1. L’inganno del tempo.
Quando Platone mise in scena il confronto fra Ippia e Socrate sulla gloriosa contrapposizione fra Achille e Odisseo, genialmente nascose fra le pieghe del discorso il vero mistero che a tutti era sempre sfuggito. Come avrebbe fatto ogni volta nei suoi dialoghi, ribaltando certezze, minando dogmi, mettendo costantemente in discussione anche le sue stesse parole, Platone offrí ai lettori la possibilità di intravedere un’altra strada. Se tutti, sempre, erano rimasti affascinati dall’idea canonica che lo scontro ideale fra i due grandi eroi ruotasse attorno ai perni di schiettezza e astuzia, impulsività e riflessività, adesso, da grande scrittore qual era, Platone fece il gesto di scoperchiare il fondo per abbagliare gli occhi di chi avesse tentato di osservare la verità.
Come il sole, infatti, la verità acceca. Per questo è necessario avvicinarvisi con calma e per gradi. Platone, dunque, si limitò a indicare la via, lasciando ai suoi lettori la possibilità di risalire alle vere ragioni dell’opposizione fra Achille e Odisseo, la sostanza del problema insomma, quella su cui la dualità schiettezza-astuzia era cresciuta come una conseguenza, come una lontana eco, come un accidente rispetto al sostrato – per usare la terminologia del migliore fra i discepoli platonici: Aristotele. Ben altra infatti era la ragione che collocava l’uno di fronte all’altro i due eroi fragili e vinti. Ben altra la dimensione umana e la portata dello scontro.
Ma è necessario seguirlo bene, il filosofo esperto nell’arte del disvelamento, se vogliamo rivolgere un poco gli occhi al sole che acceca. Quando, raccontando il genio del giovane Platone, ho introdotto l’incontro fra Ippia e Socrate nell’Ippia minore, non ho accennato alle profondità che si dischiudono nel momento in cui il sofista viene contestato con le classiche armi della dialettica socratica. Mi sono limitato a segnalare come la tecnica del ribaltamento getti in crisi il lettore circa la necessità – talvolta assoluta – di ingannare pur di dire la verità. Un’idea che Platone avrebbe sviluppato e risolto in altri dialoghi. Ma restiamo ora all’Ippia minore e osserviamo la scena con piú attenzione.
Ippia – lo ricorderete –, per indicare la lontananza fra i due eroi, ha citato la famosa risposta di Achille a Odisseo: «Mi è odioso quanto il portone della casa di Ade | chi una cosa nasconde dentro di sé e un’altra dichiara». Schiettezza contro astuzia insomma. Quello a cui finora ci siamo fermati. Ma nel dialogo, attraverso l’allusività letteraria che diventerà il suo marchio, Platone va oltre. E poiché anch’egli conosce a memoria Omero come e forse piú di Ippia, sofista esperto di poeti, riesce a scostare una porta. E lo fa soprattutto portando in scena il suo Socrate e anche il suo Ippia, ossia due caratteri che è lui stesso a forgiare. È necessario ricordare sempre, infatti, che le parole del sofista sono creazione platonica tanto quanto le parole di Socrate. Questione fondamentale che spesso tutti noi, lettori appassionati e incantati dalla penna di questo straordinario artista filosofo, tendiamo a dimenticare.
Del resto, quel che fa Platone qui è davvero sorprendente. Innanzitutto mette in crisi la scontata definizione di Ippia, ovvero quel che tutti avevano sempre ripetuto come una verità indiscutibile: la sincerità di Achille. Anche Achille mente – sostiene Socrate.
Seguiamo per intero la risposta che l’eroe dal destino piú veloce dei suoi piedi fornisce a Odisseo. I doni e le scuse di Agamennone sono tardivi, insulsi e inutili. Egli non soltanto non tornerà affatto alla battaglia, ma addirittura lascerà l’accampamento e le terre dei Troiani. Con tutti i suoi uomini, smonterà le tende e prenderà il mare per tornare a Ftia e ritrovare la casa da molti anni perduta. La guerra contro Troia non è la sua guerra. L’eroe lo ha detto fin dall’inizio dell’Iliade. È un’idea sconcertante e che in genere viene ignorata. Per questo sono tornato a raccontarla piú volte. Viene coronata da uno di quei momenti in cui Achille si lascia andare all’immaginazione: «Se gli dèi mi proteggeranno e tornerò alla mia casa, lí | Peleo mi cercherà sicuramente una sposa egli stesso. | Molte le giovani achee nell’Ellade e a Ftia, | figlie di nobili che difendono i loro borghi: fra quelle | farò mia sposa diletta colei che piú mi piacerà. Lí molto mi sprona il mio cuore orgoglioso, presa | una legittima sposa che mi sia degna compagna, | a godermi le ricchezze accumulate dal vecchio Peleo».
