Solitudine
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Solitudine

Il male oscuro delle società occidentali

  1. 232 pagine
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Solitudine

Il male oscuro delle società occidentali

Informazioni su questo libro

Da decenni la sociologia e le scienze umane analizzano il progressivo disgregarsi dei legami e delle relazioni. Non stupisce dunque che la solitudine sia considerata una delle maggiori insidie della nostra epoca. Media e opinione pubblica la descrivono come un morbo da combattere. Governi e istituzioni per la salute pubblica si sono mobilitati. In pochi, però, sottolineano che la situazione contemporanea è il frutto di una precisa evoluzione storica. >Mattia Ferraresi indaga con straordinaria lucidità le radici di questo fenomeno. E illumina il colossale paradosso che lo ha generato: lo scardinamento delle connessioni profonde con l'altro è, infatti, al cuore del progetto di emancipazione della modernità. Proprio il modello liberale ha posto le basi per una società fatta di soggetti che hanno scelto la solitudine quale via maestra verso l'autocompimento. Nel divincolarsi dalle autorità, dalle gerarchie e dalle costrizioni tradizionali che lo opprimevano, l'uomo moderno si è cosí ritrovato solo. Il suo ideale di liberazione si è trasformato, oggi, in una prigionia. «Il nostro mondo. Quello dei selfie e delle pubblicità profilate, dei pasti monoporzione e del single come stato sommamente desiderabile. Un mondo dove la solitudine regna. Ma grattando la superficie delle osservazioni quantitative e delle cronache si intuisce che siamo di fronte a qualcosa di piú complicato e oscuro di una tendenza sociale: è lo stato esistenziale dell'uomo contemporaneo».

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Informazioni

Capitolo 1

L’epidemia

Morire di solitudine.

