Ricordati di Bach
eBook - ePub

Ricordati di Bach

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Ricordati di Bach

Informazioni su questo libro

Esistono passioni cosí potenti da cambiarti la vita. Da rovesciarti la testa, i pensieri, lo sguardo. Per Cecilia la musica è esattamente questo: un modo di vivere, il solo che conosce. «Fai finta di dover parlare di tutto quello che è finito in un abisso, - le dice il suo maestro. - Della gioia e del pianto, della vita e della morte. Fai finta di dovermi raccontare qualcosa che non ha mai avuto parole per essere descritto. Rimane Bach. Tolto tutto rimane solo lui: la lisca del tempo». Ma il tempo che cos'è? Cecilia ha otto anni quando un incidente d'auto le lede per sempre il nervo della mano sinistra e si mette in testa d'imparare a suonare il violoncello. E ne ha diciannove quando tenta i primi concorsi. In mezzo, dieci anni di duro lavoro con Smotlak, un maestro diverso da tutti gli altri, carismatico, burbero, spregiudicato. Per arrivare a scoprire qual è il senso di ogni sfida e della sua stessa vita.Cecilia è ancora una bambina, quando a dispetto di tutto e di tutti - in particolare dei suoi genitori -, entra all'Istituto Mascagni di Livorno, un conservatorio, e di quelli seri. Scoprirà a poco a poco cosa significa segarsi i polpastrelli con le corde, imparare solfeggio e armonia, progredire o regredire, scoraggiarsi o meravigliarsi. Educare la sua mano, sfidarla. E trovare una forza inaspettata, un'energia che sembra sprigionare direttamente dalla fatica. Il suo insegnante, Smotlak, spirito spericolato e grande scommettitore, capace di perdere a un tavolo da gioco un Goffriller del 1703, punta su di lei come si può puntare su un cavallo, e mira a farla diventare come gli altri, «quelli senza cuciture». Intorno a loro, una schiera di personaggi che impareremo a conoscere pagina dopo pagina: Odila, compagna di corso e unica amica, la terribile prof. Maltinti, il «sovietico» Maestro Cini... Ma «le vere lezioni non sono quasi mai a lezione», e Cecilia non tarderà a capirlo, scoprendo che una scommessa ben piazzata può portarti lontano e che un vero maestro insegna veramente tutto: perfino a vivere.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806244255
eBook ISBN
9788858434239
Parte prima

(Dal 1968 al 1974)

