A fine agosto aveva cominciato a piovere in un modo definitivo, e il livello del fiume era salito. Gli uomini della protezione civile ci avevano portato i sacchi di sabbia da mettere contro le porte e nelle nostre vite si era infilato un nuovo vocabolario. Parole che fino all’estate precedente non ci riguardavano, erano diventate d’un tratto familiari. Allagamento, zone rosse, mezzi di soccorso, millimetri d’acqua.
Ecco, anche questa cosa non era mai accaduta prima, e adesso qualcuno misurava la pioggia.
Durante la notte c’era sempre la telefonata del sindaco. Il telefono ci svegliava di colpo e la voce registrata diceva che l’allerta era arancione o rossa. Poi elencava le zone da evitare, e quelle potevano cambiare di volta in volta.
La nostra casa comunque ci rientrava sempre, essendo proprio sul fiume, e allora prima che cominciasse a piovere ci dicevano di salire ai piani alti. C’era il rischio di essere trascinati via dall’acqua, di restare intrappolati nell’auto, di annegare. E anche se soltanto fino all’anno prima da noi sembrava impossibile, presto ci abituammo a pensare che di troppa pioggia si potesse anche morire.
Cosí la nonna, la mamma e io salivamo di sopra e stavamo per lunghi pomeriggi a leggere e ad aspettare che il diluvio cessasse o che arrivassero gli elicotteri.
Io sceglievo Edgar Allan Poe, che era perfetto per i temporali, la mamma Gita al faro della Woolf e la nonna adorava ascoltare l’opera. Il pomeriggio del vestito, la mamma e la nonna dissero che dovevamo prepararci al peggio. Il barometro era sceso all’improvviso, bastava picchiare con l’unghia sul vetro per verificarlo, e prepararsi al peggio si era tradotto in un’attività frenetica che ci aveva assorbito per il resto della giornata finché non era scesa in strada un’oscurità opprimente, odorosa di alghe e muffa.
Ogni volta che faceva brutto sembrava che la nostra casa buttasse fuori tutta l’acqua che impregnava i muri. Recuperavano un sentore piú netto di calce, si sfarinavano, la terra intorno diventava molle, mentre le piante assumevano una strana gravità, il loro verde appariva subito piú torbido e pesante.
La nonna era rimasta in giardino fino all’ultimo, a passare intorno ai tronchi e ai rampicanti dei pomodori doppie mandate di cime, mentre io e la mamma avevamo ritirato il bucato e lo avevamo steso dentro, al coperto, quindi avevamo aggiustato la porta della rimessa che da un po’ non chiudeva bene e raccolto dalla legnaia dei ciocchi per le stufe. Ce n’erano ancora due vecchie, una al piano terra e una al primo, sul ballatoio, dove si affacciavano le camere da letto. Era uno spazio grande e quadrato, anacronistico per le nuove architetture, ma che a noi piaceva, perché di pomeriggio, per via degli alberi e del promontorio dietro casa, sprofondava in un colore quasi sottomarino, un verde solforoso.
Ci avevamo messo delle sedie, una poltrona e un tappeto, e spesso trascorrevamo lí le giornate piovose.
Verso le sette rientrammo. La nonna aveva le mani piene di terra ed era infuriata.
Gli improvvisi rovesci e le zone rosse per lei costituivano soltanto un’altra voce nell’elenco delle complicazioni infinite di quella casa.
I ragni, le falene d’estate, le lumache dell’umidità, la polvere, i gatti, il vento, il caldo, la distanza e la desolazione, le infiltrazioni, il pozzo, le sedie di plastica, i rumori e il silenzio, i pescatori e i turisti, il forno, la lavastoviglie, la pasta che non lievitava, l’acqua fredda, l’acqua calda, la luce che andava via, la luce che tornava all’improvviso mentre lei dormiva. L’elenco era un compendio di tutto quello che ci era capitato di brutto in quei diciassette anni a Bocca di Magra. E anche di quello che ancora non era successo, ma che sarebbe potuto succedere. Qualsiasi cosa rappresentava una ragione plausibile per detestare la casa sul fiume e il fatto di doverci abitare.
Si era trasferita da noi dopo che, a tre giorni di distanza l’uno dall’altro, erano morti mio padre e mio nonno.
Mio padre si era ammalato che io avevo undici anni, dopo un certo periodo le cure non avevano piú fatto effetto, mentre per mio nonno era stata una cosa veloce, un dolore al cuore, meno di una settimana in ospedale, e poi si era addormentato nel sonno, ma il caso aveva voluto che, pur arrivandoci in modi tanto diversi, il momento di andarsene per papà e il nonno fosse quasi coinciso. E cosí eravamo rimaste sole.
