Come sempre la raccolta di rifiuti delle strade del centro città e delle zone commerciali, iniziata alle prime ore del mattino, si concluse intorno alle nove. I bulldozer avevano livellato i cumuli di immondizie e successivamente gli autoribaltabili carichi di terra avevano intrapreso il lavoro di interramento. Gli operatori della squadra di Ashura avevano caricato nei loro cestini i rifiuti raccolti e li avevano trasportati verso uno spiazzo. I colleghi del magazzino dividevano la merce per tipologia, la pesavano e alla fine comunicavano il totale dei chili agli operatori. Nel frattempo i capi appuntavano tutti i dati su un taccuino, in vista della rivendita bimensile ai centri di riciclaggio: con il denaro percepito avrebbero pagato il salario ai loro operatori, in proporzione all’ammontare del materiale raccolto. Ormai alla vigilia della Festa del Ringraziamento, i rifiuti delle aree commerciali erano aumentati significativamente e anche gli scarti alimentari degli appartamenti e delle aree residenziali trasportati dopo mezzogiorno erano parecchie volte piú abbondanti che in passato. Ma una vera e propria valanga di rifiuti si sarebbe riversata due o tre giorni dopo le festività. Durante la corsa agli acquisti in vista delle feste, il consumo di scatole, ma anche di carta e di plastica, sarebbe aumentato a dismisura. In quell’occasione erano inoltre previsti tre giorni di ferie e quindi tutti gli operatori erano preoccupati per il fatto che per la settimana successiva sarebbero dovuti rimanere incollati a quelle colline di rifiuti, senza potersi muovere.
– Occhiapalla, scendi al fiume e va’ a prendere l’acqua, – ordinò la mamma appena il figlio arrivò alla capanna. Lui prese due taniche di plastica dalla cucina della casa di Ashura, che praticamente era diventata anche la loro, e si avviò. Quando gli toccava sedersi di fronte a tutti gli altri membri della famiglia per fare colazione, provava un certo senso di imbarazzo, se non di insofferenza. In effetti Ashura era diventato il loro capofamiglia, mentre la mamma una moglie obbediente. Occhiapalla e Pelatino avvicinavano le teste a un piccolo vassoio in alpacca, che fungeva da tavolo, e consumavano insieme il pasto. Ashura aveva imposto a tutta la famiglia di stare sempre e rigorosamente insieme quando si faceva colazione. Pelatino aveva smesso di frequentare la scuola della chiesa, ma di fatto ad Ashura non interessava particolarmente che il figlio studiasse. Anche se non poteva raccogliere direttamente i rifiuti come Occhiapalla, a modo suo riusciva a dare una mano: rimaneva nelle retrovie e aiutava a inserire i rifiuti nei cesti e poi a trasportarli giú. Quando, però, quel giorno, Pelatino annunciò che sarebbe andato a scuola, nessuno lo costrinse a rimanere al lavoro oppure tentò di fargli cambiare idea. In effetti anche Occhiapalla si permetteva ogni tanto di saltare uno dei tre turni a cui era sempre obbligata invece la mamma. Non mancava mai a quello del primo mattino, in cui si smistavano i rifiuti che arrivavano dalle strade del centro città e dalle aree commerciali, ma qualche volta evitava gli altri due, quello pomeridiano o quello serale. Ashura gli aveva raccomandato di aiutare sempre la mamma il lunedí, quando il lavoro era piú abbondante del solito, ma lasciava correre se negli altri giorni della settimana si allontanava con la scusa di seguire Pelatino a scuola.
Nei pressi del negozio di alimentari e del distributore dell’acqua a quell’ora, di solito, si accalcavano le donne che dovevano preparare da mangiare ai loro figli. Occhiapalla poggiò in silenzio le sue taniche d’acqua ad altre di ogni tipo e genere disposte in coda di fronte al tubo del distributore e rimase ad attendere. Piú a valle del negozio e dell’ufficio amministrativo, c’erano due tende militari color arancio e un prefabbricato a forma di mezzaluna, di recente costruzione, che appartenevano alla chiesa. Nel cortile anteriore le macchine private e i minibus luccicavano investiti dalla luce del sole; gli striscioni colorati appesi tutt’intorno lasciavano intendere che fosse in corso una qualche manifestazione. Dall’altoparlante montato sul tetto del prefabbricato riecheggiavano fragorosamente degli inni. Quando arrivò il suo turno, Occhiapalla prese con entrambe le braccia le taniche, un po’ troppo pesanti per le sue forze. S’incamminò barcollando, e ogni tanto era costretto a prendersi delle pause. Quando stava per passare di fronte al negozietto intravide il cappello da baseball di Pelatino. Lo chiamò e lui, nel vederlo, gli corse incontro.
– Sei venuto a prendere l’acqua? – gli chiese tutto radioso.
