Tutti i racconti
  1. 400 pagine
  2. Italian
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eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Celebrati, introvabili, inediti, commissionati o nati per gioco: per la prima volta in un unico volume tutti i racconti di Javier Marías, classificati secondo il suo personale giudizio - e la consueta autoironia - in «accettati» e «accettabili». Ma è difficile trovare qualcosa di meno che perfetto tra le pagine del grande maestro spagnolo, raffinato tessitore di romanzi monumentali quanto di capolavori della forma breve. Dalle atmosfere oniriche di Mentre le donne dormono, alla picaresca Hollywood di Malanimo, passando per la dimensione evanescente di Quand'ero mortale, tra temi ricorrenti e personaggi affezionati, questa raccolta rappresenta una via d'accesso privilegiata al seducente universo letterario di Javier Marías. «Concepisco di scrivere qualcosa soltanto se mi diverto, e posso divertirmi soltanto se m'interesso. Non è necessario aggiungere che nessuno di questi racconti sarebbe stato scritto se non avessi provato interesse nei suoi confronti», dichiara Marías in una delle note preliminari di questo volume - e l'affermazione trova evidente riscontro anche nelle poche e gustose pagine introduttive - in cui per la prima volta sono riuniti tutti i suoi racconti, dalle celebri raccolte Mentre le donne dormono e Quand'ero mortale, a Malanimo, quasi un romanzo a sé, fino agli inediti piú o meno recenti. Dottori ambigui, misteriose guardie del corpo, fantasmi testardi, inquietanti doppelgänger, un'aspirante attrice porno, una donna e un uomo vittime di una lancia africana, un maggiordomo incastrato in un ascensore, un amante perseguitato dai ricordi, una coppia mafiosa caduta in disgrazia, un killer professionista che cerca di dissuadere coloro che vogliono assumerlo: varcata la soglia dell'affascinante universo dei racconti di Marías, il lettore non potrà che essere d'accordo a proposito di quella perfetta combinazione tra divertimento e interesse, e innegabile passione, che ha animato il loro autore. Che si tratti di romanzi monumentali o di piccoli tesori della forma breve, con la sua arte narrativa Marías traccia percorsi imprevedibili costellati di segreti, ossessioni, fatali coincidenze, raggiungendo un livello di profondità e tensione tale da lasciare suggestioni indelebili nella memoria del lettore.«In queste storie possiamo catturare e assaporare, come in un concentrato, ciò che costituisce l'essenza del talento narrativo di Javier Marías».
«La Quinzaine littéraire»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2020
Print ISBN
9788806246280

Racconti accettati

Le dimissioni di Santiesteban

Per Juan Benet,
con quindici anni di ritardo
Forse per una di quelle stravaganze alle quali il caso non riesce ad abituarci malgrado la sua insistenza; o forse perché il destino, in un’ostentazione di sospetto e di precauzione, per qualche tempo aveva messo in dubbio le condizioni e le capacità del nuovo professore e si vide obbligato a ritardare il suo intervento, per non correre il rischio di essere in seguito messo in discussione; o forse perché alla fine, in queste terre meridionali, perfino i piú audaci e invulnerabili diffidano delle proprie doti di persuasione, il fatto certo è che il giovane Mr. Lilburn non ebbe modo di appurare se c’era qualcosa di vero nei singolari avvertimenti che il suo diretto superiore, Mr. Bayo, e altri colleghi gli avevano dato appena pochi giorni dopo aver preso servizio presso l’istituto, finché il suo corso non fu andato abbastanza avanti da consentirgli di dimenticare o quanto meno rimandare la comprensione del loro possibile significato. In ogni caso il giovane Mr. Lilburn apparteneva a quel genere di persone che prima o poi, nel corso delle loro fino a quel momento poco movimentate vite, vedono le proprie carriere rovinate e le proprie incrollabili convinzioni sconvolte, respinte e perfino messe in ridicolo da qualche accadimento con le stesse caratteristiche di quello di cui andiamo adesso a occuparci. A ben poco gli sarebbe valso, dunque, astenersi dal rimanere la notte per chiudere l’edificio.