Ognuna di noi, da allora, cercava soprattutto di sopravvivere. Si trattava di resistere alla sofferenza, una massa scura, senza forma, dentro alla quale rischiavamo di cadere a ogni passo.
Sopravvivevamo e facevamo la spesa perché in quei mesi le mancanze sembravano collegarsi tra loro, un bottone in una giacca, il pane, mio padre, il latte in frigo, il mangiare per i gatti, il nonno. Si cercava di rimediare subito e si usciva a comprare quello che non c’era.
Non ne parlavamo quasi, tra noi. Né dell’effetto che la loro assenza ci facesse e neanche del nonno e di papà, di com’erano stati, delle loro manie o abitudini, che di solito sono le prime cose che ti vengono in mente quando non vedi piú qualcuno. Che mio nonno si annodava il tovagliolo intorno al collo prima di pranzare e trascorreva la maggior parte del tempo a fare la «Settimana enigmistica»; che a mio padre piaceva la roba vecchia e ogni tanto portava a casa un lampadario trovato da un rigattiere, o che la mattina prima di andare al lavoro controllava la sua bicicletta da corsa, ci dava l’olio e la passava con un panno anche se non la usava piú; che il nonno voleva sempre la stessa forchetta e lo stesso cucchiaio, quelli di quando navigava, cosí gli sembrava ancora di mangiare sottocoperta.
Non ne parlavamo. E di conseguenza, da un lato pareva non fossero mai esistiti e dall’altro era come se il nonno e papà abitassero ogni parola che non sceglievamo, ogni frase che non potevamo dire, ogni pensiero che ci impedivamo.
La mamma, dal canto suo, se ne andava in giro con il coltello.
Era un coltello a serramanico, con un’impugnatura di osso e acciaio. L’estrazione della lama era particolarmente rapida e faceva un rumore secco.
Era appartenuto a mio padre, lo usava quando andava a pesca o nei boschi per funghi, o quando doveva fare qualche lavoro in barca, e lei adesso lo portava sempre con sé e lo spostava da una borsetta all’altra. Gli riservava la medesima cura che aveva per il portacipria, il burro di cacao, lo specchietto e il borsellino degli spiccioli, facendo attenzione a non dimenticarlo e sistemandolo in qualche tasca interna per essere sicura di non perderlo.
Poi metteva l’allarme, usciva di casa e si allontanava lungo il fiume.
Da piccola ero sempre stata convinta che prima o poi sarebbe accaduto. Che mia madre se ne sarebbe andata, per via della canzone.
Temevo che la canzone avrebbe prodotto l’effetto definitivo e io, alzandomi al mattino, non l’avrei piú trovata vicino alla radio, e perciò, quando mi svegliavo, sperimentavo sempre una specie di sospensione al centro dello stomaco, come un vuoto, un’interruzione che si colmava e scompariva soltanto nel momento in cui sentivo i soliti rumori dalla cucina – urtare di porcellane, accendersi di fuochi, scorrere d’acqua –, e allora sapevo che la mamma c’era ancora.
La canzone la trasmettevano tutti i giorni, credo fosse la sigla di un programma, ma io quella ripetizione quotidiana la vivevo come un attacco personale alla nostra tranquillità domestica.
Parlava di una nave, di una notte su una nave, ed era cosí facile immaginare i saloni con le signore in abito da sera e l’orchestra che suonava, le luci e i calici di champagne e il rollio dell’oceano sullo sfondo, e subito dopo immaginare un’uscita che dava sui ponti, lunghi e bui, con quell’odore di legno umido e catrame, e la leggera scivolosità che hanno le superfici dei transatlantici durante la navigazione. Era facile immaginare che – come diceva la canzone? – qualcuno si allontanasse dalla sala da ballo e cadesse e, onda su onda, finisse per perdersi nel mare.
Ma non era neanche quella la parte che piú temevo, era dopo, quando si parlava dell’isola.
Dell’isola in cui arrivava il naufrago, un’isola stupenda, con palme e bambú, il sole, banane e lamponi, e a quel punto, mentre la canzone stava finendo, e ogni giorno finiva allo stesso modo, io provavo a fare delle cose, a coprire con la mia voce o con dei rumori quelle ultime strofe, ma non serviva a nulla perché mia madre la conosceva a memoria e ripeteva, onda su onda, mi sono ambientato ormai, il naufragio mi ha dato la felicità che tu non mi sai dar…
E allora era come se un vento improvviso soffiasse nello spazio tra il lavabo e i fornelli, un vento da burrasca, e io temevo che da un momento all’altro potesse volarsene via con quel vento per raggiungere l’isola dei lamponi e la felicità che – avevo la sensazione –, né io né mio padre riuscivamo a darle fino in fondo.