Eppure sappiamo tutti che le cose non andranno in questo modo. Non solo non partirà affatto, Achille. Ma non tornerà mai piú a Ftia. Non riabbraccerà il padre e non troverà una nuova moglie con cui crescere il figlio Neottolemo. Perché quel che sta per capitare è tutt’altro. Il suo Patroclo vestirà le armi per spaventare i Troiani e, dopo aver messo in fuga parecchi guerrieri, non riuscirà a fermarsi, come invece aveva promesso, e la sua furia guerriera lo spingerà alla morte. Dunque Achille per vendicarlo tornerà eccome alla battaglia. Contraddicendo la sua promessa. Anche Achille, come Odisseo, una cosa dice e altra cosa fa.
Ma Ippia non è uno stupido. E l’arte letteraria e filosofica di Platone non avrebbe alcuno spessore se qui Platone avesse immaginato di mettere di fronte a Socrate uno stupido soltanto per esaltare le capacità del vecchio maestro. Cosí è proprio la risposta del buon senso offerta dal sofista a spingere i lettori sulla strada giusta per avvicinarsi a una verità sorprendente.
Le cose non stanno affatto come sostiene Socrate, a sentire Ippia. Non è vero che Achille sta mentendo quando dice che il giorno seguente lascerà Ftia. Nel momento in cui parla, Achille è sincero. Crede in ciò che dice. Semplicemente gli accadimenti della vita non seguono paradigmi perfetti e lineari e spesso prendono vie inaspettate. Il giorno dopo, Achille si troverà davanti altri bisogni e altre necessità che lo obbligheranno a cambiare idea. Ma nel momento in cui parla, crede completamente in ciò che dice. Ben diverso è il caso di Odisseo. Odisseo, quando mente, sa di mentire. Non bisogna aspettare il giorno dopo. Odisseo guarda lontano e costruisce le sue trame sulle proprie mezze verità nonché sui caratteristici discorsi ingannevoli. Odisseo premedita. Achille no.
Sembra cosa di poco conto ma è proprio questo piccolo tocco a spostare in maniera drastica l’asse della discussione, anche se nel dialogo che Platone scrive saranno altre le questioni affrontate. Eppure, sí, chi è appassionato alle figure di Achille e Odisseo, sa che è in questo momento che tutto viene rimesso definitivamente in discussione. E non perché si debba guardare anche agli inganni di Achille e alle sue contraddizioni ma perché altra è in fondo la questione sostanziale che sfugge sempre a chi non vuole osservare null’altro se non la schiettezza e l’astuzia dei due eroi. La sostanza del discorso riguarda infatti il tempo. Il modo di vivere il tempo.
Il piú grande amante di Omero, Platone, è dunque anche il primo a scardinare le abitudini dei lettori e a indicare un tema decisivo. Come viviamo il tempo che ci è dato, noi effimeri, noi esseri umani condannati a vite che hanno un tempo limitato? I due grandi eroi sono modelli di scelte contrapposte. Due scelte che costituiscono un paradigma. Chi da una parte. Chi dall’altra.
Achille è sempre gettato nel presente. Odisseo è sempre proiettato nel futuro. Achille pensa e dice solo cose che hanno a che fare con il momento che sta vivendo. Odisseo guarda perennemente oltre. Per questo Achille è schietto, spontaneo e impulsivo. Mentre Odisseo è prudente, attento, cauto e ingannevole. Il ragazzo biondo infatti divora la vita nel momento in cui la vive. Odisseo immagina il modo per divorarla quando arriverà.
È questa la vera differenza fra i due uomini. Il resto non sono che apparenze, conseguenze, accidenti rispetto a quel sostrato che è l’essenza dei due eroi. D’altronde è innanzitutto con il tempo che noi umani siamo destinati fin dalla nascita a misurarci. Con il tempo finito in cui si srotola la nostra vita.
Ecco la verità di Achille e Odisseo, allora. Con il suo genio di narratore filosofo, Platone solleva il velo e subito lo lascia cadere, fingendo di prendere altre strade. Ma chi ha visto un attimo il sole abbagliante deve stringere di nuovo il velo fra le dita e cominciare da capo. Quel che dobbiamo fare adesso. Senza lasciarci accecare.
