Il Preside
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Il Preside

  1. 104 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Preside

Informazioni su questo libro

Una scuola alla periferia romana si trasforma improvvisamente in uno scenario di guerra. Fuori: l'elicottero, le forze dell'ordine, i giornalisti. Dentro: due ostaggi, un fucile, e un uomo solo. È il preside. Ma come è arrivato a questo punto? Poco alla volta la sua vicenda si rivela: un fulmineo passato da poeta e scrittore, le lunghe uscite a caccia con l'amico di sempre, un grande amore naufragato. A interrogarlo dall'altra parte della barricata è il commissario, un uomo alto e magro dalla voce femminile e l'aria da sacerdote. Piano piano i due intessono un dialogo misterioso, qualcosa che sembra oscillare tra la realtà e il sogno, tra l'ineluttabilità del destino e la vaghezza delle visioni: Perché la scuola, fragile mondo in miniatura, non è soltanto una fabbrica del futuro ma molto di piú: «un tempio sacro in cui avvicinarsi al mistero della vita prima che la maturità cancelli ogni verità».
«Un attimo, quanto dura un attimo? Un battito di ciglia, un'era geologica, un'estate al mare? Il tempo di dire: ecco ci sono, non ci sono piú, e lí in mezzo metterci tutta la vita».Cosa succede quando a tenere in ostaggio una scuola non sono gli studenti in autogestione ma un preside che ci si è barricato dentro? E chi è questo preside? Un folle? Un disperato? Forse. O forse solo un uomo portato a vedere troppo lontano, dove non ci sono piú difese e l'unico imperativo diventa resistere e cedere, imparare a dire basta e a dire ancora, provare a lasciare un'impronta di gioia, perché «per la felicità servono spazi grandi e qualcuno che li sogni con coraggio». Nella tensione dell'assedio, si dipana la storia concreta e metafisica di un antieroe dei nostri tempi: un uomo che non si arrende all'insensatezza della vita e che un attimo prima della fine spera, forse, d'imparare l'ultima lezione.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806245566
eBook ISBN
9788858433904

Il preside

Pregare è stasera
tutto ciò che mi resta da fare.
L’ho terminato, il giorno,
ho vigilato su di esso
e ora posso riposare.
ROBERT WALSER
La citazione in epigrafe è tratta da Robert Walser, Poesie, traduzione di Antonio Rossi, Edizioni Casagrande, Bellinzona 2019.
Schiaffi di luce gialla sulle finestre e il mio nome che sbatte metallico nell’aria, gridato cosí tante volte da sembrare il nome di uno sconosciuto, e poi altri suoni martellanti, ordini, inviti perentori, lo capisco dal tono minaccioso, ma le parole arrivano distorte, gracchiano come corvi e volano via: e di nuovo ceffoni luminosi sui vetri, e nell’aria la giostra assordante di un elicottero. Io starò chiuso qui dentro fino alla fine, questa scuola è la mia isola e sarà il mio sepolcro, tra cento anni porterà su una targa di marmo il nome del poliziotto che mi avrà sparato in testa. Qui sono stato studente, poi insegnante per trent’anni e ora preside, quasi tutta la mia vita si è consumata tra queste mura pensierose e sempre un po’ umide. Conosco ogni spazio, ogni aula, gli sgabuzzini per le scope e i detersivi, le stanze chiuse da sempre, gli avvolgibili crollati, gli scalini sbreccati, i banchi che traballano, le luci del mattino e quelle dei neon, il frastuono delle ricreazioni e il silenzio della sera. Prima hanno provato a stanarmi con la persuasione, frasi morbide, comprensive, quelle che si rivolgono a un vecchio uscito di testa, zucchero e miele. Fino a poco fa arrivavano piú insinuanti, quelle parole, strisciando come serpenti tra i sibili del megafono. Lei è un uomo originale, dicevano, le piace scherzare, ed è un uomo intelligente che capisce quando lo scherzo è finito, posi il fucile e lasci uscire i suoi ospiti: cosí li hanno chiamati, ospiti. E dicevano anche: lei ha un grande senso della responsabilità, sa cos’è giusto e cosa è ingiusto, ha sempre diretto la sua scuola con saggezza, non si metta nei guai per un attimo di insofferenza, tutti attraversiamo questi momenti, è normale, è addirittura necessario, sono passaggi che servono per metterci alla prova, per farci capire meglio cos’è la vita, cosa siamo noi, e come possiamo risolvere il problema o almeno arrotondare qualche spigolo, ne ho vissuti tanti anch’io, mi creda. La voce era pacata, profonda, subdola, come quella di un padre che racconta una favola solo per addormentare il bambino agitato, che la inventa frase dopo frase, allungando le pause e dondolando le parole.