Di solitudine si muore. Non è un’iperbole. Il carattere letale dell’esser soli, il suo pervasivo potere mortifero è documentato da un corpo di studi scientifici che ogni giorno si arricchisce di nuovi, sconfortanti contributi. Pur affrontando il problema da prospettive e secondo metodologie diverse, tutte le ricerche convergono sul fatto che il processo di disgregazione delle relazioni umane non è soltanto un carattere dell’epoca contemporanea, un modo di vita. Deve invece essere considerato un malessere diagnosticabile, una patologia, una malattia mortale che va sottratta dalle rarefatte indagini di sociologi e filosofi per affidarla alle rigorose cure di medici e ufficiali sanitari. Questi, a loro volta, dovrebbero farsi carico di persuadere i politici a contrastare con misure adeguate la silenziosa pestilenza che sta travolgendo milioni di persone e colpisce con particolare ferocia le società segnate dal benessere.
In America si discute se sia corretto parlare di una «epidemia», termine che nel tempo è stato utilizzato per parlare dell’Aids, della povertà, dell’abuso di oppiacei, delle malattie mentali, dell’incarcerazione di massa, delle intolleranze alimentari. Qualcuno vorrebbe trattare anche le sparatorie che insanguinano tante città americane, da Chicago a Baltimora, come questioni di salute pubblica. In ognuno di questi casi, la scelta del registro epidemiologico ha messo l’accento sulla natura contagiosa e incontrollabile del fenomeno, aumentandone il potere drammatico. Ogni malanno, ormai, merita la promozione al rango patologico. Nonostante le obiezioni di alcuni fra i piú autorevoli studiosi della solitudine e dei danni che produce, la stessa retorica si è largamente affermata nei media, dove ormai «epidemia di solitudine» è diventato un tropo per titolisti pigri. L’inevitabile passo successivo è la dichiarazione di guerra. Il governo americano ha recentemente fatto la guerra, fra le altre cose, alla povertà, alla droga e al terrorismo; la solitudine è una vittima predestinata dell’irresistibile metafora bellica.
Cosí nel giro di mezzo secolo la solitudine si è trasformata da questione esistenziale a fatto clinico di massa, da contrastare affidandosi a coalizioni scientifico-politiche che sappiano trovare i rimedi giusti contro uno dei mali della nostra epoca. S’invocano pianificati interventi di assistenza sociale per ricucire le fibre rotte della società, gli osservatori piú tormentati dal problema sembrano sognare la scoperta del vaccino contro la solitudine. Stephanie Cacioppo, ricercatrice della University of Chicago, sta sperimentando su soggetti solitari una cura a base di pregnenolone, un ormone normalmente associato alla memoria e allo stress. Riportarlo a livelli ottimali per l’organismo potrebbe anche riattivare l’area del cervello che induce a creare legami. Se la natura del problema è in fondo chimica e fisiologica – procede il ragionamento – si potrà risolvere con una pillola.
Si sono offuscate le distinzioni e le cautele di Frieda Fromm-Reichmann, pioniera degli studi psichiatrici sull’isolamento, che separava nettamente la solitudine come espressione dei «sentimenti oceanici», uno stato generativo che è parte dell’esperienza umana, dalla condizione «non-costruttiva, se non disintegrativa, che si manifesta, o infine conduce, allo sviluppo di stati psicotici»1. Quando, sul finire degli anni Cinquanta, non meglio chiarite «forze interiori» l’hanno spinta a scrivere On Loneliness, il documento fondativo della letteratura scientifica sul tema, l’analista di origine tedesca era alla ricerca della real loneliness, uno specifico stato ansiogeno che blocca l’accesso al mondo, riducendo il soggetto in una condizione di prigionia nella quale la comunicazione con gli altri è severamente ostacolata o del tutto impossibile. Il suo era un trattato seminale sulla solitudine come manifestazione perversa ed estrema del disturbo mentale, non un’osservazione sulle attitudini della società contemporanea.
La qualità di questi studi psicopatologici s’è progressivamente annacquata nell’incontro con una crescente letteratura umanistica, corredata da ampi commentari giornalistici, sulla rottura dei legami sociali. Una propensione generalizzata che assume forme diverse a seconda degli ambiti che si considerano, dal lavoro alla dimensione associativa, dalle abitudini ricreative alle tendenze di consumo.
Che la parcellizzazione del lavoro nella società industriale fosse un fattore disgregativo non era sfuggito a Karl Marx, che aveva documentato l’alienazione dell’operaio dalla propria essenza, dagli altri, dal prodotto del suo lavoro e dalla sua attività professionale. Herbert Marcuse ha poi aggiornato le tesi marxiane al mutato contesto sociale, ispirando con il suo L’uomo a una dimensione la vena della ribellione sessantottina contro le disumanizzanti leggi della civiltà industriale. Ma il tema della disconnessione dell’individuo dal suo prossimo fa capolino dietro ogni piega della contemporaneità.
Gli urbanisti americani lo hanno visto materializzarsi nell’epocale metamorfosi delle periferie che ha cambiato il volto del paese negli anni Sessanta. La scomparsa del front yard, il giardino davanti a casa, per fare spazio al backyard, l’area sul retro, è diventata il simbolo della ritirata dagli spazi comuni, aperti ed esposti alla comunicazione con il vicinato, per rinserrarsi in zone circoscritte e invisibili, aperte soltanto agli invitati. L’atteggiamento Nimby (Not in my backyard) indica appunto l’idiosincrasia verso opere e riforme orientate al benessere della comunità in nome della difesa degli spazi privati. L’angustia del giardino in cui si consuma il barbecue al riparo dagli sguardi altrui è l’immagine di una piú generale riduzione dell’orizzonte mentale.