Lilburn, che superava di un anno la trentina, non aveva avuto la minima riserva nell’accettare il posto che attraverso Mr. Bayo gli era stato offerto dal direttore dell’Istituto britannico di Madrid. Anzi, in realtà, aveva provato un certo sollievo e qualcosa di molto simile al discreto compiacimento, incompleto e atono, che in certe situazioni sono capaci di sperimentare solo quegli uomini che, per quanto non oserebbero mai sognare certe qualifiche che considerano a priori inadatte a loro, purtuttavia, sperano sempre di migliorare la propria posizione come se fosse la cosa piú naturale del mondo. E sebbene il suo lavoro nell’istituto, di per sé, non rappresentasse alcun miglioramento, né economico né sociale, rispetto alla sua posizione precedente, il giovane Mr. Lilburn diede molta importanza all’apposizione della sua firma sul poco ortodosso contratto che Mr. Bayo gli aveva presentato durante il suo soggiorno estivo a Londra e considerò che, anche se nove mesi all’estero equivalevano a un invito a dimenticare la sua presenza e le sue attitudini nell’ambito della sua città natale e alla perdita – d’altra parte non del tutto irrimediabile, supponeva – del suo posto, comodo ma eccessivamente mediocre, al Politecnico del Nord di Londra, rappresentavano anche la per nulla disdicevole possibilità di entrare in contatto con personaggi di piú alto rango amministrativo e, soprattutto, con i prestigiosi membri del corpo diplomatico. E le relazioni con, per esempio (e perché no?), un ambasciatore avrebbero potuto essergli di grande utilità, per sporadiche e superficiali che fossero, in un futuro non necessariamente molto lontano. Cosí dunque, a metà settembre, e con l’indifferenza caratteristica dell’uomo moderatamente ambizioso, fece i preparativi, raccomandò un sostituto meno qualificato di lui per il posto che lasciava vacante presso il Politecnico e si presentò a Madrid disposto a lavorare sodo se necessario, a guadagnarsi la stima e la fiducia dei suoi superiori per il ritorno che un domani poteva derivarne e a non lasciarsi sedurre dalla flessibilità degli orari spagnoli.
Presto il giovane Lilburn riuscí a mettere ordine nella sua vita in quel paese straniero, e dopo i primi giorni di incertezze e contenuto sconcerto (gli stessi che fu costretto a trascorrere in casa dell’anziano Mr. Bayo e sua moglie in attesa che i precedenti inquilini lasciassero definitivamente un piccolo attico ammobiliato che Mr. Turol, un altro dei suoi colleghi spagnoli, gli aveva garantito dal primo di ottobre nella calle de Orellana: il prezzo dell’affitto superava la cifra preventivata da Lilburn, ma non era caro se si teneva conto che la zona era centrale e offriva l’incomparabile vantaggio di essere molto vicino all’istituto), stilò un meticoloso e – se l’arco dell’intero corso lo avrebbe permesso – invariabile programma giornaliero che in effetti, benché arrivasse solo fino al mese di marzo, riuscí a mantenere inalterato. Si alzava alle sette in punto e, dopo aver fatto colazione in casa e aver brevemente ripassato ciò che pensava di dire in ciascuna lezione della mattina, si recava all’istituto per impartire i suoi insegnamenti. Nell’ora di ricreazione discuteva con Mr. Bayo e Miss Ferris sul riprovevole stato di indisciplina in cui versavano le scolaresche spagnole, e durante il pranzo tornava a ripetere le stesse osservazioni a Mr. Turol e Mr. White. A fine pranzo ripassava le lezioni del pomeriggio e subito dopo le esponeva dosando maggiormente i propri sforzi rispetto alla mattina e, una volta finito, si tratteneva nella biblioteca dell’istituto dalle sei alle sette e mezzo per consultare dei libri e preparare il lavoro del giorno dopo. Raggiungeva allora l’elegante casa della signora vedova di Giménez-Klein, nella calle Fortuny, per dare alla nipote di otto anni una lezione privata di inglese di un’ora (questo lavoro, semplice e ben remunerato, glielo aveva procurato Mr. Bayo, il suo protettore), e infine tornava nella calle de Orellana verso le nove e mezzo o poco piú, in tempo per sentire le notizie alla radio: sebbene all’inizio non capisse quasi nulla, Lilburn era convinto che quello fosse il modo migliore per imparare a pronunciare correttamente il castigliano. Allora consumava una cena leggera, studiava uno o due capitoli di un manuale di grammatica, memorizzava velocemente infinite liste di verbi e sostantivi e, puntualmente, alle undici e mezzo si coricava. Il lettore che conosce le strade di Madrid qui menzionate e ricorda dove si trovano gli edifici occupati dall’istituto potrà intuire con estrema facilità che la vita di Lilburn non poteva essere altro che metodica e ordinata, e che con ogni probabilità i suoi piedi, alla fine della giornata, non avrebbero fatto piú di duemila passi. I suoi fine settimana, tuttavia, con l’eccezione di qualche sabato in cui prese parte a delle cene o a dei ricevimenti offerti ai visitatori di università britanniche di passaggio a Madrid (e, in una sola occasione, un cocktail dell’ambasciata), erano un mistero per i suoi colleghi e superiori, i quali supponevano, basandosi unicamente sul fatto poco rilevante che in quei giorni non rispondeva mai al telefono, che li impiegasse facendo qualche breve gita nelle città piú vicine alla capitale. In realtà, a quanto pare, o per lo meno fino al mese di gennaio o febbraio, il giovane Lilburn passava i sabati e le domeniche rinchiuso nel suo appartamento della calle de Orellana dibattendosi fra i capricci e le velleità delle coniugazioni castigliane. E si può presumere che allo stesso modo abbia passato le vacanze di Natale.