Immaginavo il viso grassoccio del commissario, la testa tonda e calva con quattro ciuffi grigi attorno alle orecchie, la cinta stretta sotto la pancia, le dita tozze, gli occhi furbi di chi è cresciuto in campagna: lo vedevo con il culo grasso appoggiato al cofano della macchina, il megafono piegato sulla bocca, già stanco di questa vicenda assurda. La smetta, preside, non si carichi addosso guai ancora piú grandi, non trasformi una sciocchezza in una brutta storia, coraggio, lasci uscire le persone che stanno con lei ed esca anche lei, subito, adesso. Io mi sono messo dietro i vetri di una finestra, in modo che potessero vedermi tutti quanti, il commissario e la gente che si è radunata oltre le macchine della polizia e i furgoni delle televisioni, e ancora oltre, nelle piazze, nelle strade, nelle case, davanti agli schermi e a un piatto di minestra, davanti al niente, ai figli, alle illusioni, alle paure, e ho alzato il mio vecchio fucile da caccia, perché lo vedessero bene. Mi sono sentito come un antico capo indiano, pieno di rughe e di orgoglio. Per un mese ogni giorno ho comprato catene dai ferramenta del mio quartiere e poi da quelli piú lontani, dove nessuno sa chi sono, una catena al giorno, metallo avvolto da plastiche rosse o azzurre, o solo acciaio lucido, e lucchetti grossi come pugni. Ho ammucchiato tutto sul tappeto del salotto, sembravano boa e pitoni intrecciati in un letargo, sembravano contorcersi come pensieri, pronti a stritolare le costole del mondo. Due o tre alla volta ho portato le catene a scuola nella mia vecchia borsa di cuoio, le ho ammassate tutte nell’armadietto dove ingialliscono le comunicazioni del ministero, carta straccia che non leggo mai. Una minuscola chiave e una povera serratura proteggevano la mia ribellione. Tre giorni fa ho portato anche il fucile, una doppietta con una cartuccia sola: l’altra l’ho sparata nel cielo del monte Artemisio piú di dieci anni fa, ricordo che il contraccolpo mi fece male alla spalla. Con Eugenio, l’unico amico vero, abbiamo passeggiato per quei boschi di castagni per tante, troppe domeniche. Partivamo prima dell’alba, Eugenio mi passava a prendere con la sua utilitaria verde, traversavamo la città ancora buia e salivamo verso i colli romani che a poco a poco schiarivano. Non ci dicevamo niente, io e Eugenio, perché già ci siamo detti tutto quando eravamo giovani, traboccanti di parole e di intenzioni, quando sembrava che il mondo fosse qui solo per accoglierci e leccarci le mani. Eugenio voleva fare il pittore, io lo scrittore, eravamo convinti che avremmo stanato l’ultimo mistero dal suo buco, una volpe argentata, un diamante, un lamento spaventato. Eugenio dipingeva tele monocrome d’un rosso cupo, come sangue versato a fiotti e rappreso. Trasfusioni, cosí li chiamava, e anche Croste, è vita che si rovescia fuori di sé, cosí diceva: e alla fine le chiamava Cristi, e la sera andava a messa e faceva la comunione, quasi di nascosto, come si va al bordello. Aveva un piccolo studio a San Lorenzo, nell’ex pastificio di piazza dei Sanniti, un posto occupato da una decina di artisti, tutti giovani e belli, e ognuno era sicuro di creare l’immagine che mancava, come se l’universo intero non fosse ancora completato, mari monti città miliardi di persone, e senza quei quadri nulla avrebbe avuto veramente senso. Due o tre sono diventati famosi, hanno esposto i loro sogni ridicoli nei musei di mezza Europa e anche in America, hanno