariato. Preferiva scappare al mare, sentire il profumo della salsedine. Lui era per i mobili nuovi, la pulizia, gli ambienti salubri, il bianco come colore dominante. Diceva «Mai fidarsi della polvere».
L’ultima stanza in fondo al corridoio era quella dei bambini. Francesca le fece strada. Era grande, aveva un lampadario con figure stilizzate rosa e gialle. Lucia inciampò e quasi cadde per colpa di una casa di bambole tutta arredata, alcuni piccoli mobili si rovesciarono in terra. Fece piú attenzione, superò un trenino elettrico con una montagna e un tunnel, scatole piene di mattoncini, due cavalletti per dipingere. Le pareti erano decorate con stencil di alberi, fiori e animali del bosco. I due letti a castello sembravano casette delle fiabe.
Martina dormiva su uno dei materassi in alto, proseguiva il suo sonno ordinato.
– Mettiamo i miei sotto, – disse Lucia. – Non sono abituati ai letti a castello.
Nessuno si svegliò, mentre li sistemavano erano come incantati.
– Ora ti mostro la tua stanza, – disse Francesca.
– Preferisco dormire con loro. Mi metto nel lettino libero in alto.
– Sei magrissima, però non so se va bene per gli adulti.
Lucia considerò la frase «Sei magrissima», la menzogna che conteneva.
– Metto un materasso per terra, o qualcos’altro, – disse. – Posso? Non sono mai stati in questa casa. Se si svegliano si spaventano.
– Ti mostro la tua stanza, fidati. Poi decidi.
Lucia diede un ultimo sguardo ai figli, avvertendo il distacco che incombeva, era come se qualcuno la eviscerasse, ma con dolcezza. Francesca spalancò la porta sull’altro lato del corridoio.
– Da qui controlli tutto: se si svegliano li senti, se apri la porta li vedi. Ho anche una stanza piú grande, ma forse preferisci questa per la posizione.
Lucia notò che riusciva a scorgere la testa di Paolo, i suoi capelli illuminati dalla luce azzurra di una lampada notturna.
– Va bene.
C’erano un letto matrimoniale con un copriletto di pizzo, un armadio di legno, un tappeto persiano molto fitto.
– Qui c’è il panorama migliore, – disse Francesca, aprendo la finestra. – Adesso è buio, ma vedrai. La tua borsa l’ho messa ai piedi del letto. Per qualsiasi problema telefonami, tengo acceso. Oppure sali le scale, io dormo al piano di sopra, mi trovi.
– Grazie.
– Ah, e domani ci rileggiamo La maschera della morte rossa.
Rideva appena, una specie di smorfia, come se avesse fatto una battuta scontata.
– Perché mi guardi cos� – le chiese. – Non l’hai mai letto?
– SÃ. A scuola.
Lucia mentiva, o comunque non era sicura, anche se il titolo non le suonava nuovo.
– Se lo hai letto lo sai. Non è una storia che si dimentica. Sono dei nobili che scappano dalla città e si chiudono in un castello per sfuggire a una specie di peste. Come noi che siamo venute in collina per scappare dall’esplosione. Nel racconto finisce male, però.
– Non ricordo come finisce.
– Come fai a non ricordarti? Allora non l’hai letto. Devi leggerlo, è obbligatorio per chi viene qui. Te lo presto.
Francesca sembrava tutto tranne che desiderosa di dormire.
– Ci sono tanti libri. Una piccola biblioteca. Leggiamo, i bambini giocano, la sera li mettiamo a letto e noi ci raccontiamo storie del passato, segreti, fidanzati orribili dell’adolescenza.
Lucia pensò che non aveva fidanzati orribili da raccontare.
– Poi andiamo al minimarket, c’è un minimarket qui vicino, sai? Hanno cose buonissime, cuciniamo. Voglio preparare lo sformato di zucchine. Perché fai quella faccia? Guarda che il minimarket è fantastico.
– Ci credo.
Francesca le sorrise come se avesse assolto un compito. A quel punto era chiaro che non sapevano cos’altro dirsi. Si salutarono con un bacio sulla guancia, era la prima volta che si avvicinavano fisicamente, con un gesto di confidenza, e questo mitigò il senso di estraneità fra loro. Francesca profumava di colonia al tè verde e di crema per il viso molto costosa, Lucia era sensibile alle fragranze e registrò tutto senza stupirsene; era un odore che ci si poteva aspettare sulla pelle di una donna di quel tipo.
– Buonanotte, – si dissero, quasi all’unisono.
Francesca uscÃ. Lucia attese di sentirla salire le scale e solo allora, con la massima cautela, chiuse la porta senza far rumore.
Piú tardi, sotto le lenzuola, respirava con calma l’aria che arrivava da fuori, aveva lasciato la finestra aperta. Era aprile inoltrato, faceva caldo, un caldo eccessivo, per fortuna c’era quella pioggia leggera. Immaginò di vivere là per un po’, sul limitare del bosco, lontana da tutto. Infine si addormentò.
Nel sogno qualcuno bussava forte alla porta, diceva il suo nome a voce alta, come un ordine. Lucia! Lei apriva indossando una camicia azzurra, maschile, e nient’altro, nemmeno le mutande. Si trovava di fronte un uomo con il volto coperto. Non le faceva paura.
Lo conosceva, o meglio nel sogno era convinta di conoscerlo. Le pareva anzi inconfondibile, per via dei movimenti, delle proporzioni del corpo, di quello che faceva. Non tutte le persone fanno le stesse cose allo stesso modo, e questo basta a identificarle.
Lui la baciava senza delicatezza, a tratti la mordeva. Si toccavano a vicenda ovunque. Finivano sul tappe...