Capitolo primo

Apro gli occhi.
Sono sdraiata su qualcosa di scomodo, una luce abbagliante puntata sul braccio sinistro. Facce sconosciute mi scrutano da dietro delle mascherine bianche, qualcuno mi chiede se ricordo qualcosa.
Lí per lí nulla, però alcuni frammenti di memoria mi attraversano come una corrente calda e umida: è notte, il cruscotto oscilla paurosamente, la mia voce dice «Mamma perché sbandi», i fari delle auto arrivano in senso contrario, un urlo strozzato e uno schianto. Rumore di vetri che vanno in frantumi, poi un buio piú denso della notte.
– Grillo, – riesco a sussurrare dopo un tempo indefinito. Chissà dov’è finito, il grillo.
Le facce si guardano tra loro e annuiscono.
Un attimo dopo, ecco in bocca un sapore di marcio, una nausea terribile e poi di nuovo nero, come un risucchio nell’oscurità.
Nel buio comincio a percepire le gambe, sembrano ancora attaccate, e in un lampo rivedo l’immagine del mio braccio sinistro coperto di sangue e molto corto, il braccio di una bambola, sembra, non lo sento per niente, come la testa, le mani.
Un malessere insopportabile, il peggiore che abbia mai provato. Però, oltre la mia voce che si lamenta, qualcosa succede: il cervello mi sparpaglia davanti dei rimasugli arrivati da chissà dove, resti che sembravano nulla fino a prima, ma che ora si ingigantiscono. Come succede ai miei jeans, quando vengono rivoltati per essere messi ad asciugare, e dalle tasche cade un foglietto, un bottone, una gomma, una caramella zuppa.
E in quel pozzo del cervello vedo un po’ di tutto, perfino una collana della zia, una tartarughina acquatica, il coraggio di dire che odio il fegato alla veneziana.
Chissà dove sono finiti, i miei jeans. Le gambe me le sento nude e fredde.
Sono viva.
Mi sono fatta male.
Sono da sola.
Quelli con la mascherina vengono a guardarmi di continuo, come la torta nel forno, e cercano di tirarmi fuori dalla botola della paura, senza molto successo. Tremo, sgusciando sempre piú giú.
Rumori estranei. Metallici.
La cosa piú terribile sono queste pareti. Si gonfiano come membrane di un ranocchio e mostrano un reticolato disgustoso. Ma non ce la fanno a imprigionarmi perché le allontano con la mano destra, sibilando, come un serpente. L’odore dolciastro e sconosciuto forse è sangue.
Se ora apro di nuovo gli occhi vedo dei neon rotondi, una porta azzurra, un armadietto di ferro.
– Siete tutti cattivi… – anche la lingua non è collegata, si mette in moto da sola, senza preavviso.
– Cecilia, – mi disse dolcemente una voce di donna dopo un sacco di tempo. Attese che muovessi un po’ la testa, prima di continuare: – Sei all’ospedale di Pisa, tra poco verrà la mamma, che sta abbastanza bene. Il tuo grillo è scappato dalla gabbietta.
Volevo essere sicura che fosse vivo. Mi agitavo.
– Adesso canta nell’erba…
Provai a girarmi un po’ per ringraziare quella signora, ma mi sembrava di essere bloccata, vedevo solo qualcosa di bianco che svolazzava via, tipo velo delle suore.
Nell’ospedale faceva molto caldo, era la fine di maggio e c’era solo un ventilatore con le pale attaccato al soffitto che girava lentamente terrorizzandomi, ero certa che sarebbe diventato un gigante e mi avrebbe schiacciato peggio delle pareti. Un medico che bollai come vecchio brutto e calvo venne a dirmi che le allucinazioni erano la conseguenza del forte choc, e presto sarebbero passate. Costui, dopo aver detto questa cosa improbabile, mi informò che mi avrebbe aggiustato il braccio.
– Come facevo io con le bambole una volta…
L’essenziale iniziò da lí, da quelle stanze afose e buie dell’ospedale di Pisa dove il mondo esterno assunse i contorni di un organismo gigantesco, sleale, imprevedibile, con cui dover fare i conti per forza. E quindi da neutralizzare al piú presto.
Intanto in quell’incidente, che regalò un’indelebile cicatrice al tronco di un pino marittimo dell’Aurelia, lasciai una bella dose di fiducia nel futuro, ma soprattutto la certezza di essere invulnerabile.
Figlia unica curata e accudita come un bonsai nella serra dell’imperatore, fino a quel momento ero stata scrupolosamente tenuta al riparo dalle turbolenze dell’esistenza umana. E l’impresa era riuscita abbastanza bene, fino all’inconveniente dell’incidente. Cosí l’avrebbero chiamato in casa anni dopo, attribuendo all’accaduto la rilevanza di un contrattempo.
L’operazione al braccio che mi fece il luminare vecchio brutto e calvo fu lunga, di esito incerto, e richiese un’anestesia in grado di stendere un elefante. Inoltre segnò l’inizio dei disagi di mia madre, la quale quella sera si trovava al volante per scarrozzare marito, figlia e amichetta di contorno.
– Oddio, fortuna che ti sei fatta male soltanto te e non la tua amica, – cominciò col dire.
Magra consolazione, pensavo dall’armatura di gesso in cui mi avevano rinchiusa. Mi partiva dalla metà della mano sinistra per arrivare alla spalla e poi all’ombelico, tipo maglione, costringendomi a tenere il braccio sollevato e piegato ad angolo come se fossi rimasta pietrificata nell’infilarlo.
