M come mørket, «buio»; come mistro, «diffidenza»; e come misunnelse, «invidia». M come mann, «uomo»; come mareritt, «incubo»; e come maltraktering, «sevizie».
M come mørkecellen, «la cella del buio», quella che c’era a Falstad, e tu eri disposto a tutto pur di evitare di esservi rinchiuso. Era un ripostiglio senza finestre, nel quale le guardie versavano acqua a secchiate, in modo che formasse uno strato alto un paio di dita, per impedire al prigioniero di sedersi. In una cupa mattina di marzo un uomo è stato spinto là dentro. L’hai visto abbassare lo sguardo sui propri piedi nell’acqua, senza una parola, prima che la porta venisse chiusa e sprangata. In seguito hai sentito che veniva trascinato fuori, picchiato, poi di nuovo rinchiuso in quella cella. Non hai mai saputo il perché. Ogni volta che ti giungevano all’orecchio le sue grida di sofferenza, la tua emozione predominante era il sollievo che non fosse toccato a te. Quando una delle guardie ti scrutava per assicurarsi che avessi ben capito cosa stava accadendo, ti affrettavi a girarti e passare oltre, prima che a qualcuno saltasse il ticchio di sottoporti allo stesso trattamento.
M come musikken, «la musica», e come minnene, «i ricordi», quelli dei pomeriggi in cui Marie si sedeva al pianoforte nella casa in Klostergaten a eseguire una sonata di Chopin o qualche semplice brano di Mozart. Melodie composte centinaia d’anni prima riempivano l’appartamento, in un ciclo continuo a tratti interrotto da uno dei bambini che si avventava sulla tastiera, martellando le ottave piú gravi con una manina ben allargata e con occhi cosà grandi e innocenti che era difficile sgridarlo, anche se sarebbe stato il caso. Poi i bambini sono cresciuti, dunque niente piú interruzioni. Però Marie suonava sempre piú di rado, appena qualche breve studio, e non era detto che a metà del pezzo non si alzasse all’improvviso, con un’espressione malinconica.
M come monsteret, «il mostro», quello che si annida in ognuno di noi.
M come människa, la parola svedese che significa «essere umano», e anche come minnet, «il ricordo», quello di una delle cose che Lillemor ci ha detto quando siamo andati a trovarla a Stoccolma, e che mi sono rimaste impresse: – Di tutte le creature viventi, la piú brutale è l’uomo. Sa essere tanto cruento… e anche tanto buono. Sa essere l’una e l’altra cosa, – ha detto, con un rapido frullo della mano vizza. «L’una e l’altra cosa» sono come i due lati della mano: quello esterno, che sferra pugni, e quello interno, che si posa su una guancia e l’accarezza delicatamente per dare conforto, o regge la testolina di un neonato, o plasma un vaso sul tornio, via via che l’argilla turbina contro il palmo.
M come motstandsbevegelsen, «la Resistenza». – È quella che lei ha il compito di portare allo scoperto, di smascherare… – dice Gerhard Stübs, una mattina, al quartier generale presso il Misjonshotellet. – Lei deve stare sempre all’erta, dappertutto. Annotare qualunque elemento sospetto e poi fare rapporto a me. Ha capito? – chiede. Rinnan lo ringrazia per l’ennesima volta della fiducia, poi esce. Si fa largo nel brulichio di soldati e funzionari con carte e scatoloni, pensando che ora dovrà impegnarsi a fondo.
Lavora su cose piccole. Gli è stato detto che nessun avvenimento è insignificante, perciò riempie quaderni e quaderni di informazioni, perché deve far vedere quant’è diligente, dimostrare che hanno fatto bene a reclutarlo e che hanno motivo di continuare a servirsi di lui. Visita le fattorie che già conosce, annotando l’ubicazione dei depositi di armi e le simpatie politiche delle varie persone. Perfeziona il suo modo di esprimersi e di presentarsi, e gradualmente amplia il territorio di caccia. Nell’autunno del 1940 viaggia nel Romsdal, dove trova un chiosco gestito da un uomo piuttosto loquace, il quale, dopo qualche commento sulla scoraggiante condizione della Norvegia occupata dai tedeschi, racconta con sconcerto di due sue clienti che, appena poco prima, si sono espresse in toni entusiastici sul nazismo.
– Dico io, non è una vergogna? – conclude, sfilandosi dai denti un pezzetto di tabacco.
Rinnan sorride e si sporge sullo sportello del chiosco. – Sa una cosa?