Derek Lilburn era un uomo di scarsa immaginazione, gusti volgari e passato irrilevante: figlio unico di una coppia di attori mediocri e improvvisati che avevano raggiunto una certa popolarità (non il prestigio) nei primi anni della Seconda guerra mondiale con un repertorio isabellino e giacobino che comprendeva Massinger, Beaumont & Fletcher e Heywood il giovane, e che tuttavia evitava con attenzione autori di maggior calibro quali Marlowe, Webster o lo stesso Shakespeare, dai suoi genitori non aveva ereditato nulla che potesse assomigliare a quella che una volta era chiamata vocazione scenica; anche se ci sarebbe da chiedersi se nello spirito dei suoi avi ci fu mai qualcosa del genere: alla fine del conflitto, quando i divi, desiderosi di recuperare le proprie posizioni e bisognosi di applausi, tornarono a calcare le scene con slancio e regolarità, e i lenti lavori di ricostruzione, cosí come il rientro in massa delle soldatesche, fecero di Londra una città se non piú angosciante, comunque piú scomoda di quanto già non fosse durante i bombardamenti, i Lilburn, apparentemente senza nostalgia, abbandonarono la capitale e la professione. Si stabilirono nella città di Swansea e lí aprirono un negozio di prodotti di importazione, probabilmente col denaro che avevano risparmiato negli anni consacrati all’abietta e ingrata arte dell’interpretazione. Di quei tempi movimentati rimasero solo dei manifesti che annunciavano Philaster e The Revenger’s Tragedy e ciò che, parlando di loro, mi ha portato ad anteporre le loro incursioni nel dramma alla loro vera condizione di commercianti: mera aneddotica. Né libri né erudizione accompagnarono l’infanzia del giovane Lilburn, e si può stare certi che non godette neppure dell’unica involontaria traccia sopravvissuta nei bottegai di Swansea: un’intonazione enfatica, petulante o affettata nelle conversazioni domestiche e banali.
La morte di suo padre, avvenuta quando il giovane Derek aveva appena compiuto i diciotto anni, gli consentí di farsi carico del negozio personalmente, e quella di sua madre, alcuni mesi piú tardi, gli serví da buon pretesto per vendere i locali, trasferirsi a Londra e lí pagarsi gli studi superiori. Una volta terminati con l’ingannevole brillantezza del diligente, esercitò la professione di insegnante – senza che nel breve intervallo gli venisse mai il benché minimo dubbio sulla sua vocazione – nelle scuole statali per diversi anni, finché nel 1969, grazie alla sua superficiale e interessata amicizia con uno dei professori dell’istituto, ottenne il posto al Politecnico che adesso aveva rifiutato in favore di un breve soggiorno – periodo che, inoltre, si supponeva di transizione – all’estero.