2. Mangiare e bere.
Poco fa ho raccontato le scene apparentemente laterali e in effetti importantissime che girano attorno alla necessità di mangiare prima di entrare in battaglia. Ci hanno mostrato un terreno comune fra Achille e Odisseo proprio nel momento dello scontro. Odisseo non riusciva in alcun modo a persuadere Achille benché la nostra fragile natura umana richieda innanzitutto di essere sostenuta.
Siamo carne e lo spirito vive in questa carne. Del resto, nella prospettiva omerica, non esiste un’anima che si stacchi dal corpo mantenendo tutte le sue funzioni vitali. L’anima dà vita al corpo. La famosa psyché, quel sostantivo destinato all’eternità nel nostro lavoro sull’anima e la mente, ovvero appunto la psiche, quando Omero cuce i canti degli aedi non è altro che soffio vitale (psychein significa originariamente soffiare). Il soffio della vita è ciò che rende il corpo animato. E quando s’invola attraverso le articolazioni al momento della morte, non permane, ma scivola via alla stregua di un fantasma.
Le ginocchia si sciolgono quando il corpo cade e perde vita. Le ginocchia si allentano quando un uomo rifiuta di nutrirsi. Achille però non riesce a mandar giú cibo. Sconvolto dal dolore, rifiuta qualsiasi consiglio odissiaco.
Ma quali caratteri operano in questo dissidio sul terreno che tutti ci unisce, ossia le necessità primarie? Odisseo è davvero guidato dall’astuzia quando sostiene che è meglio comunque mangiare anche se non lo si desidera? E Achille è davvero guidato dall’impulsività quando risponde che gli è impossibile accettare ciò che il suo corpo rifiuta? Non è forse ben altra la questione in gioco? Ovvero appunto il tempo?
Odisseo guarda oltre e sa che in poche ore il corpo di Achille, privo di sostentamento, cederà. Achille guarda solo al tempo in cui ruggisce la sua anima indemoniata. Cibo e bevanda non passano per la gola bloccata dal dolore.
Futuro contro presente. Questa è la vera sfida che attraversa, a volte sotterranea, ogni aspetto della contrapposizione fra i due eroi.
Quanto al bisogno primario del cibo, la risposta è chiara. Mangiare e bere è necessario. Odisseo ha ragione. Chi rifiuta va incontro alla morte. Achille infatti verrà nutrito dagli dèi. Nettare e ambrosia sono il trucco con cui Omero permette all’eroe di mantenere la sua forza.
Ma il rifiuto di Achille ci lascia intendere anche qualcos’altro, al di là dell’ira omicida che lo sta prendendo. Non ha senso per lui mangiare e bere soltanto per sopravvivere. Ha senso il banchetto solo quando non è «odioso». Ovvero quando vivere il presente ha ancora qualche senso. Perché sopravvivere soltanto e aspettare qualcosa che non arriva mai è forse anche peggio che morire.
3. L’ira di Achille: vivere o morire.
L’ira di Achille «che infiniti addusse lutti agli Achei» – secondo la celebre traduzione di Vincenzo Monti del 1810 – pensiamo di sapere tutti quale sia e da cosa dipenda. E spesso sbagliamo. Perché le sottigliezze e le minuzie sono il vanto degli aedi omerici. E nell’esplosione di questa ira destinata a una storia eterna i dettagli hanno una parte di primo piano.
La storia a grandi linee è molto nota e già l’ho velocemente ricordata per sottolineare la specularità fra l’inizio di Iliade e Odissea. Dopo nove anni di assedio, gli Achei sono stanchi e decimati da un morbo che Apollo ha inviato per punire la superbia di Agamennone. Il capo fra i capi ha risposto sdegnosamente a Crise, sacerdote di Apollo, che è venuto a chiedere la restituzione di sua figlia Criseide, una delle ragazze che gli Achei, nel corso delle loro razzie nei dintorni, hanno portato nelle proprie tende. Al nono giorno di epidemia è Achille a convocare un’assemblea. L’idea dell’eroe dalla caviglia rigida e fragile è quella che spesso i lettori accantonano come fosse una svista: andarsene, tornare a casa, mollare una guerra ingiusta. Achille però non sta cercando una soluzione nella fuga e infatti chiede che sia consultato un sapiente, un interprete di sogni, capace di capire il motivo della pestilenza. Si alza Calcante, «colui che degli indovini era il piú valido», ma poiché è consapevole del fatto che la sua sentenza non piacerà a Agamennone, chiede subito la protezione di Achille che gliela accorda. Il verdetto è chiaro: restituire Criseide a suo padre, il sacerdote di Apollo che ha scatenato il dio contro gli Achei.