Se la suburbanizzazione che l’America ha inventato ed esportato su scala globale è sostanzialmente coincisa con una introflessione, anche le evoluzioni nei processi produttivi e il nuovo assetto delle economie sviluppate portano in seno il germe della solitudine. L’èra post industriale, dominata dai servizi, non è meno alienante di quella messa sotto accusa da Marcuse. Al centro della scena c’è l’utente-consumatore accuratamente profilato e pedinato da aziende che si contendono la sua attenzione.
Algoritmi e intelligenze artificiali sono addestrati per scovare interessi e caratteristiche specifiche del singolo, che diviene obiettivo di strategie di marketing personalizzate, con le pagine web che si modellano attorno alle preferenze di chi guarda lo schermo. Nemmeno la pubblicità, onnipresente comune denominatore delle masse nella società dei consumi, ci unisce piú. La dinamicità della gig economy nasconde una realtà di lavoratori senza una trama di relazioni professionali stabili e spazi di co-working che sono efficienti incubatori di solitudini, piú che laboratori di incontro creativo. L’industria alimentare genera profitti davvero generosi sui prodotti monoporzione. Ancora meglio se pronti per la consegna a domicilio in appartamenti che, sempre piú spesso, sono abitati da una persona soltanto.
L’impatto della rivoluzione digitale, e in particolare dei social network, sul tessuto delle relazioni umane merita una trattazione a parte. Ma i paradossi della filter bubble e dell’iperconnessione che ci allontanano invece di unirci s’inscrivono in un piú vasto processo di separazione fra esseri umani. La rete ha accelerato e amplificato tendenze già in atto.
Il parallelo proliferare degli studi di carattere medico e della saggistica culturale sulla solitudine ha reso il tema un enigma da risolvere per decifrare la nostra epoca. Dopo le osservazioni cliniche della scuola neo-freudiana e quelle dei sociologi del Dopoguerra, primo fra tutti David Riesman, autore del fondamentale La folla solitaria, ci si è cominciati a interrogare sulla natura di questo fenomeno.
Che cos’è, esattamente, la solitudine? Un sentimento? Uno stato mentale? La mera separazione fisica dagli altri? Un inestirpabile fatto umano? Una malattia da curare? E, in seconda battuta, come si riconosce la solitudine? Si può misurare? Come si stabilisce il grado di «solitarietà» di una società?
Lo psicanalista Harry Stack Sullivan l’ha definita una «esperienza terribilmente spiacevole e travolgente, causata da insufficiente scarica del bisogno di intimità umana»2. Sullivan, figlio di immigrati irlandesi, cresciuto all’inizio del secolo scorso in una cittadina ferocemente anticattolica nello stato di New York, conosceva per esperienza diretta le miserie dell’emarginazione. Quell’insoddisfatto bisogno di intimità che, per tutta la carriera, ha cercato di afferrare e curare, concentrandosi sulla dimensione interpersonale dei pazienti. La sua definizione è stata traghettata nelle riflessioni degli anni Settanta da Robert Weiss, decano degli studi sull’isolamento sociale, che per primo ha riunito il gotha degli esperti in materia per tentare di identificarne l’essenza. Lo psichiatra americano ha dedotto che la solitudine è una malattia cronica che non dà pace e non offre possibilità di redenzione. Questa condizione è una ferita insanabile nel mondo contemporaneo, non uno stato passeggero o l’anticamera di un qualche approdo mistico.
La meticolosa analisi sviluppata da Weiss non ha risolto però il rompicapo connesso alla sua natura: a volte la presenta con i tratti impalpabili e cangianti di un’emozione, in altri casi la fa coincidere con la separazione fisica fra gli individui, un dato oggettivo che si può agevolmente quantificare.
Nel tentativo di sciogliere questa duplicità e offrire uno strumento d’indagine, sul finire degli anni Settanta un gruppo di ricercatori della University of California Los Angeles (Ucla) ha messo a punto una scala per misurare la solitudine, che si è imposta come indice fondamentale per lo studio del fenomeno. Tale metodo correggeva precedenti scale nate da criteri troppo intricati o soggettivi per dare risultati affidabili. Nella sua versione originaria era fondata su venti affermazioni alle quali gli intervistati dovevano rispondere in base alla frequenza con cui sperimentavano un certo stato (mai, spesso, a volte, sempre). Il questionario, composto di proposizioni in forma esclusivamente negativa, si apre con «sono infelice nel fare cosí tante cose da solo» e contempla situazioni di esplicito isolamento («mi sento isolato dagli altri»). Poi s’addentra anche in territori emotivi piú incerti e scivolosi, indagando la percezione di non essere compresi, di non avere nessuno che davvero ci capisca o al quale affidarci in caso di bisogno e la difficoltà nel fare nuove amicizie. L’ultimo elemento del questionario sintetizza uno dei paradossi della solitudine dell’èra contemporanea, dove tutto è a un clic di distanza: «Le persone sono intorno a me, ma non con me».
La Ucla Loneliness Scale è per la solitudine un po’ quello che il Pil è per l’economia, ma non è l’unico metodo per misurare il grado di solitudine di una comunità. La sociologa olandese Jenny de Jong Gierveld ha concepito una scala per quantificare, con un’unica indagine, due aspetti collegati eppure distinti, quello «sociale» e quello «emotivo». La solitudine sociale si manifesta quando il circolo di amicizie e relazioni stabili è piú ristretto di quanto si desidererebbe, mentre quella emotiva riguarda il livello di intimità che il soggetto vorrebbe con i suoi confidenti piú vicini, ma che non riesce a raggiungere. La prima considera la dimensione quantitativa delle relazioni, la seconda implica una valutazione qualitativa e osserva la profondità dei rapporti di amicizia. La solitudine, secondo questo modello, è la discrepanza fra ciò che si vuole e ciò che si ha, il minaccioso fossato che divide i desideri dalla realtà.