Da tutti quelli che ci sono passati, come professori, come alunni o come semplici frequentatori della biblioteca, è risaputo che le porte dell’istituto si chiudono alle nove in punto (cioè, mezz’ora dopo il termine delle ultime lezioni serali). A occuparsene è il portiere, per chiamarlo in un modo convenzionale, giacché le sue mansioni, ed è ormai quasi una norma in questo tipo di istituti di insegnamento misto, spesso si allontanano da quelle previste dal suo titolo per avvicinarsi invece molto ai compiti del bibliotecario e del bidello. Quest’uomo deve controllare l’ingresso e l’uscita delle persone estranee all’edificio, occuparsi delle svariate prescrizioni, commissioni o necessità dei docenti, pulire le lavagne che per negligenza o dimenticanza alla fine della giornata sono rimaste invase di numeri, nomi illustri e date significative, fare in modo che nessuno esca dalla biblioteca con un libro senza che il fatto sia stato debitamente registrato e, infine – e lasciando da parte altri compiti di minore rilievo –, assicurarsi che alle nove meno cinque l’edificio sia deserto e, se lo è, chiudere le porte fino alla mattina seguente. Fabían Jaunedes, l’uomo che si occupava di questo complesso lavoro di portiere quando il giovane Derek Lilburn arrivò a Madrid, da quasi ventiquattro anni lo faceva con la perfezione di chi praticamente ha creato l’incarico che svolge. Per questo, quando all’inizio di marzo, e con una certa precipitazione e urgenza, dovette essere ricoverato e operato alle cataratte e fu pertanto costretto ad abbandonare le sue occupazioni almeno per la durata della convalescenza (che sarebbe stata senz’altro incompleta o parziale e che ad ogni modo avrebbe comunque rappresentato un periodo di tempo maggiore di quello che i responsabili dell’istituto avrebbero voluto), la vita interna dell’istituto subí piú alterazioni di quante se ne sarebbero potute immaginare in principio. Il direttore e Mr. Bayo scartarono quasi immediatamente la possibilità di assumere un sostituto, poiché da un lato, pensarono, sarebbe stato molto difficile trovare in breve tempo qualcuno con delle buone referenze che fosse disposto a impegnarsi solo per quel che restava del corso per poi, forse, essere a sua volta rimpiazzato (e sebbene non confidassero in una rapida ripresa del vecchio portiere, avevano l’impressione che offrire il posto vacante per un numero di mesi superiore a cinque, avrebbe significato fare definitivamente a meno di Fabián e, pertanto, sarebbe stato un brutto gesto di slealtà verso di lui, che in tanti anni era stato cosí leale ed efficiente). E dall’altro, con quella capacità, o confusa necessità che hanno le persone di una certa età o di lenta immaginazione, di confondere le rinunce o le concessioni piú futili con gesti veramente epici, considerarono che a fronte dell’inatteso contrattempo, che loro avrebbero piuttosto qualificato come avversità, non sarebbe servito altro che un piccolo sacrificio da parte di tutti i professori, che avrebbero facilmente potuto dividersi i vari compiti del portiere assente e cosí trovare l’occasione per dimostrare la propria abnegazione all’istituto. La bibliotecaria fu incaricata di controllare il passaggio di sconosciuti dalla porta principale, che lei poteva adocchiare con estrema facilità dalla sua posizione abituale; Miss Ferris di tenere aggiornati, senza che si ammucchiassero, gli annunci e i comunicati esposti nei pannelli dell’ingresso; Mr. Turol di ispezionare ogni certo numero di ore la condizione dei bagni e la caldaia; a quei professori che terminavano le proprie lezioni alle otto e mezzo si raccomandò vivamente di fare in modo che qualcuno degli alunni pulisse la lavagna prima di andare via; e, per ultimo, fu stabilito un turno equo fra i membri del personale ai quali non era stato assegnato alcun obbligo specifico: qualcuno doveva sempre rimanere nell’edificio fino alle nove di sera per controllare che tutto fosse in ordine e chiudere le porte a chiave. E sebbene ciò presupponesse un grave inconveniente per il rigido orario di Lilburn, egli non poté fare altro che saltare un giorno alla settimana il suo appuntamento con la piccola Giménez-Klein e contribuire con i suoi superiori e colleghi al buon funzionamento dell’istituto trattenendosi in biblioteca fino alle ventuno, come prescritto, tutti i venerdí a partire dal mese di marzo.