Ma alla fine partire per lei era diventato impossibile e lo era diventato proprio perché mio padre era morto. Continuava a desiderarlo, forse, un desiderio instancabile che a volte, in certe giornate autunnali, quando la luce andava via presto e intorno ristagnava un’aria azzurra e ferma, si faceva piú forte.
Allora capitava di trovarla china sugli atlanti geografici del nonno. Li spalancava sul tavolo da pranzo e con una lente prendeva a leggere i nomi di Paesi lontani, nomi scritti piú o meno grandi a seconda degli abitanti. E se le chiedevo, che fai, la mamma mi diceva, volevo sapere dove si trovava Santa Kilda, guardavo a che altezza è La Plata, cercavo le cascate dell’Iguazú, le isole Figi, il vulcano Eyjafjöll, m’interessava capire quanto dista Macao da Hong Kong.
Continuava a farmi un po’ paura che si interessasse tanto alla collocazione dei posti nel mondo, non volevo che avesse bisogno di cercarli, di conoscere la loro altezza o la loro distanza, perché sapevo che aveva di nuovo a che fare con la canzone e l’isola dei lamponi. Dopo, tuttavia, sembrava piú tranquilla. Si metteva in salotto, accendeva l’abat-jour e leggeva qualcosa, oppure guardava un telegiornale. A volte sistemava la collezione degli animali di terracotta.
Insomma, in un modo o nell’altro, dopo aver controllato latitudini e longitudini si lasciava avvolgere di nuovo dalla nostra casa.
E comunque alla fine non era partita.
Si era messa in tasca il coltello di mio padre e aveva deciso che la nonna sarebbe venuta a vivere con noi.
La nonna non voleva. Ripeteva che abitavamo in campagna – non era cosí, ma intorno avevamo del verde e tanto bastava – e che in campagna c’erano un sacco di insetti e bestie, e che lei stava bene a casa sua.
Io non sapevo cosa fosse meglio, la nonna Fulvia non era un tipo facile. Parlava con frasi brevi e non le andava quasi mai bene niente. Era piuttosto brusca e su di lei si raccontavano degli aneddoti, tipo che una volta, quando mio nonno era stato stanziato dalla Marina a La Maddalena, una signora sarda le aveva offerto delle fave e lei aveva rifiutato dicendo che, grazie, ma in Emilia le fave si davano ai maiali.
Non lo aveva detto per avvilirla, ma semplicemente perché era vero e cosí non c’era niente di male a farlo presente alla signora e a non mangiare quelle sue fave.
Bisognava fare attenzione alla nonna, e il mio timore era che nessuna di noi, in quel momento, fosse in grado di fare davvero attenzione a qualcosa.
In ogni caso mia madre l’aveva convinta.
Avevamo due gatte all’epoca, una nera e una grigia, e quando la mamma e la nonna erano arrivate di fronte alla porta d’ingresso con le valigie, la grigia aveva depositato un topo morto sullo zerbino d’entrata. Non era un topo di fiume, di quelli grandi e scuri, fortunatamente. Si trattava di un affarino piccolo che muoveva anche un po’ alla compassione. Mia madre fu velocissima, gli tirò un calcio per non farlo vedere alla nonna: uno strano accostamento, la forma elegante della décolleté di mia madre, contro il fianco amorfo e un po’ molle del topo.
La cosa dovette ripetersi altre due o tre volte quel giorno. La gatta, con l’aria magra da fine estate, andava a ripescare il topo tra i cespugli e lo rimetteva esattamente nello stesso punto, come per farci capire che si trattava di un regalo, un regalo importante.
Ecco, avevo pensato mentre toccava a me trasferire il topo con minuscoli calcetti, sarà complicato avere qui la nonna. Quanti topi dovremo spostare d’ora in poi?
In realtà di topi non ne avevamo dovuti spostare cosí tanti e la nostra vita aveva poi preso un andamento piú o meno normale. La mamma aveva cominciato a lavorare in una libreria di Sarzana e grazie al suo stipendio, alle pensioni di reversibilità e alla rendita di una casa data in affitto a Montemarcello, ce la cavavamo bene.
Tuttavia avere la nonna a casa con noi era complicato come avevo temuto.
– Il finimondo, – disse. – Stasera viene giú il finimondo.
Poi andò a sciacquarsi le mani, spalancò il frigo e per un po’ rimase cosí, avvolta dal chiarore della luce interna, mentre prendeva le uova, le zucchine e il parmigiano per preparare la cena.
Si mise a rompere le uova e le fece cadere una via l’altra dentro una ciotola di porcellana bianca. Quella delle uova era una delle cose piú frequenti che le vedevo fare. Le picchiava contro il bordo del tavolo, con un gesto deciso, senza guardare, e riusciva ogni volta a farle dividere esattamente a metà. Separava il tuorl...