L’ira di Agamennone che qui si scatena assomiglia a quelle forme di rabbia infantili in cui non si sa con chi prendersela ma non si vuole a nessun costo mollare la presa e darsi per vinti. Restituirà Criseide, il fratello di Menelao, ma in cambio vorrà qualcosa dagli altri eroi. E qui, ancora una volta, è Achille a parlare. La sua risposta è semplice: con le armi del buon senso e mantenendo il rispetto che si deve al capo, egli mormora che hanno poco da offrire, lui e gli altri uomini, per risarcire la mancanza di Criseide che Agamennone sarà ora costretto a cedere. Non c’è nulla che sopravanzi, nelle tende. Ma una volta espugnata Troia, i doni saranno ricchissimi e Agamennone potrà avere tutto ciò che vuole, anche il quadruplo degli altri capi.
Nulla è peggio di un discorso ragionevole per chi è preda di una rabbia incongrua e futile. Agamennone prende fuoco. Se non verrà compensata la perdita della ragazza sottratta a Crise, egli entrerà nella tenda di un altro fra i capi – Aiace? Odisseo? Achille stesso? – per portarsi via con la forza una delle ragazze che essi hanno razziato.
Che succede ora? È questo il momento decisivo da cui ha inizio la storia, stando alla grandezza inarrivabile di Omero. Siamo talmente presi dall’attesa di ciò che già sappiamo, ossia l’ira di Achille, che non ci fermiamo a guardare tutti gli eroi riuniti in assemblea davanti all’ingiustificata collera di Agamennone. Non siamo portati a indagare. Eppure dobbiamo. E infatti nessuno risponde, qui. Né Aiace, né Odisseo, benché chiamati in causa da Agamennone, prendono la parola. Hanno paura? Aspettano? Nessuno ce lo dice. Quel che sappiamo è che è ancora Achille a farsi avanti. E stavolta senza piú alcun rispetto delle forme. «Furfante vestito d’insolenza e avidità» grida l’eroe. E nulla può piú fermare la violenza di una lite insensata.
Ma perché non tace, Achille? Perché non segue l’esempio di Odisseo o di Aiace? Per l’impulsività che fin dalla fanciullezza lo ha abituato a dire tutto e subito? O c’è sotto altro?
Se ogni cosa dipende dal modo in cui Odisseo e Achille hanno deciso di vivere il loro tempo, ci è chiaro una volta ancora che Odisseo, mentre tace, sta guardando lontano. Sa che in quel momento la rabbia infantile di Agamennone non verrà placata da alcuna parola e solo il tempo potrà agire su di essa. Immagina, forse, che verrà il giorno in cui potrà discutere tranquillamente con l’Atride e spiegargli le proprie ragioni. Ma quel giorno deve ancora venire.
Achille invece non può aspettare. Quel giorno è ora.
Certo, noi sappiamo che senza la risposta del giovane eroe l’Iliade non esisterebbe. Ma non è per questo che gli aedi hanno cantato la risposta di Achille e il silenzio di Odisseo. Certo, siamo anche ben consapevoli del fatto che, se non intervenisse, Achille probabilmente potrebbe vivere a lungo e non sarebbe condannato a morte prematura. Ma neppure questo è il punto. Il destino di breve vita a cui è consegnato è piú problematico di quanto si sia portati a credere, visto anche che tutta l’Iliade racconta la morte di Achille. In maniera geniale e moderna. Perché questa morte non verrà descritta mai e il poema, come un capolavoro del Novecento, si chiuderà senza che l’accadimento centrale sia mai avvenuto. E tuttavia neppure per questo gli aedi ci mostrano la furia dell’eroe. La verità è che se Achille non convocasse l’assemblea e non si opponesse duramente al suo capo, l’epidemia farebbe strage dei guerrieri accampati da nove anni sullo Stretto dei Dardanelli. Bisogna agire ora. Bisogna agire nel presente. Perché solo un intervento sfacciato, impulsivo, spontaneo e capace di aggredire il presente può liberare le tende e le baracche degli Achei dall’epidemia.
La morte o la vita stanno dietro l’uomo che si getta nel presente?
La morte o la vita stanno dietro l’uomo che guarda solo al futuro?
È questa la grande e definitiva questione che si apre quando decidiamo come consumare il tempo che siamo stati condannati a vivere.
4. Vivere a tutti i costi: la strategia odissiaca.
Verso la fine dell’Odissea, quand...