– Perché, non si vede? Tu, piuttosto, dove te ne vai in giro, senza nemmeno aver fatto colazione?
– Vado alla scuola della chiesa. Pare che oggi distribuiscano dei dolci di riso e del ramen.
– Davvero? E che dici, posso venire anch’io?
– Sí, possono andare tutti i ragazzi di quest’area.
– Perfetto, allora vado a posare a casa le taniche e andiamo.
Con passo lento, i due s’incamminarono per la strada che portava alla baraccopoli. Con la collaborazione di Pelatino, che lo aiutava a portare il peso, Occhiapalla arrivò ben prima di quanto preventivato.
– Che onore, oggi mi avete portato l’acqua in due! – esclamò la mamma trascinando le taniche in casa.
Ma i due non sembravano aver affatto intenzione di rientrare con lei e piuttosto attendevano il momento giusto per svignarsela.
– Non ditemi che volete saltare la colazione… Poi Ashura si arrabbia, eh! – gridò e Occhiapalla, senza colpo ferire, ribatté: – È che oggi in chiesa distribuiscono ai ragazzi dei dolci di riso e del ramen.
– Ramen? Be’, allora di che parliamo? Andate subito a prendere i vostri!
Occhiapalla e Pelatino corsero lungo una stradina in discesa, superarono in fretta l’alimentari e proseguirono verso la chiesa. Ormai, al posto degli inni, rimbombavano le preghiere dei missionari trasmesse attraverso l’altoparlante.
– Stanno celebrando la Messa. Appena finisce, inizieranno a distribuire il cibo, – commentò Pelatino, che sembrava capire ogni cosa al volo. Occhiapalla lo seguí verso le tende militari, dove normalmente si tenevano le lezioni della scuola. Una volta, tempo prima, gli era già capitato di visitare quel posto e quindi già sapeva che una era la scuola materna e l’altra quella elementare. Nella prima era steso a terra un telo di plastica; c’erano delle mensole che traboccavano di giocattoli di pessima fattura e poi anche un tavolo da lavoro; la seconda ospitava vecchie scrivanie, sedie e persino una lavagna girevole. I due ragazzi ora però puntavano alla prima scuola, dov’erano già pronte delle pile altissime di confezioni di ramen. Un uomo e una donna stavano appendendo su una parete uno striscione che riportava la scritta a caratteri cubitali: MISSIONARI DELLA CHIESA DEL PARADISO. Occhiapalla e Pelatino decisero di attendere là fuori.
Appena terminò la celebrazione della Messa, la porta d’ingresso dell’edificio a forma di mezzaluna si aprí e si riversò fuori una frotta di gente. I primi a uscire furono i bambini e gli insegnanti volontari della scuola serale, seguiti da un pastore con i capelli brizzolati e con indosso un abito elegante, e da un missionario con una tuta da lavoro tutta inzaccherata. Le ultime a uscire furono numerose donne abbigliate in maniera del tutto differente rispetto alle persone del posto. Quelle signore di mezza età in visita alla chiesa avevano incipriato la loro pelle chiara, indossavano sopra la maglia delle giacche variopinte oppure dei trench. Per finire portavano in testa dei cappelli. In mezzo a loro c’erano anche alcuni bambini che avevano seguito le loro madri, cosí che in totale si contava una trentina di persone.
– Su forza, scattiamo una foto tutti insieme. Pastore, presbitero, presidentessa dell’associazione di preghiera e missionari, su, venite da questa parte, – gridò una giovane donna con una macchina fotografica e quelli si disposero meccanicamente in fila sotto uno striscione. Si disposero su due file e infransero improvvisamente la monotonia di quella scena. Anche i piccoli rimasero in piedi, calmi e buoni, di fianco alle loro mamme. Quando si raggrupparono in uno stesso punto, si sentí nell’aria l’odore di fiori di campo. La giovane donna si mise a tracolla la macchina fotografica e urlò di nuovo.
– Bimbi, voi venite da questo lato e mettetevi seduti.
I bambini che erano in piedi fuori della tenda cominciarono a raggrupparsi, finché non intervennero il pastore e il missionario che, alzando le braccia, fecero loro segno di fermarsi.
– Il gruppo delle elementari si fermi lí. Solo i bimbi della materna si devono sedere qui davanti.