– Dica.
– Quelle due… Le ho mandate io.
– In che senso? – chiede l’uomo, confuso, arretrando e lanciando un’occhiata alla porta, come se stesse meditando di darsela a gambe.
– Volevo metterla alla prova. Vedere come avrebbe reagito, – risponde Rinnan a voce bassissima, quasi bisbigliando, battendo una sigaretta contro la mensola dello sportello. – Con i tempi che corrono, non si può mai sapere. Se lo immagina che ci sono norvegesi che passano dalla parte dei tedeschi? Come dicevo, ho mandato qui quelle due signore per capire come la pensasse lei. Adesso sappiamo per certo che sta dalla parte giusta.
– Ma… ma perché? – chiede l’uomo, in ansia.
– Sono in ricognizione in questa zona, sto cercando collaboratori disposti a nascondere armi… e a formare raggruppamenti di sostegno alla Resistenza. Lei conosce qualcuno a cui potrei rivolgermi?
Il gestore del chiosco fa un sorriso di sollievo e gli fornisce un indirizzo. Una porta alla quale andare a bussare. E lÃ, altre persone lo accolgono. Altri nomi da annotare sul quaderno, la sera, prima di rimettersi al volante e tornare indietro, per riferire a Stübs tutte le sue scoperte. Continua a viaggiare da solo nelle province, in treno, in corriera o in auto, ma prima o poi torna sempre a dormire con la famiglia, anche se le sue permanenze a casa sono sempre piú brevi. Abbraccia i bambini, portando doni e prelibatezze, e vede le loro faccette illuminarsi di gioia. Ecco come si sta, ad avere per padre lui. Si hanno zucchero e pane fresco, giacche nuove e maglioni pesanti. Si hanno spezzatino di carne e dolci, acquavite e sigarette. E le altre famiglie? Quelle vivono di tessere annonarie, generi razionati, centesimi raggranellati qua e là , e solo perché non hanno abbastanza buonsenso da rendersi conto di cosa si perdono. Basterebbe che si guardassero intorno, per capire dove va il mondo e chi vincerà la guerra. Basterebbe che aprissero un giornale, per vedere che piega stanno prendendo le cose. Tutte le prime pagine parlano delle continue vittorie tedesche, su fronti sempre nuovi. E del Reich che ingloba nazione dopo nazione.
Poi arriva la notizia: Adolf Hitler ha grandi progetti per il Trøndelag, vuole fondare una metropoli ariana, e qualcuno parla di costruire a Trondheim una base sotterranea per sommergibili, per bloccare le navi inglesi cariche di armi e soldati. Ne arrivano di continuo, per dare appoggio alla Resistenza, che volta dopo volta riesce a riorganizzarsi e tornare all’attacco, uccidendo militari, facendo saltare le linee ferroviarie e i ponti di cui hanno bisogno i tedeschi. Rinnan comprende la gravità della situazione, ma scorge anche un’opportunità per un exploit in grande stile, per esempio infiltrandosi nei gruppi partigiani della contea di Møre e Romsdal. Se riuscisse a scoprire dove sbarcano i rifornimenti e chi li accoglie… Quella sà che sarebbe una bella prodezza! Verrebbe notato non solo qui nel Trøndelag, anzi, non solo nella piccola Norvegia, ma anche in Inghilterra, in Germania, da Adolf Hitler in persona!
Varcando la soglia del Misjonshotellet, saluta i soldati che ormai conosce di vista, e a passo leggero attraversa l’atrio, superando le segretarie, che alzano lo sguardo e gli sorridono. Molte di queste persone sanno il suo nome. O, piú precisamente, il cognome, visto che Gerhard Stübs lo chiama semplicemente «Rinnan». Il nome di battesimo è come una pelle vecchia che Henry si è sfilato di dosso, un po’ come quella delle vipere, che ogni tanto si trova accartocciata, rinsecchita e ingiallita nel sottobosco ed è l’unico segno visibile della crescita del serpente. Henry Oliver ha cessato di esistere. Niente piú angherie, spintoni, derisioni. Niente piú camminate solitarie al margine di Levanger, a capo chino per schivare gli sguardi altrui. Adesso è solo Rinnan, o Lola. Adesso è a Trondheim, si è trasformato, è diventato un agente speciale, con uno stipendio fisso, un incarico di responsabilità e libero accesso a sigarette e alcolici. Passeggia per le strade con il suo completo bruno, che ha ampie tasche lungo le cosce, come si usa adesso, e quando espone il suo progetto di eliminazione della Resistenza si sente rispondere: – Prego, proceda pure.
«È tanto semplice, quasi troppo», pensa Rinnan mentre cammina per le vie del centro. Per uno come lui, che conosce Trondheim e tutti i suoi strati sociali, non è difficile capire a chi rivolgersi, per infiltrarsi nella Resistenza. «Ecco perché hanno ingaggiato me, me e non altri», pensa, tutto compiaciuto, attraversando la strada e percorrendo a passo sicuro il lastricato, puntando dritto alla meta. Lo sa bene, lui, dove si riuniscono i comunisti e i partigiani: al caffè della Casa del Popolo.
Svoltato l’ultimo angolo, raggiunge la costruzione in muratura, in stile funzionalista. Il locale è gremito, benché sia ancora pieno giorno. Eccoli lÃ, seduti a leggere il giornale, a fumare e a scambiarsi notizie e progetti. Rinnan sente su di sé i loro sguardi, ma con noncuranza sale i gradini d’ingresso, si avvicina al bancone e ordina un caffè. Mentre il barista prende una tazza e vi versa il liquido nero fumante, Rinnan scandaglia rapidamente con lo sguardo la sala, come se stesse cercando un tavolo libero. In realtà sta decidendo chi vale la pena di tenere d’occhio e chi no. Ossia, chi è qui solo per un’oretta di svago e chi invece frequenta questo caffè per tenere riunioni segrete, o per reclutare nuovi partigiani. C’è un uomo dai capelli scuri, tagliati corti, che solleva gli occhi dal giornale e li punta su di lui, con uno sguardo indagatore. Dura appena un quarto di secondo, ma Rinnan capisce di essere stato etichettato come «nuovo arrivato». C’è un gran brusio di conversazioni, dev’essere l’orario in cui il locale è piú affollato. Rinnan rigira la tazza fra le mani mentre osserva i clienti al bancone. Un uomo si alza, lasciando libera la sedia accanto a quel tizio sospetto con cui lui avrebbe una gran voglia di scambiare due parole. Rinnan si avvicina, indica il posto al tavolo e con aria disinvolta chiede: – Scusi, è occupato?
L’uomo scuote la testa. – Prego.
– Grazie –. Rinnan si siede, prende un sorso di caffè, tira fuori un portasigarette e lo scuote. Dentro, si sente l’agitarsi di una sigaretta solitaria. Lo apre e fa un lieve sospiro fra sé e sé. Fa gran mostra di esitare, come per meditare di tenerla da parte per dopo, per poi cambiare idea e piazzarsela fra le labbra. Poi batte i palmi all’altezza delle tasche della giacca, in cerca di un accendino o di una scatoletta di cerini che sa benissimo di non avere. Infila le mani nelle tasche dei pantaloni e le ritira vuote. Sospira un’altra volta, quindi si rivolge all’uomo accanto, il quale evidentemente ha seguito la scena, visto che gli sta già porgendo un accendino: – Le serve fuoco? – gli chiede. Ha l’accento di Trondheim.
– SÃ, grazie, – risponde Rinnan. Si accende la sigaretta, soffia il fumo di lato e restituisce l’accendino all’uomo. – Che gentile. Sa, mi ero dimenticato che ho finito il Gpl. Cioè, ho finito anche quello, – aggiunge, con un sorriso sardonico, scuotendo il portasigarette. – E grazie ai tedeschi, fra un po’ non ci sarà piú verso di procurarsi niente, – mormora, quasi tra sé e sé, prendendo una nuova boccata di fumo, in attesa che l’altro cada nella trappola.
– Parole sante, – risponde l’uomo, accendendosi a sua volta una sigaretta. Ecco l’occasione!
Rinnan si gira verso di lui e lo guarda dritto negli occhi. – Non sono mai stato disoccupato in vita mia… – dice. Poi si sporge un pochino in avanti e abbassa la voce, assumendo un tono cospiratorio che pare creare una stanzetta a parte, solo per loro due. – Finché non c’è stata questa stupida invasione!
– Ah, s� – risponde l’altro. È ancora appoggiato allo schienale, e questo significa che vuole ancora mantenere una certa distanza. – E che mestiere faceva?
Rinnan serra la sigaretta fra le labbra e tende una mano per presentarsi. Strizza un occhio per evitare che il fumo glielo irriti. – Ole Fiskvik, marinaio. Nel senso che facevo il marinaio, fino allo scorso 9 aprile. E lei?
Le sue parole decantano, fanno presa. Sono come faville che incendiano i pensieri di questo sconosciuto, facendogli brillare gli occhi. – Fiskvik? Non sarà parente di Arne-Johan Fiskvik?! – gli chiede a bassa voce, sporgendosi un poco sul tavolo.
Rinnan si appoggia allo schienale e fa un sorriso furbesco. – Eh, parente… Sono il fratello!
– Davvero? Di quel Fiskvik… che ha fatto cosà tanto per questa nazione? – esclama l’altro. Poi si guarda intorno, evidentemente temendo di aver detto troppo. E infatti batte un paio di volte le palpebre e arretra un pochino con il busto, ma questo non rappresenta un problema: ormai ha abboccato. Rinnan l’ha preso all’amo, e non deve fare altro che riavvolgere la lenza.
– SÃ, ha fatto tanto per il comunismo, il mio fratellino, – risponde, prendendo un’altra boccata di fumo e soffiandolo con aria pensierosa verso il basso. – Lui sà che ha potuto dare un contributo, invece di ciondolare qui, senza niente da fare… – prosegue, e dà un colpetto alla sigaretta per far cadere la cenere. – Sa, ho messo da parte un bel po’ di soldini, ma non posso nemmeno utilizzarli, visto che ogni cosa è razionata.
L’altro sta riflettendo, si vede benissimo, in quella testolina c’è un cervello in piena attività , impegnato a valutare rischi e opportunità . – Ma può darsi che si possa pur sempre fare qualcosa, – mormora.
– Ma sÃ, ma sÃ… – risponde Rinnan, quasi distrattamente, come se gli occorresse qualche istante per capire che quella frase era in realtà una velata proposta. Poi lo guarda negli occhi. – Cioè?
– Se desidera, potrei metterla in contatto con qualcuno, – dice l’altro.
– Volentieri! Quando?
– Mah, dipende un po’ dai suoi impegni…
– Oh, non ne ho piú avuti, dopo il 9 aprile. Perciò, quando vuole lei, – risponde Rinnan.
L’altro si avvicina ulteriormente al tavolo, per fare posto a un uomo che sta passando dietro di lui, ma ci mette troppo impeto, e la sedia s’inclina in avanti. – Non so, per esempio… adesso? – propone, e sorride fino a scoprire i denti.
– Ah, «per esempio»? Eh, direi che «per esempio» è il momento migliore possibile, – replica Rinnan.
Si fissano per qualche secondo, poi il partigiano scoppia a ridere. – In tal caso, non deve fare altro che finire il suo caffè e seguirmi, – dice, alzandosi. – Ah, dimenticavo: io sono Knut. Venga!
Rinnan prende l’ultimo sorso dalla tazza e lo segue fuori, al sole.
– Ecco, qui ci sono meno orecchie, – dice Knut, stringendosi nel giaccone.
– Con i tempi che corrono, la prudenza non è mai troppa, – dice Rinnan, guardandolo da sotto in su.
– Già , purtroppo è cosÃ. Però al tempo stesso abbiamo un gran bisogno di trovare persone che ci aiutino.
– Allora è un colpo di fortuna che mi sia imbattuto in lei. Sono ben lieto di contribuire alla causa, – dice Rinnan, e bada bene a dare alle ultime tre parole la cadenza giusta, quella di una certa passione politica.
– Senta, Fiskvik… lei ha un’automobile?
– SÃ. La usavo prima della guerra, ma adesso la tengo sempre in garage.
– Sa, faccio parte della redazione di un giornale… Abbiamo bisogno di aiuto per distribuirlo.
– Nel senso di un… giornale partigiano? – bisbiglia Rinnan.
Passa una signora con passeggino, e Knut aspetta che si sia allontanata di qualche metro prima di rispondere. – SÃ. Ma se ha paura…
Rinnan scuote la testa. – No, no, per niente. Anzi.
– Vede, io voglio essere sincero, – dice Knut, fermandosi a un incrocio lungo il fiume. Sulla riva c’è un gabbiano che becchetta la carcassa di un altro uccello, tuffando la testa nelle interiora per poi risollevarla e guardarsi intorno con occhi penetranti. – Il nostro è un lavoro rischioso, e nessuno di noi viene pagato per svolgerlo. Capisce?
– Capisco. Grazie. Devo rifletterci un pochino. Allora vediamo… Ecco! Riflettuto. Proseguiamo? – Rinnan sorride a Knu...