guadagnato pacchi di soldi, gli altri sono spariti nel nulla, la cosa migliore da fare, ma non so se ne sono consapevoli o se ancora masticano amaro. Eugenio non aveva piú i mezzi per mantenere lo studio e a un certo punto ha dovuto mollare e riportarsi i quadri a casa, due camere al quartiere africano. Li ha appesi alle pareti, uno accanto all’altro, una distesa di sangue verticale, un mattatoio. Poi li ha bruciati tutti in un campo sulla Prenestina, in cinque minuti si sono trasformati in fiamme rosse e fumo nero, uno spettacolo magnifico per chi guardava, io, lui e quattro zingari. Ora ogni tanto disegna a matita il ritratto di sua madre che sorride, nient’altro. E andiamo a caccia insieme, anche se non spariamo mai, ci piace avanzare nel verde, stancarci silenziosamente per quei sentieri in salita. Anche Eugenio è diventato un insegnante, una sconfitta gentile, una mite rassegnazione. In classe non ha mai fatto quasi niente, l’arte non si insegna, dice, come non si insegnano le malattie: ci si ammala e basta, poi si guarisce e si procede nei pensieri, risanati e tristi. Io invece quarant’anni fa ho raccolto una manciata di applausi con il mio primo e unico libro di racconti, Le punte del cerchio, ho persino vinto un paio di premi, opera prima e anche ultima a Procida e a Volterra, pure Eugenio aveva apprezzato quei racconti, lui che era sempre spietato nei giudizi. Ricordo ancora cosa disse: si capisce che della letteratura non ti importa niente, che non ti interessa aggiungere un altro libro allo scaffale infinito della vanità, non sono bei racconti, non sono belli per niente, sono piedi di porco, la porta blindata in fondo al corridoio non si aprirà comunque, ma per lo meno ci hai provato. Non ho piú scritto una riga. Era un uomo asciutto e spigoloso, Eugenio, un fascio stretto di muscoli e intransigenze, la testa piccola come la pietra di una catapulta, poi è ingrassato di trenta chili. Da lui ho imparato tanto, piú che da mio padre, che era pigro e buono per indifferenza: ho imparato che bisogna difendere a ogni costo lo spazio ridotto della propria vita interiore, non far calpestare a nessuno quel metro quadrato di neve bianca, che non è grave fallire ma farsi piccoli e paurosi. Io sono stato a lungo piccolo e pauroso, volevo solo chiudere gli occhi e dimenticare, lasciare che il tempo passasse, ma ascoltavo Eugenio, leggevo i filosofi e mi facevo forza. Una mattina abbiamo incontrato un vecchio cinghiale, là nei boschi del monte Artemisio, un bestione grosso e solo, con il pelo mangiato dalla rogna. Ci stava a dieci metri, meno. Stava fermo e ci fissava con gli occhi rossi e le zanne rotte, sbuffava vapore dalle froge, non si è mosso nemmeno quando Eugenio gli ha puntato contro il fucile, vibrava, era terribile eppure faceva pena, non so perché, forse perché sembrava rassegnato a morire. Bum, ha fatto Eugenio con la bocca, e poi gli è andato vicino, lo ha carezzato sul muso, vattene via, gli ha detto, nasconditi. Il cinghiale si è voltato lentamente e zoppicando è sparito nella macchia. Noi abbiamo camminato nel bosco per altre due ore, sopra ai ricci delle castagne caduti dai rami, nell’aria fredda dell’autunno. Era Gesú, ha detto Eugenio mentre tornavamo alla macchina, l’ha detto come se fosse cosí evidente che non c’era bisogno di aggiungere altro, e io ho capito che nella mente gli era caduta una goccia di follia, e per questo stavo bene con lui, perché mi faceva sentire normale.
Ieri, alla fine delle lezioni, mi sono messo accanto al portone della scuola e ho salutato gli studenti e gli insegnanti, cercando di ricordarmi piú nomi possibili: i ragazzi sono volati via come passeri, quasi senza fare attenzione ai miei cenni di saluto, mentre qualche insegnante mi ha guardato strano. Certe volte mi sembra di poter leggere i pensieri stampati sulle fronti: e ho letto lo stupore, la commiserazione, il disprezzo. Da tanto mi considerano un reperto umano, la testimonianza semivivente di un’epoca morta e sepolta, di cui nessuno può avere veramente nostalgia. Un preside di una scuola periferica che prima insegnava lettere, laureato in greco e latino e ragnatele, è come dare al cieco Omero il volante di un pullman che deve correre veloce sull’autostrada del Sole, questo pensano di me e probabilmente hanno ragione. Ho sempre cercato di essere cortese, di sorridere anche quando non c’era motivo, di offrire il caffè a tutti al bar interno alla scuola, ma lo so che non basta, non bastava nemmeno a me. Questo è l’ultimo anno di lavoro, avrei potuto farlo scivolare via come acqua tiepida nel lavandino, e a giugno organizzare una piccola festa per il congedo, tramezzini, aranciate, quattro parole semplici davanti agli insegnanti e ai bidelli schierati a semicerchio, un tocco di commozione mentre qualcuno già sbircia l’orologio. Invece ho chiuso tutte le porte con le catene, ho fissato bene i lucchetti e ora sono qui, caparbio, stupido, incomprensibile, con il fucile in mano al centro di un assedio. Perché sta facendo tutto questo?, grida il commissario nel megafono, che senso ha? Non si renda ridicolo, preside, non si comporti come un bambino capriccioso e prepotente, non spaventi le persone che costringe a stare lí con lei. Guardo la professoressa Micheli e il ripetente della quinta A: sono accovacciati sul pavimento della presidenza, la schiena contro il muro dove sono appese le carte geografiche dell’Italia e le tavole della Costituzione, lei trema, ha la testa bassa, i capelli tinti di biondo davanti agli occhi, le ginocchia contro il petto, lui le tiene un braccio sulle spalle e fuma con le gambe distese. La Micheli è elegante come sempre, con il suo tailleur albicocca e i tacchi sottili, la borsetta firmata a fianco, anche se ha le calze smagliate e il trucco sciolto; lui ha la tuta della Roma e le scarpe grosse da ginnastica senza lacci, i capelli rasati sulle tempie. Non volevo che rimanessero qui con me, ho fatto uscire tutti prima di incatenare le porte, ma la professoressa e l’alunno erano nel bagno a fare i porci comodi loro. Non è colpa mia se ora sono costretti a subire questa storia, non è neanche colpa loro, è andata cosí. Tutto va come deve andare, arriva e va via e quasi non ce ne rendiamo conto. Quanti anni ho vissuto senza accorgermene, come un sonnambulo su un cornicione. Ogni sera per molti anni mi sono chiuso nel mio studio per tradurre una versione di greco e una di latino, ogni sera. Vocabolari, fogli bianchi, matite appuntite, un bicchiere di vino rosso, la lampada accesa sulla scrivania, tutto era pronto, ogni sera. Mi piaceva il modo in cui lentamente si concatenavano le parole, secondo un ordine preciso e inevitabile, come i verbi discendevano uno dall’altro, dalle colline alle valli, in una sequenza serrata eppure anche luminosa, come una strada disegnata bene, che curva dopo curva sa dove portare chi la percorre. Nei nessi profondi tra le parole mi sembrava di ritrovare un’armonia perduta, una quiete, come se le parole fossero le cose, e si appoggiassero una all’altra dolcemente, con fiducia. Passavo almeno due o tre ore rintanato in quel giardino notturno fatto di ablativi assoluti, aoristi deboli, fiori secchi, sassolini bianchi messi in fila, subordinate oggettive e finali, e il cuore batteva calmo, e la mente immaginava dietro alla sintassi l’ordine segreto del mondo. Ogni fastidio e ogni insana e astratta pretesa si spegnevano, sentivo crescere in me il sentimento profondo dell’obbedienza. Intuivo che la felicità, se mai ci spetta, sta tutta nell’obbedienza, che non è sottomissione ma cedimento a una verità piú grande, sconosciuta. Carola stava di là, a guardare la televisione e a riempire il portacenere, distesa sul divano. Anche lei apprendeva dalla rassegnazione, ma senza provare alcuna gioia. E poi un giorno se n’è andata via, al ritorno dalla scuola ho trovato un biglietto sul tavolo della cucina, tremendamente sgrammaticato. «Io non resto, io se resto muoio, io vado, non mi cercare». Ci sono rimasto male, malissimo, il cuore era un sasso in fondo al pozzo, e le gambe non mi tenevano nemmeno in piedi, erano melma. Ho bevuto tutta la bottiglia di vino rosso, mi sono sdraiato sul letto e ho dormito per un giorno intero. Sogni confusi mi hanno traversato il corpo, provavo a strapparmi una freccia conficcata nel petto, tiravo forte e attaccati alla punta venivano fuori parti di me, viscido cibo per gatti. Sono rimasto chiuso in casa per una settimana, senza lavarmi e senza cambiarmi i vestiti, ho continuato a bere e ho ripreso a fumare le sigarette lasciate da Carola, una stecca intera. Guardavo i dizionari e i libri ammucchiati sul tavolo, mi sembravano pietre scure cadute dal monte della vergogna. Solo pochi giorni prima tutto era ordine e silenzio, ora avevo solo voglia di piangere e urlare, ma la gola era stretta, gli occhi secchi. Vent’anni siamo stati insieme, io e Carola, e ora non c’era piú niente: la casa era vuota come una cassa da morto che aspetta un cadavere. Credevo che saremmo arrivati insieme fino alla fine, che lei avrebbe vigilato sulla mia trepidazione, perché non si trasformasse in qualcosa di pericoloso per me e per gli altri, tenendomi la mano nel buio della stanza matrimoniale, prima di dormire. E io le sarei stato grato per sempre, l’avrei amata come si ama un parapetto su un burrone, mi sarei sempre tenuto aggrappato alla sua vitalità, sapendo che sciolto da lei ero vertigine. Traducevo il greco e il latino e per un poco mi sentivo a posto e tutto mi pareva avesse un senso, ma solo perché nell’altra stanza c’era Carola. Lei era pura e pazza, felice e infelice nello stesso momento, teneva il mondo sulla punta del naso come una foca, sapeva fare la ruota e il salto mortale, sapeva cantare, e io l’ho fatta diventare la mia stella triste. Dalla strada spingono le luci dei fari contro i vetri e gridano ancora il mio nome, che onore, che vergogna signor commissario. Non durerà a lungo, manca poco, manca sempre poco, lasciatemi vivere come voglio, restare qua dentro fino alla fine, non capite che il comandante deve affondare con la sua nave? Carola è arrivata all’università quando io stavo per uscirne, stavo completando la tesi su Mimnerno e Tirteo, foglie che cadono e foglie che resistono, la ruota del tempo che gira inesorabile e la ruota del carro sul campo di battaglia, obbedienza al fato o alla lancia, parole. L’avevo notata mentre scendeva dall’autobus davanti alla Sapienza con la tramontana tra i capelli e le ali ai piedi, piena di vita scalpitante, con un ridicolo montgomery rosso e una borsa di cuoio a tracolla gonfia di libri. Sulla scalinata della facoltà di lettere fu lei ad avvicinarsi, a chiedermi informazioni su come muoversi nel caos dell’università. Aveva fame e sete di tutto, voleva capire, studiare, conoscere gente nuova, e mi scelse come guida nel bosco. Mi innamorai subito, lí sulle scale, tra centinaia di ragazzi che entravano e uscivano come sangue vivo nel cuore, perché tra tutti si era rivolta proprio a me, nascosto nell’ombra. Parlava e si muoveva, saltellava, muoveva tanto le mani, aveva le lentiggini disegnate con la penna rossa attorno...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il preside
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Dello stesso autore
  7. Copyright