– Ma io sto male… – belavo sperando che mia madre raddrizzasse il tiro, invece niente. – Via via, sei una bimba matura e consapevole, – continuava a sragionare, – vedrai che queste cose ti serviranno, – ma non specificava a cosa, – e ricordati di non raccontare mai nulla ai nonni che altrimenti si disperano, specialmente il nonno. Anzi, di’ che sei caduta dalla bicicletta.
– Sarebbe una bugia, – concludevo in base ai canoni educativi.
– No no, sembra una bugia, ma è una cosa buona in questo caso.
Sarà, ma la faccenda prendeva una piega che mi sfuggiva, non me ne capacitavo neanche a mettere sotto pressione i neuroni piú reattivi. Mi faceva sempre male la testa, mi sentivo sola, incapace di spiegarmi. La lingua alle volte partiva con improperi inediti all’indirizzo di medici, infermieri e innocue degenti con la flebo che venivano a osservarmi. Mi dispiaceva anche, però proprio non dipendeva da me.
– Guarda che è già un miracolo che tu ti sia risvegliata cosí presto, – diceva la mamma.
Quindi c’era poco da meravigliarsi di quel terribile mal di testa.
Per il resto dovevo sempre allontanare le pareti che si deformavano e mi schiacciavano, e sudavo freddo. Il ventilatore, ormai fuori controllo, si staccava dal soffitto e mi vorticava sul naso facendomi agitare al punto di attirarmi l’infermiera con una siringa in mano. Mia madre questa cosa non la capiva, il ventilatore secondo lei non si spostava, e su questo non voleva sentire ragioni. Era un soggetto complesso, per certi aspetti indecifrabile, mia madre. Mi era sempre sembrato di non avere a che fare con una mamma normale ma con qualcosa di chimico, perché le sue reazioni erano imprevedibili. Insomma, nonostante fossi curata quanto un bonsai, a momenti mi mandava al Creatore.
– Ma babbo dov’è? – chiesi appena fui capace di stare seduta. Da seduta era un’altra vita, se non altro riuscivo a tenere a bada le pareti e il ventilatore almeno per una mezz’oretta di fila.
– È caduto nell’erba del fossato appena la macchina è uscita di strada, ha perso gli occhiali e si è slogato una caviglia.
Trascurò di dire che la macchina non era uscita di strada per conto suo, ma ce l’aveva mandata lei. Il perché non lo sapeva, anzi sosteneva che quell’auto aveva sempre goduto di una volontà propria.
– Ma te, mamma, cosa ti sei fatta?
– Mi sono rotta quattro denti ma me li hanno rimessi.
Aveva anche mezza faccia violacea, ma erano comunque bazzecole.
– Quindi soltanto io…
– Sí, – tagliò corto, – ma guarirai presto –. E si mise a singhiozzare prima di riuscire a precipitarsi fuori dalla stanza.
Ebbi la certezza che non me la sarei cavata alla svelta proprio per niente.
Poi spostai lo sguardo dal neon all’armadietto, al lenzuolo sfilacciato, al carrello con delle ferraglie dentro, e decisi di chiudere gli occhi. Mi sarei fatta soffocare dalle pareti e dal ventilatore, forse a quel punto mi conveniva anche.
Sopravvissi.
Tutto era in bilico: nessuno vedeva la realtà com’era, nessuno aveva il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, nessuno sapeva leggere il futuro. Cosí, per essere rassicurati sugli eventi, scrutavano la mia faccia o le mie parole quasi fossi stata la Pizia, e questo lo percepivo eccome.
Però di tempo per pensare ne avevo a tonnellate, lí dal mio letto macchiato di tintura di iodio, e se non ero alle prese con le allucinazioni potevo allenarmi nell’elaborazione dei dati. Scarsi quelli recuperabili, ma certi.
– E il babbo non ha nulla da dirmi?
– Tornato al lavoro, poverino.
Già, poverino.
– Messa cosí come faccio a giocare a campana?
– Non giochi, fai qualcosa di piú interessante.
– Tipo?
– Leggere, o portarti avanti con i compiti che hai saltato.
Non appena uscii dall’ospedale stando sulle mie gambe per miracolo, piantai una scenata epica come realizzai che lei pretendeva di riportarmi a casa proprio in macchina, e per la precisione a sud di Livorno, ossia con un viaggetto di mezz’ora da lí. Le infermiere dovettero darmi un sedativo (l’ennesimo) per caricarmici, e meno male, perché mia madre si rimise al volante dicendo pure che quella macchina era un’altra, una «piú sicura», e se non avesse guidato subito poi non l’avrebbe fatto piú.
Che dal mio punto di vista sarebbe stato l’ideale.
Per due mesi abbondanti mi rassegnai a convivere con la mia armatura di gesso, che rendeva vane le belle giornate di sole e la calma limpida e invitante del mare.
– Guai a bagnarsi, – era stato l’imperativo di un ortopedico, – si sbriciolerebbe la struttura.
Cosí me ne stavo in solitudine sotto un ombrellone piantato nel...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ricordati di Bach
  4. Parte prima. (Dal 1968 al 1974)
  5. Parte seconda. (Dal 1975 al 1980)
  6. Nota finale
  7. Ringraziamenti
  8. Il libro
  9. L’autrice
  10. Della stessa autrice
  11. Copyright