Fu allora, il primo venerdí in cui doveva assolvere alla sua nuova incombenza, che Mr. Bayo, con la stessa disinvoltura con cui Lilburn si era chiesto, sbalordito, nel prendere servizio nell’istituto, se quell’uomo dall’aspetto serio e la condotta irreprensibile sarebbe stato capace di essere stravagante, ravvivò nella sua memoria quell’avvertimento iniziale che già allora gli aveva prodotto una certa sensazione di inquietudine:
– Stasera, – gli disse nell’ora di ricreazione, – lo sa: non si preoccupi del fantasma. Credo di averglielo già rapidamente spiegato al suo arrivo, ma ci tengo a ricordarglielo di nuovo qualora l’avesse dimenticato, dal momento che oggi tocca a lei restare di guardia e potrebbe impaurirsi per i rumori che fa il signore di Santiesteban. Alle nove meno un quarto sentirà una porta aprirsi di colpo e sentirà sette passi di andata e, dopo un breve silenzio, altri otto di ritorno. Poi, la porta che si era aperta si chiuderà, senza altrettanto strepito, ovviamente. Non si spaventi e non ci faccia caso. Questo fatto si ripete da non si sa quanto, naturalmente da prima che l’istituto avesse la sua sede principale in questo edificio. Pertanto non ha nulla a che vedere con noi e, come potrà immaginare, ormai ci siamo piú che abituati; senza parlare del povero Fabián, che alla fine era poi l’unico che lo sentiva. La prego soltanto, visto che le chiavi resteranno a lei fino a lunedí e pertanto quel giorno dovrà essere il primo ad arrivare per aprire, di non dimenticare di togliere dalla lavagnetta di sughero che sta proprio di fronte al mio ufficio la lettera di dimissioni. Lo faccia subito appena entra, per favore. Sebbene tutti siano al corrente dell’esistenza del signore di Santiesteban (non la nascondiamo a nessuno, mi creda, e nessuno si sente disturbato né irritato dalla sua presenza, del resto molto discreta), cerchiamo tuttavia di non farla interferire in modo eccessivo con la vita degli alunni che, essendo bambini, sono piú sensibili di noi a questo genere di inspiegabili accadimenti. Ricordi, dunque, se non le dispiace, di togliere il foglio. E, naturalmente, lo getti dritto nel cestino piú vicino. Si immagini se li conservassimo! A quest’ora ne avremmo una stanza piena. Ogni tanto ci ripenso! Che assurdità! Notte dopo notte, alla stessa ora, lo stesso testo; identico, senza una parola, senza una sillaba cambiata. Questa si chiama perseveranza, non crede?
Il giovane Lilburn non fece alcun commento e si limitò ad assentire con la testa.
Ma quando si fece buio, mentre era in biblioteca a correggere compiti in attesa che arrivasse l’ora di chiudere l’edificio e andarsene a casa, sentí, infatti, che una porta si apriva con gran violenza facendo tremare i vetri, e poi dei passi pesanti e decisi – per non dire agitati –, un breve silenzio che durò alcuni secondi, di nuovo una serie di passi, ora piú quieti, e alla fine la stessa porta (si supponeva), che si chiudeva con dolcezza. Guardò l’orologio appeso a una delle pareti della stanza dove si trovava e vide che erano le otto e quarantasei minuti. Piú irritato che sorpreso o intimorito, si alzò dalla seggiola e uscí dalla biblioteca. Nel corridoio si fermò e rimase in silenzio, in attesa che si producessero nuovi rumori, ma non sentí nulla. Allora perlustrò l’edificio in cerca di qualche alunno che si fosse attardato o in vena di scherzi al quale avrebbe cercato di mostrare, piú che altro, l’inutilità della sua monelleria, ma non trovò nessuno. Suonarono le nove e cosí decise di andarsene senza dare ulteriore importanza a quel fatto; ma mentre si stava preparando per uscire ricordò una delle osservazioni – quella che forse l’aveva maggiormente colpito – che gli aveva fatto Mr. Bayo: salí al primo piano e si avvicinò alla lavagnetta di sughero che si trovava nel corridoio, di fronte all’ufficio del suo superiore. Vide soltanto, fissato con quattro puntine, l’avviso ben noto che annunciava un ciclo di conferenze su George Darley e altri poeti romantici minori che un visiting professor del Brasenose College avrebbe tenuto a partire da aprile. E non c’era assolutamente nulla che assomigliasse a una lettera di dimissioni. Piú tranquillo, e anche piú soddisfatto, si avviò verso la calle de Orellana e non ripensò piú a quell’episodio fin quando il lunedí, a metà mattinata, Miss Ferris gli andò incontro dopo una lezione e gli riferí che Mr. Bayo desiderava vederlo nel suo ufficio.
– Mr. Lilburn, – gli disse l’anziano professore di storia quando gli fu davanti, – ricorda che la pregai espressamente di non dimenticare di togliere questa mattina, prima di fare qualunque altra cosa, le lettere di dimissioni del signore di Santiesteban dalla lavagnetta di sughero qui davanti?
– Sí, signore, lo ricordo perfettamente. Ma venerdí sera stesso, dopo aver sentito lo scalpiccio di cui mi aveva informato, sono salito per attendere alla sua richiesta ma sulla lavagnetta non ho visto nulla. Dovevo forse tornare a controllare questa mattina?
Mr. Bayo si batté la fronte come chi si rende conto di qualcosa e rispose:
– Oh, certo, in realtà è colpa mia che non l’avevo avvertita. Sí, Mr. Lilburn, avrebbe dovuto controllare soltanto stamani. Comunque, non ha nessuna...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota preliminare a questa edizione
  4. Nota preliminare a Mentre le donne dormono
  5. Nota preliminare a Quand’ero mortale
  6. I racconti
  7. Racconti accettati
  8. Racconti accettabili
  9. Nota editoriale.
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright