Tempo di imparare
eBook - ePub

Tempo di imparare

  1. 136 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Tempo di imparare

Informazioni su questo libro

Fare il nodo ai lacci delle scarpe, colorare dentro i contorni, lavare bene i denti, salire le scale senza timori. E poi: separare l'ansia dal pericolo vero, vincere, perdere, aspettare, agire, amare, confidarsi, farsi valere, rassegnarsi. A dover imparare tutto ciò, in questo romanzo colmo d'energia, sono una donna e il suo bambino. Lei ha l'esperienza, mentre lui per capire mira all'essenziale; lei ha occhi pronti a cogliere ogni spigolo, lui ha occhiali speciali, e le insegna a leggere il mondo. Davanti a loro si stagliano tutti gli ostacoli possibili, e per fronteggiarli hanno a disposizione molta paura e altrettante armi. Un libro scritto in prima persona, in cui Valeria Parrella, con una voce intima e abissale, ci parla della maternità e delle sue prove, di un mondo che «non ha proprio la forma della promessa», ma che - se si vuole vivere - va affrontato, un passo dopo l'altro. *** «Che libro che ha scritto Valeria Parrella, una giovane donna che trasforma il dolore in bellezza».
Concita De Gregorio «Il difficile e appassionato rapporto di una madre col suo bambino. Quello che la madre impara dal figlio è accogliere sino in fondo la sua stortura facendola diventare il luogo stesso della bellezza».
Massimo Recalcati

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806224578
eBook ISBN
9788858434383

Strutture profonde

Per un lungo periodo, nella nostra casa nessuno sapeva piú parlare. Io e tu e noi e l’altro sono stati un concetto dimenticato e confuso. Tu, ti riferivi a te stesso con il tu, perché io ti parlo cosí. Dove era la prima persona? Non si sapeva piú. Era confusa nei piatti quando ci si metteva a tavola, «Di chi è la pasta e patate?» Tua significava mia che significava tua. «Tua di mamma o tua di Arturo?» Chiedevo, e mi confondevo anche io.
«Arturo non ne vuole di pasta».
«Io non ne voglio di pasta», dicevo, per correggerti la frase, prima di dedicarmi al fatto che almeno altre cinque forchettate potevi ben mangiarle.
E allora tu pensavi che io ero io anche se invece eri tu.
E cosí via. Ti prendevo la mano, e te la portavo al petto, ripetevo «Io non ne voglio di pasta», ti modellavo il linguaggio. Innato. Cosí mi dicevano all’università.
Ma innato per chi?
Poi lasciai solo il gesto. Cosí tu tentavi la frase, io invece di correggerla ti toccavo al cuore e tu la rivolgevi in prima persona. Alla fine mi sono stancata.
– Non ce l’ha. Non ha la prima persona. Ci provo in tutti i modi ma non ce l’ha.
– Signora, non si arrenda, arriverà. Secondo me ce l’ha. Insista.
– Dottoressa io non posso piú insistere, perdo ogni spontaneità, ogni frase che dico sembra un gesto educativo, io voglio essere felice, fargli capire che l’ho capito: non correggerlo per ogni cosa.
– D’accordo: all’inizio uno insegna al figlio a mettersi il pigiamino da solo ed è un buon risultato se lo fa. Poi però gli insegna a metterlo dritto.
– Un pigiama è un pigiama, ma il linguaggio è trasversale a tutto: anche per insegnare a mettere il pigiama devi usare il linguaggio.
– Di cosa ha paura?
– Ho paura di perdere la relazione, di fargli sentire troppa distanza. La nostra relazione non dev’essere un premio, dev’essere quello che è. È la vita, non so come dire.
– Ma se lei corregge suo figlio lui penserà solo che ha una madre che lo ama molto e che è molto attenta a quello che lui dice e fa: è questa la relazione, signora. Non si scoraggi. Lui sentirà che lei può sopportare la frustrazione.
È tempo di cambiare classe: accogliere nuovi maestri, lasciarci guidare perché sanno guardarci negli occhi. Tenere stretta una frase che hanno pronunziato, tra tante, quando stai per cedere: e quella frase ti sostiene, e ti fa andare ancora un poco avanti.
– Questa neuropsichiatra mi piace, – dico ad Ariel, – mi dà fiducia. A me, pure se è la neuropsichiatra di Arturo: mi chiama lei, controlla la scuola, chiama lei a scuola, insiste, dice che Arturo ce l’ha la prima persona.
È tempo di tornare sui libri di grammatica, aprirli piano, cercare nell’indice alla fine, scovare la pagina: marcare l’io e il tu, farli essere irriducibili l’uno all’altro eppure intercambiabili.
Faccio i tatzebao, li attacco ai muri della stanzetta:
IO SONO ARTURO
TU SEI MAMMA
LUI È ARIEL
NOI SIAMO UNA FAMIGLIA
VOI SIETE I NONNI
LORO SONO PERSONE CHE NON CONOSCIAMO
Li guardi una volta, li leggi, ti diverte. Null’altro.
Scrivo una favola sulla falsariga di quelle che conosci:
C’era una volta la mia mamma.
Sei anni fa la mia mamma mi portava nella pancia, poi un giorno sono nato io.
E mia mamma mi ha chiamato Arturo.
Sono subito arrivato alla mia casa di Città, dove ho una bella stanza verde con il mio letto, il mio armadio e la mia scrivania.
Sulla mia scrivania c’è il mio computer, che è il gioco che mi piace di piú.
Nella mia stanza ci sono anche tanti libri, piú di cento. Io leggo molto volentieri.
Quest’estate sono andato in vacanza sull’Isola, dove ho imparato molte favole: quella di Cenerentola, quella di Biancaneve e quella di Pinocchio. Invece quella di Cappuccetto Rosso la conoscevo già.
Quando vado a mare Ariel mi insegna a nuotare senza braccioli e mi fa fare i tuffi. Quando sono a casa mi faccio la doccia.
Se voglio qualcosa chiedo: «Per favore, voglio l’acqua».
Oppure: «Per favore, voglio giocare con il tablet».
Quando è il mio turno mi metto un dito sul cuore e dico: «IO!»
Per esempio, mamma mi chiede: «Chi vuole il gelato?»
E io rispondo: «IO».
Oppure Ariel mi chiede: «Di chi sono questi braccioli?»
E io rispondo «MIEI».
Oppure mamma mi chiede: «Chi mi fa le coccole?»
E io rispondo: «IO».
Oppure Ariel mi chiede: «Di chi è questo libro?»
E io rispondo: «È MIO».
Cosí viviamo felici e contenti per tutta la vita.
FINE
La logopedista si commuove. Lo psicomotricista invece dice che non dobbiamo credere che dipenda da noi.
Io seduta sul divano guardo le coste dei miei libri, e la distanza che sento da essi è piú profonda delle mattonelle che ci sono tra il divano e la libreria: è la distanza tra ciò che ho studiato e quello che vivo.
È allora che Chomsky si viene a sedere vicino a me.
– Posso offrirti qualcosa? – gli faccio.
– Un bicchiere d’acqua.
– Ma parli con me? – grida Ariel dall’altra stanza.
– No, parlo da sola.
– È geloso? – fa Chomsky indicando oltre il muro, da dove viene la voce.
– Forse un poco ma non lo dà a vedere: è orgoglioso.
Mi sta seduto affianco con gli occhiali quadrati e guarda quella stessa libreria che fisso da una ventina di anni. I libri di linguistica stanno tutti avanti, ma lui è in una piccola edizione Universale Laterza tra Hjelmslev e Vygotskij, polveroso e un poco verso l’interno. Cerco di distrarlo:
– Noam, cosa c’è al fondo della nostra piscina di Babele?
– Guarda, – e indica il fondo del bicchiere. Dentro è come Atlantide, teorie di strade, scale e torri, ponti e terrapieni, costruzioni magnifiche e rovine.
– Nella profondità della nostra solitudine affollata, nella profondità del bicchiere lí dove anche Arturo si va a immergere, lí in fondo ci sono le strutture della sua lingua, quelle parti della grammatica che d’un tratto, evocate, salgono in superficie e diventano parola detta, frase, verbo –. Allora faccio per bere, ma lui mi ferma. – Non ti fa schifo? Ci ho già bevuto io…
Siamo davanti a un piatto di lenticchie, e con disinvoltura, senza inciampare, cosí come tiri su dal piatto la minestra, dici: – Ho mangiato cinque cucchiai –. Poi ti alzi e mi dichiari: – Devo andare a giocare –. E io resto a soffiarmi il naso nel tovagliolo, come non si fa. Attonita, stordita, a guardare le parole tue coniugate e declinate giuste. Tu vai e io resto ancora un po’: esse fluttuano nell’aria densa della cucina, si scrivono sui vetri appannati dell’inverno, salgono nella notte. Ci sono, c’erano.
A volte io e Ariel ci incontriamo dopo una giornata lunga e piena di cose. Siamo nel bagno insieme, senza paura di consumare l’intimità in luoghi e gesti inappropriati: lavarsi i denti, fare pipí.
– Oggi ha fatto una frase bellissima! – mi fa.
– Com’era?
– Aspetta, stavamo tornando verso casa, io gli ho chiesto cosa ha mangiato a scuola… e lui, aspetta… mannaggia mo non mi ricordo…
E pure a me capita di catturare una frase bellissima e poi non saperla ricordare per Ariel. Finché lui intuisce:
– Ma è ovvio che non ce le ricordiamo: vuol dire che la conversazione è stata normale. Perché ci dovremmo ricordare una cosa normale?
Cosí impariamo che ciò che per tutti è normale, per noi è bellissimo.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tempo di imparare
  4. Prologo
  5. Tempo di imparare
  6. Quadri
  7. Riserve
  8. Rivelazione
  9. Preghiera
  10. Figure piane
  11. Mare
  12. Deserto
  13. In missione
  14. Giusto e sbagliato
  15. Rabbia primitiva
  16. Dialogo con Miranda
  17. Rabbia primitiva 2
  18. Domande
  19. Nostos
  20. Risposte
  21. Pesi e misure
  22. Pioggia
  23. Intimità
  24. Vietato passare
  25. Come api
  26. Il primo giorno
  27. Incontri al buio
  28. Boh?
  29. Sul pontile
  30. Tonia e Antonio
  31. Integrazione
  32. Risveglio
  33. L’uomo sulla luna
  34. Strutture profonde
  35. Anni e anni
  36. Lei dov’era?
  37. Disintegrazione
  38. Figure solide
  39. Risonanza
  40. Epilogo
  41. Ringraziamenti
  42. Il libro
  43. L’autrice
  44. Della stessa autrice
  45. Copyright