I ragazzi con i capoccioni piú grossi indietreggiarono e anche Pelatino e Occhiapalla a quel punto uscirono dalla tenda. Seguendo le indicazioni delle maestre volontarie, i bambini dell’asilo si misero a sedere in fila, ai piedi degli adulti. La presidentessa dell’associazione, staccandosi dalla fila, prese in braccio il bambino piú piccolo, di quattro anni, e si accovacciò. A quel punto anche le altre donne fecero a gara per trovare un piccolino da abbracciare e con cui mettersi in posa. L’abbigliamento e l’aspetto dei bambini dell’asilo seduti sul pavimento e degli adulti in fila dietro di loro strideva al punto da far apparire quella come la scena di un documentario di viaggiatori sperduti in una terra in mezzo alle foreste. Occhiapalla osservava di sottecchi, ma improvvisamente sentí un tonfo al cuore. Sembrava che tutto il resto di quella scena venisse inghiottito dall’ombra, mentre la luce rimaneva concentrata in un solo punto: su una ragazza i cui capelli, né lunghi né corti, scendevano diritti lungo le guance fin sopra le spalle; il suo viso era magro e luminoso e le sue labbra lucide. Indossava una divisa scolastica marrone scuro, e una donna, probabilmente la madre, in piedi di fianco a lei la teneva per un braccio. Doveva avere la stessa età di Occhiapalla o al massimo un paio d’anni in piú. Le ragazze come lei sembravano emanare tutte lo stesso fascino.
La discesa del rione dove abitava Occhiapalla prima del trasferimento dava su un cavalcavia che portava a un quartiere diametralmente opposto al suo. Era un’area medioborghese con dei giardinetti regolari, popolati di alberi e fiori di ogni genere. Addentrandosi in quel quartiere, si raggiungeva una montagna, che ospitava l’unico parco intatto di tutto il distretto. Le sue pendici erano costellate di ville circondate dal verde e a ogni angolo di quelle strade ben curate si trovavano guardiole di sorveglianza. Era proprio su quel cavalcavia che Occhiapalla aveva incrociato per la prima volta lo sguardo di quella ragazza. Lui stava tornando dal mercato, appena qualche fermata piú avanti, mentre lei stava rientrando a casa da scuola. Dalla divisa scolastica che indossava si capiva che era una studentessa delle medie. Era in compagnia di alcune persone, eppure, dall’attimo in cui l’aveva scorta in lontananza, Occhiapalla aveva avuto l’impressione di essere solo con lei. La sua memoria sembrò come fermarsi in quell’attimo. In seguito avrebbe gironzolato su e giú dal cavalcavia per capire quanto tempo piú o meno fosse passato. Dopo un po’ gli capitò di imbattersi nuovamente, faccia a faccia, con quella ragazza. La vide scendere dall’autobus e salire le scale del cavalcavia: quella volta anche lui si affrettò a raggiungere il lato opposto. Non c’era praticamente nessun altro, oltre a loro. Solo un tipo vestito in giacca e cravatta e con in mano una busta con dei documenti che camminava a passo svelto. Dietro di lui avanzava lentamente la ragazza. Riuscí a scorgere chiaramente un piccolo neo sulla sua guancia e un cerchietto sulla frangetta. La ragazza si limitò a lanciare su Occhiapalla uno sguardo fugace e disinteressato come se stesse guardando un segnale stradale oppure il corrimano del ponte, e poi lo superò. Occhiapalla non trovò il coraggio di guardare indietro e solo quando arrivò sull’altra sponda si voltò. Ormai lei era scesa dalle scale opposte del cavalcavia ed era sul punto di salire sul marciapiede. Occhiapalla si girò in quella direzione e, fermando il passo, rimase lí in piedi a guardare.
«Un attimo… qual era il mio nome quando ero studente? Chŏngho, ecco sí, Choi Chŏngho». Occhiapalla bisbigliò il proprio nome e si avviò lentamente verso il suo rione. Doveva essere passato molto tempo da allora, perché, se la sua memoria non faceva cilecca, indossava un pesante giubbotto a coste: probabilmente era già inverno. Occhiapalla stava bighellonando nei pressi del cavalcavia piú o meno allo stesso orario quando vide apparire nuovamente la ragazza. Questa volta, però, non attraversò il ponte, ma rimase ad aspettarla e poi, appena lei ridiscese le scale, prese a seguirla a una certa distanza. Lei si spinse verso le abitazioni situate sul limitare del parco, superando il gabbiotto di sorveglianza e scomparve dietro un cancelletto, alla fine di una scalinata. Occhiapalla rimase impalato a guardare la scena, nei pressi di un lungo muretto, finché un guardiano, con indosso una divisa blu scuro, gli si avvicinò e lo afferrò per la collottola.
– Che fai da queste parti? – gli chiese in tono perentorio.
– Niente, non faccio niente.
– Dove abiti?
– Dall’altra parte del cavalcavia.
Il guardiano lo squadrò da capo a piedi.
– Allora gira i tacchi e vedi di tornartene a casa tua.
In quel momento il pensiero di Occhiapalla tornò al padre: chissà se gli era mai capitato di derubare quell’appartamento.
Dopo la foto di gruppo, ne fu scattata un’altra per immortalare la donazione di quei cinquecento pacchi di ramen regalati dalle fedeli della chiesa del Paradiso. Nella foto la presidentessa della loro associazione e il mi...