Tuttavia, nemmeno i metodi di misurazione che hanno resistito ai test di generazioni di esperti possono spiegare le cause remote della solitudine. Tentare una sociologia dell’animo umano è un’impresa destinata al fallimento, checché ne dicano i sostenitori dell’onnipotenza delle scienze umane. Ciò che la moltiplicazione di studi, indicatori e scale ha contribuito a creare, però, è una generale presa di coscienza rispetto a questo male oscuro della nostra epoca. Cosí il fenomeno è apparso nei radar dell’opinione pubblica di tutto l’occidente, si è fatto largo nelle aule dei parlamenti, attorno alla questione è fiorita un’ampia letteratura e reti associazionistiche si sono mobilitate. Tutti, scienziati e politici, hanno lavorato alacremente per comunicare al pubblico che noi, occidentali perlopiú istruiti e professionalmente performanti, siamo sempre piú soli. E questa condizione contagiosa ci sta uccidendo.
Vivek Murthy, che dal 2014 al 2017 è stato surgeon general degli Stati Uniti, una specie di medico della nazione che detta le linee guida in fatto di salute pubblica, ha elevato la solitudine al rango di emergenza da fronteggiare non soltanto a suon di convegni e buone intenzioni, ma con la potenza di intervento di cui soltanto i governi sono capaci. In un’intervista del 2017 ha ricordato le domande che gli facevano quando studiava Medicina a Boston: «Mi chiedevano: qual è la malattia piú diffusa che vedi? Il diabete? Le malattie cardiache? Il cancro? Rispondevo che non era nessuna di queste: la malattia piú diffusa che vedo in America è l’isolamento, un isolamento che nasce dalla mancanza di significato»3. Appoggiandosi sulla copiosa mole di testi scientifici disponibili, Murthy ha spiegato che questo problema è «associato a una riduzione dell’aspettativa di vita simile a quella causata da quindici sigarette al giorno ed è maggiore di quella legata all’obesità».
Il lavoro di Julianne Holt-Lunstad, psicologa della Brigham Young University, mostra che i danni causati dalla solitudine sono quattro volte superiori a quelli dell’inquinamento atmosferico. Un’altra mastodontica metaricerca ha incorporato, razionalizzandoli, centinaia di studi indipendenti e ha osservato per sette anni un campione di quasi tre milioni e mezzo di persone in tutto il mondo. I risultati mostrano, fra le altre cose, che la probabilità di avere un infarto cresce del trenta per cento nelle persone che vivono uno stato di solitudine permanente; aumenta anche l’incidenza delle malattie cardiovascolari, la pressione alta, gli stati di ansia. Il rischio di morte sale del trentadue per cento per chi abita da solo. E la gran parte dei dati è stata raccolta prima dell’esplosione dei social network e della diffusione capillare dello smartphone, dunque l’alienazione da eccesso tecnologico non può essere l’imputata unica in questo processo. Altri studi hanno rilevato correlazioni fra solitudine e attacchi di cuore, disordini alimentari, insonnia, abuso di droghe, alcolismo, depressione. Durante i mondiali di calcio i suicidi diminuiscono, presumibilmente per quello spirito di appartenenza e solidarietà che pervade il mondo per qualche settimana. Alzata la coppa, la flessione statistica torna ad appianarsi.
Qualche ricercatore sostiene che chi ha poche relazioni stabili sperimenta un’accelerazione nel declino delle facoltà cognitive ed è piú esposto all’Alzheimer. In molti casi la solitudine non è che la causa indiretta delle patologie. Spesso favorisce cattive abitudini che possono condurre sull’orlo dell’abisso. Nessuna condizione può azzerare volontà e libertà dei singoli individui, ma non serve aver sperimentato il gorgo nero dell’isolamento per sapere che da soli tutto è piú difficile. Avere una persona accanto è una spinta formidabile per mangiare cibi piú sani, mantenersi in forma ed evitare di lasciarsi andare. C’è chi nella comunità scientifica sostiene che la strada che collega il fenomeno alla malattia è a doppio senso: la solitudine conduce agli stati patologici, ma sono anche le malattie a spezzare i legami sociali. Non è sempre facile distinguere le cause dalle conseguenze.
Tutto questo associare e correlare ha prodotto a volte qualche esagerazione. Un documento pubblicato nel 2004 dalla American Sociological Review sosteneva che un americano su quattro non ha nessuno con il quale confidarsi, un preoccupante balzo indietro rispetto agli anni Ottanta, quando la statistica parlava di uno su dieci. Bastava tornare indietro di pochi decenni per osservare un panorama relazionale piú luminoso. Si è scoperto qualche anno piú tardi che i dati su cui si basava lo studio erano fasulli. Molte persone che non avevano voluto rispondere ai quesiti dei ricercatori erano state erroneamente incluse nel novero degli americani senza amici stretti, invalidando il campione. Nonostante la correzione pubblicata dalla rivista, la statistica gonfiata continua a essere citata regolarmente dai media. Anche le iperboli e le falsificazioni hanno contribuito a fare della solitudine un’emergenza globale.
Murthy non l’ha citata, quando i membri del Senato, chiamati a confermare la sua nomina, gli hanno chiesto di elencare le minacce piú gravi per la salute degli americani. Ha parlato d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Solitudine
  4. Introduzione
  5. Capitolo 1. L’epidemia
  6. Capitolo 2. Una storia moderna
  7. Capitolo 3. Alla ricerca di un tu
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Copyright