Completavo una vasca dopo l’altra, senza contarle, godendo della mia forza e del contatto sensuale dell’acqua, e raccogliendo i piedi sotto di me a ogni estremità della piscina per colpire la parete e spingermi con energia nell’altra direzione. Alla fine, filando in apnea a occhi spalancati, braccia lungo il corpo, coprii gli ultimi metri. La testa sbucò dalla superficie, labbra socchiuse per riempire i polmoni d’aria, le mani trovarono il bordo, si appoggiarono e, sfruttando lo slancio, sollevarono il corpo grondante fuori dall’acqua. Di colpo disorientata dagli echi, strizzai gli occhi, mi tolsi cuffia e occhialini, e lasciai colare l’acqua dalla pelle sul lastricato mentre cercavo distrattamente di identificare il mio corpo fra tutti quelli riflessi nei lunghi specchi che incorniciavano la piscina. Ma riuscivo a individuare solo frammenti, una spalla, una nuca, un torace, una coscia, che stentavo a mettere in relazione con qualcosa. Mi prese un crampo al bassoventre, mi accarezzai l’addome, poi asciugai l’acqua sopra il seno, le cui punte ritte tendevano il tessuto del costume. Senza sollevare la testa sentivo sul mio corpo lo sguardo insistente di un uomo con un po’ di pancetta, che ignorava le proteste di suo figlio per divorarmi con gli occhi. Mi ripresi e, distogliendo lo sguardo dagli specchi, oltrepassai la porta a vento diretta agli spogliatoi. Asciutta, con addosso una serica tuta grigia, piacevole sulla pelle, i lunghi capelli biondi raccolti in un veloce chignon, tornai nel corridoio e dopo qualche passo cominciai una corsetta a piccole falcate regolari, gomiti stretti al corpo. Le sneaker bianche si posavano sul pavimento con leggerezza, il respiro ritmava la corsa, superai senza esitare un’intersezione, poi un’altra, forse si trattava solo di rientranze, difficile dirlo, là era piuttosto buio e distinguevo a malapena i muri, la vaga luce mi permetteva giusto di orientarmi senza sbattere perché il corridoio, pareva, non era dritto ma sembrava incurvarsi in un senso o nell’altro, dovevo correggere di continuo la traiettoria. Già il sudore colava sotto la stoffa della tuta, eppure là non faceva caldo, e neanche particolarmente freddo, peraltro, mi asciugai la fronte senza rallentare, e fu cosà che, abbassandosi, la mano urtò contro una protuberanza di metallo, una maniglia, che girai senza riflettere, aprendo una porta appena visibile nel muro. La varcai e mi fermai, i piedi sull’erba. Intorno a me si estendeva un grande giardino familiare. Una bella luce estiva giocava sulle foglie mescolate delle buganvillee e dell’edera, ben curate sul loro graticcio, e poi, al di là , posava pennellate sparse sull’alto glicine che, emergendo da spessi tronchi intrecciati, saliva a ricoprire la facciata della casa, ritta contro l’azzurro del cielo come un’alta torre. Avevo caldo e sudavo ancora di piú, la stoffa della T-shirt si appiccicava al seno, alle ascelle e ai fianchi, aprii la felpa e mi asciugai la fronte con una manica, ravviando rapidamente dietro le orecchie le ciocche sfuggite allo chignon. Dalla piscina provenivano rumori di voci e mi avvicinai. Il sole scintillava sulle acque vuote, disegnando sopra la superficie azzurra ondulazioni bianche, in continuo movimento, che venivano a morire sotto l’ombra frastagliata di lunghe fronde arcuate svettanti da un massiccio tronco di palma, corto e tarchiato. Intorno alla vasca c’erano varie persone, sedute sotto ombrelloni gialli o in piedi sul lastricato grigio del bordo, con abiti leggeri ed eleganti, bicchieri o sigarette in mano. Di lato, un vecchio in polo e pantaloni bianchi, seduto a gambe accavallate, impettito e dignitoso con i suoi baffi bianchi, leggeva un giornale; gli voltai in fretta le spalle, ma comunque non mi notò. Un po’ piú in là un bambino biondo giocava con un gatto. Un uomo alto in camicia bianca, biondo pure lui, pelle chiara e ricoperta di peluria e sguardo limpido, mi si avvicinò con aria allegra e mi baciò: «Ah, finalmente, – esclamò. – Sono arrivati tutti». Sotto sotto, la sua presenza calorosa mi rassicurò, ma feci un passo indietro e gli appoggiai una mano sul petto: «Devo salire a cambiarmi. Vi raggiungo per l’aperitivo». Mi girai e mi diressi verso l’ingresso della casa, salutando con un gesto della mano alcune persone che mi facevano cenno o alzavano il bicchiere sorridendo. In corridoio esitai prima di imboccare la scala a chiocciola, e continuai invece verso il fondo, dove spinsi la porta. Dalla soglia osservai la stanza vuota del bambino, le file di soldatini di piombo accuratamente allineati sul tappeto, la videocamera appoggiata su una mensola, i poster di film, le fotografie in cornice appese al muro. Rappresentavano tutte il bambino, a diverse età e in luoghi diversi, insieme all’uomo dai capelli biondi. Ma quelle immagini non mi dicevano niente, e tornai indietro per salire la scala, concedendo appena uno sguardo, al volo, alla grande riproduzione della Dama con l’ermellino appesa lÃ. Di sopra, usciva dalla cucina una donna anziana, si asciugava le dita avvizzite in un grembiule a fiori. Mi prese entrambe le mani con un sorriso e mi baciò sulle guance; trasalii al contatto con la sua pelle grinzosa, straordinariamente morbida, come quella di una pesca dimenticata su un mobile. «Hai visto tuo padre? È dabbasso». Annuii: «Leggeva. Non ho voluto disturbarlo». Mi osservò, continuando a sorridermi: «Sembri in forma. Fai sport, bene. Hai passato l’esame per la patente?» «Mi hanno bocciata. Ma prendo di nuovo lezioni». Annuà a sua volta: «Devi passarlo. Io non l’ho mai avuta. In ogni caso tuo padre non mi avrebbe lasciata guidare. Ma tuo marito non è cosÃ. I tempi cambiano». La fissai con durezza, senza cercare di addolcire lo sguardo: «SÃ. I tempi cambiano». Mi allontanai da lei e salii al piano superiore. Il sole, filtrato dai rami disordinati del glicine, illuminava la camera facendo brillare il fondo oro delle lenzuola su cui correvano lunghe erbe verdi stampate. Mi spogliai in fretta ed esaminai il mio corpo nello specchio verticale ai piedi del letto, passando le mani sull’addome, sui fianchi, sulla parte superiore delle natiche, e poi distogliendo lo sguardo con un sospiro di scoraggiamento. Pensai alla donna anziana in cucina. L’idea del suo ventre, ora secco, mi riempiva di un disgusto opaco, triste. Poi mi tornò in mente l’immagine del vecchio con i baffi vicino alla piscina e mi si contrasse la nuca. Andai al comò, aprii un cassetto, tirai fuori un grande album rilegato e lo deposi sul piano. Lo sfogliai pensierosa, girando le pagine a una a una. La maggior parte delle fotografie rappresentavano me, piú giovane o addirittura bambina, insieme al vecchio e alla vecchia, anche loro piú giovani, con il volto liscio e i capelli folti. A guardarli cosà sentivo montare una rabbia sorda, spessa, che mi ottenebrava. Con un gesto brusco richiusi l’album e appoggiai entrambe le mani sul bordo del comò respirando forte per cercare di calmare i battiti del cuore, lo sguardo fisso sulla coperta. Alla fine lo rimisi nel cassetto e andai ad aprire i rubinetti della vasca. Versai sali e schiuma, poi ci entrai di colpo, lasciando che il calore mi mordesse la pelle. Chiusi gli occhi, e mi smarrii nel lieve crepitio delle bolle e nella sensazione avvolgente che a poco a poco mi distendeva i muscoli contratti. Quando riaprii gli occhi vidi il bambino che, seduto sul coperchio del water, mani sulle ginocchia, dondolava tranquillamente le gambe. Mi guardava e aveva un’aria felice. Lo guardai anch’io, senza dire nulla, poi richiusi gli occhi.
Quando ridiscesi il giorno si spegneva e macchiava fuggevolmente il cielo di rosa e di arancione, posando una luce ambrata sulle masse verdi del giardino e gettando lunghe linee dorate attraverso il salotto, intorno agli ospiti raccolti lÃ, a bere, fumare, discutere, con toni che andavano dalla foga alla noia, le notizie della settimana. Avevo indossato il mio bell’abito grigio, un tubino aderente di lino e viscosa, a metà coscia; e mentre scendevo i gradini l’uomo alto e biondo, in piedi accanto alla vetrata, di fronte alla donna anziana, mi seguiva con uno sguardo febbrile, avido. Vicino a lui, sprofondato nel divano di pelle, il vecchio fumava un sigaro contemplando gli ultimi riflessi del crepuscolo. Mi versai un bicchiere di vino bianco e mi mescolai agli ospiti tentando con un sorriso di interessarmi alle conversazioni. Dietro di me il vecchio si era alzato per raggiungere l’uomo biondo, e gli parlava con voce cortese e colta di insignificanti storie di lavori, legati, pareva, a problemi di elettricità . Ormai scendeva la notte e aiutai la donna anziana ad accendere le luci del salotto, a una a una. Alla fine ci sedemmo a tavola. Gli ospiti, di ottimo umore, tutti quanti felici della rispettiva presenza, sorseggiavano il vino e annusavano la portata principale, scampi saltati con l’aglio. Scoppiettavano frasi allegre; il vecchio, seduto a capotavola, pontificava in tono smaliziato sugli ultimi sviluppi politici; vicino a lui il bambino chiacchierava di battaglie immaginarie mentre la donna anziana gli scorticava pazientemente gli scampi. Riempii di nuovo il bicchiere al mio vicino di sinistra, poi feci girare la bottiglia notando alla luce delle candele le impronte di dita che la chiazzavano. Ora il bambino era scivolato sotto il tavolo, e da un lieve tocco contro le mie caviglie intuivo che stava offrendo al gatto pezzetti di scampo. L’uomo biondo lo rimproverava affettuosamente invitandolo a tornare a sedersi e vuotare il piatto; il bambino sbucò fuori con una risata, si pulà le dita unte sul golf e si impegnò a spezzare una chela con i dentini da latte; alla fine si alzò di scatto e, lasciando la sedia in fretta e furia, scappò in camera. L’uomo lo seguà mentre il vecchio, interrompendo la conversazione, picchiettava sul bicchiere con la lama di un coltello. Si fece silenzio e gli ospiti tesero il bicchiere. Lo sguardo scintillante del vecchio si era posato su di me, un sottile sorriso gli sollevava agli angoli i baffi tagliati con cura; tutto, in lui, esprimeva il suo potere, il suo controllo, la sua sicurezza di sé. «Alla piú bella di tutte le figlie», scandÃ, altezzoso. Strinsi i denti e deglutii convulsamente mentre gli ospiti, estasiati, riprendevano in coro il brindisi. Anche la donna anziana mi guardava, con un’aria al tempo stesso affettuosa e spietata. Tesi anch’io il bicchiere e, chinando gli occhi, mi sforzai di portarlo alle labbra. L’uomo biondo era tornato e cominciava a sparecchiare. Mi alzai da tavola e lo aiutai senza dire una parola, muovendomi fra gli ospiti che si sparpagliavano per il salotto in un allegro frastuono. Fuori era buio e la vetrata rifletteva le loro pose eleganti e studiate, come un grande quadro mondano, dalla composizione perfetta. Giravano bicchieri, sigarette, piccoli sigari. Il vecchio si era chinato sullo stereo e metteva un disco, consultando la custodia per trovare una certa traccia; fin dalle prime note riconobbi una registrazione recente del Don Giovanni, la celebre aria del catalogo. Di nuovo sentii un furore muto stringermi le costole, pensando con disprezzo allo squallido e sordido catalogo che doveva custodire i ricordi del vecchio. E cosÃ, tutto si riduceva a questo? Anche la vecchia lo guardava, ma non riuscivo a decifrare il suo sguardo. I pensieri che mi sollevavano da terra come con un gancio da macellaio, a lei lasciavano invece un senso di felice nostalgia? O era pervasa anche lei da un disgusto appiccicoso come il mio, solo meglio dissimulato, oppure ancora levigato dal tempo, indurito, diventato un oggetto su una scrivania e contemplato da lontano, feticcio che aveva assorbito l’ultima delle passioni nefaste?
A uno a uno gli ospiti si erano congedati. L’uomo biondo aveva accompagnato i due vecchi alla loro camera, appena prima di quella del bambino, nel corridoio dabbasso; io mettevo nel lavandino gli ultimi bicchieri, dopo aver caricato e fatto partire la lavapiatti. L’uomo mi raggiunse e senza dire una parola mi invitò a salire, precedendomi sulla scala. Nella penombra ammirai l’ondulazione possente dei suoi fianchi, ma con distacco, come se fosse stata una bella sequenza cinematografica. Provavo per quell’uomo e per il suo corpo un grande affetto, ma anche quell’affetto si era distaccato da me e, aderendo tutto a lui, viveva una vita autonoma, lasciandomi isolata, piena di spavento, in spasmodica attesa di qualcosa di cui non potevo determinare né l’origine, né la forma, né lo scopo. Mentre faceva la doccia io mi spogliai, riponendo l’abito nell’armadio e gettando la biancheria nel cesto del bucato; poi, questa volta senza rivolgere uno sguardo allo specchio ai piedi del letto, mi sdraiai sopra le lenzuola, sul fianco, la pelle nuda, bianchissima sotto il chiarore della luna, che si stagliava nettamente davanti ai miei occhi sull’intreccio di lunghe erbe verdi. L’uomo era uscito dal bagno e, inginocchiato sul letto, alle mie spalle, premeva il corpo ancora umido contro il mio. Feci scivolare una mano dietro la schiena e, senza girare la testa, gli accarezzai il ventre sodo, i peli fitti e ricciuti, la pelle morbidissima del membro che, ancora molle, si rizzava impercettibilmente sotto le mie dita. Lui mi faceva scorrere una mano sulla pelle, mi sfiorava il seno, le costole, scostava dal viso i capelli sciolti mentre con le labbra mi solleticava la nuca. Distesi una gamba e mi girai prona, premendo le natiche contro di lui; mi passò una mano sul pube per giocare con le labbra del sesso, pizzicandole, rigirandole una contro l’altra per poi separarle, il sangue le gonfiava e il mio bacino si tendeva da solo, le sue dita scavavano, insistevano, le massaggiavano, ricoprendole del fluido che si spandeva fra loro. Inarcai le reni e afferrai a due mani la stoffa del lenzuolo mentre il suo sesso si faceva strada dentro il mio, aprendolo del tutto e inondandolo di calore. Lentamente, i suoi fianchi cominciarono a muoversi, diffondendo quel calore che saliva a irrigarmi tutto il bacino; ma era come se ad accogliere tutto quel piacere fosse il bacino di un’altra persona, lontana da me, completamente distaccata. Mi sollevai su una spalla e voltai la testa sotto il suo braccio: nello specchio, imbiancati dalla luce della luna, distinguevo nettamente il suo culo e la parte superiore delle sue cosce nervose ricoperte di peluria bionda, e anche le mie bloccate sotto, e sospese in mezzo forme scure, rossastre, indistinte. Affascinata da quello spettacolo incongruo, vidi allora sfilare nello specchio, per un lungo istante, i culi di tutti gli uomini che si erano stretti cosà contro il mio, con pazienza, con urgenza, con gioia o con frenesia, e anche i loro membri, rigidi e sussultanti di piacere, che mi aprivano ancora e mi facevano precipitare in un godimento oscuro del tutto estraneo a quel lungo corpo bianco perso fra le erbe verdi delle lenzuola, ansimante e offerto, il mio, a quanto pareva.
Quando aprii gli occhi era ancora buio. La luna si era allontanata, solo qualche riflesso indistinto illuminava ancora le foglie del glicine che ondeggiavano davanti alla finestra con un lieve brusio. Un lenzuolo, ora, ci ricopriva, l’uomo doveva averlo tirato su di noi; sentivo il suo corpo caldo e rilassato contro il mio, respirava in modo regolare, immerso nel sonno. Mi districai da lui con cautela, scostai il lenzuolo, e sedetti sul bordo del letto, di fronte alla finestra. Distrattamente, mi sfiorai i peli irrigiditi dagli umori e dallo sperma secco, che mi era colato anche su una coscia e stiracchiava la pelle. Poi mi alzai, infilai una vestaglia, e scesi, la pietra dei gradini fredda sotto i miei piedi. In salotto esitai se versarmi un bicchiere di vino o fumare una sigaretta; alla fine presi una mela rossa dalla ciotola appoggiata sulla credenza e la addentai, assaporandola, mentre un po’ di succo mi imperlava gli angoli delle labbra. La mangiai fino al torsolo, che lasciai sul tavolo, poi raggiunsi il piano di sotto. Nel corridoio la porta della camera degli ospiti era socchiusa e infilai la testa nello spiraglio, guardando per un istante i volti dei due vecchi, nettissimi sotto il bianco chiarore della luna che qui cadeva a picco. Il sonno li aveva afflosciati, le palpebre chiuse pendevano sugli occhi come un panno bagnato; mi chiesi come potessero dormire cosÃ, mentre l’età e la decrepitezza gli erodevano pazientemente le carni. Il bambino, invece, dormiva insieme al gatto e ai suoi orsacchiotti, mezzo scoperto, la fronte umida. Scostai con delicatezza i capelli, svegliando il gatto, che saltò giú dal letto e scappò dalla porta rimasta aperta, poi mi tolsi la vestaglia e scivolai sotto le lenzuola, rannicchiandomi contro il bambino e tirandomi addosso la coperta. Chiusi gli occhi. Avevo la testa vuota, nessuno dei miei pensieri, disarticolati, prendeva forma o assumeva un aspetto compiuto, ma rimanevo lucida, pienamente vigile, incapace di riaddormentarmi. Riaprii gli occhi e fissai il triangolo di luce che, diffuso dalla plafoniera del corridoio rimasta accesa, penetrava nella stanza dallo spiraglio della porta. Restai cosà a lungo, mentre pensieri incoerenti mi si affollavano dietro gli occhi, svolazzando come piccole falene intorno alla fiamma di una candela prima di arrostirsi le ali e finire annegate nella cera liquida. Poi attraverso il triangolo luminoso passò un’ombra, e un terrore infantile cancellò tutto. Il vecchio, in pigiama verde pistacchio a righe bianche, era entrato nella stanza e si avvicinava a me. Sedette sul bordo del letto e allungò una mano per accarezzarmi con un gesto dolce la fronte grondante di sudore e scostare le ciocche umide. Le sue labbra secche e svuotate dall’età mormoravano parole scucite: «Figlia mia, bambina mia». Mi raddrizzai di colpo, lasciando cadere la coperta sulle reni, e lo schiaffeggiai: «Tu qui non c’entri niente! Vattene!» Impietrito, mi osservava con un’espressione sbigottita; gli cadde lo sguardo sul mio seno nudo, si soffermò, poi tornò verso il viso. Lo schiaffeggiai di nuovo. Si alzò, con la faccia smarrita, mi girò le spalle e uscà vacillando un po’. Aspettai di sentire il lieve scatto della sua porta che si richiudeva prima di sdraiarmi di nuovo accanto al bambino e addormentarmi. Sognai le lezioni di guida: l’insegnante, furibondo per la mia incapacità , mi rimproverava aspramente, ma io lo ignoravo e continuavo per la mia strada, bruciando i semafori rossi, imboccando viali contromano, scambiando per strade vicoli ciechi, ma procedendo sempre con leggerezza, senza provocare incidenti, sovranamente libera. Quando riaprii gli occhi il cielo, dietro i vetri, diventava rosa; alcuni uccelli, annidati fra le piante del giardino, cominciavano uno dopo l’altro a cantare, un concerto di allegri cinguettii. Vicino a me il bambino dormiva profondamente, a pugni chiusi, il naso e la bocca premuti contro l’orsacchiotto rosa che mi fissava con i suoi occhi di vetro azzurro. Mi alzai con la massima delicatezza, infilai la vestaglia e salii. Di sopra anche l’uomo dormiva, prono, la schiena possente mezza scoperta dal lenzuolo, una gamba piegata, le braccia spalancate. Lo osservai mentre indossavo in silenzio la tuta. Al momento di andarmene scorsi la mia sagoma nel grande specchio verticale, davanti alla stoffa verde e oro che, vista da quell’angolatura, nascondeva fra le sue pieghe il corpo del dormiente; ma evitai di incrociare il mio sguardo, mi girai e uscii. Fuori era tutto tranquillo, le foglie stormivano, nascondendo i movimenti bruschi degli uccelli che lanciavano senza tregua i loro lunghi trilli sfrenati. Un intenso caldo mattutino già mi impregnava di sudore gli indumenti. Attraversai senza fretta il giardino, aprii la porta in fondo ed entrai nel corridoio dove ripresi a correre senza esitare, slanciando i piedi in brevi falcate cadenzate. Là faceva nettamente piú fresco, ma continuavo a sudare e la tuta si appiccicava alle membra, rabbrividii addirittura, ma non rallentai il ritmo, inspirando ed espirando l’aria con regolarità . Non era né buio né chiaro, indovinavo piú che distinguere con precisione le pareti, e qua e là una zona un po’ piú scura, forse un varco, oppure solo una nicchia. Il corridoio non era dritto, dovevo continuamente spostarmi da una parte o dall’altra per rimanere al centro e quello sforzo mi dava una lieve preoccupazione, temevo di sbattere o proprio di cadere, ma non succedeva niente del genere e proseguivo, riacquistando fiducia. Davanti a me qualcosa brillava sul muro, non una decorazione, come pensai in un primo tempo, ma la maniglia di una porta: la girai senza riflettere e la porta si aprÃ, permettendomi di entrare. Al di là della soglia il pavimento era morbido, mi fermai ed esaminai la stanza in cui mi trovavo, abbastanza ampia, né troppo scura né troppo luminosa, con pochi mobili. Sulle pareti si arrampicavano in colonne regolari pampini dorati leggermente in rilievo; il pavimento era ricoperto da una moquette rosso scuro, color sangue. Dietro il letto, ricoperto da uno spesso telo ricamato a lunghe erbe verdi, una figura dai capelli neri stava di fronte alla finestra. Le imposte erano chiuse e al di là dei vetri non si vedeva niente, ma quella figura li fissava, forse osservando il proprio riflesso; io stessa la vedevo come attraverso una parete di vetro, che istintivamente temevo di infrangere, senza sapere perché. Poi la figura si voltò e capii che era un uomo, un tizio di età matura che vedendomi lasciò aleggiare sul viso olivastro e angoloso un sorrisetto ironico. Con un movimento pesante si allontanò dalla finestra e girò intorno al letto per avvicinarsi a me. «Quanto avevamo detto?», borbottava con voce sorda. Dissi una cifra, un po’ a caso, e lui prese dalla giacca un portafoglio da cui estrasse alcune banconote. Le infilai nella tasca della tuta mentre l’uomo cominciava a slacciarsi la cintura e la patta per tirare fuori un membro spesso e flaccido: «In ginocchio, adesso». Senza dire una parola obbedii appoggiando entrambe le mani sulle cuciture dei suoi pantaloni e prendendo il cazzo fra le labbra. L’uomo mi calcò una mano sullo chignon e mi avvicinò goffamente a sé, premendomi il naso sul pube e riempiendomi la bocca con il cazzo. Mi sforzai di respirare dal naso, un po’ disgustata dall’odore dolciastro, misto a deodorante, che esalavano i suoi peli fitti e molto piú chiari dei capelli, succhiai alla meglio il membro, ma le sue mani mi impedivano di farlo come si deve, ero invasa da un senso di soffocamento e tentavo, invano, di dominarlo, un’ondata di nausea mi strappò un singulto e per poco non gli vomitai sul sesso, mi staccai da lui di colpo, nel panico, deglutendo convulsamente. L’uomo mi diede uno schiaffetto in piena faccia, giusto per farmi riprendere i sensi. «Hai bisogno di lezioni, vedo», disse con una voce priva di intonazione. Il membro, teso fra i bordi aperti dei pantaloni, mi oscillava proprio davanti. «Spogliati», ordinò, sempre con lo stesso tono neutro. Mi alzai in piedi e, in equilibrio su una gamba, poi sull’altra, mi tolsi le sneaker e i calzoni. «Anche le mutande. E la parte sopra. Ma tieni coperte le tette». Obbedii, a occhi bassi per evitare il suo sguardo che mi sentivo addosso, a giudicare, valutare, calcolare. Mi mise una mano sotto il mento, raddrizzandomi davanti a lui e costringendomi a stare in punta di piedi, nuda, a parte il reggiseno e i calzini, braccia lungo il corpo. Fissai gli intrecci dei pampini della carta da parati mentre con l’altra mano l’uomo mi frugava nella vulva. «Sei proprio secca, eh», disse. Tolse la mano, poi mi diede un ceffone che mi fece venire le lacrime agli occhi. Scossi la testa e pronunciai qualche parola: «Questo costa di piú». «Chiudi il becco», ribatté senza alzare la voce. Un violento pugno nella pancia mi tolse il respiro e mi piegò in due. Caddi in ginocchio, soffocando, tentando disperatamente di inspirare abbastanza aria per rimanere cosciente. Un altro colpo al viso mi scatenò nella testa una pioggia di lampi. Sentii il corpo cadere sulla moquette, il mondo girò, poi tutto divenne nero.
La mia faccia era premuta contro una materia morbida e un po’ soffocante. Avevo in bocca un sapore metallico, sputai, battei le palpebre, tentai di alzarmi ma qualcosa mi bloccava le mani. I piedi, sempre con i calzini, cercarono un appoggio, scivolarono, si divincolarono un po’. Sputai di nuovo: vedevo tutto rosso, ero sdraiata sulla moquette, i polsi legati dietro la schiena da qualcosa di metallico, probabilmente manette. Indossavo ancora il reggiseno sportivo. A qualche passo di distanza sentivo scorrere dell’acqua, un getto potente, quello di una vasca. Ancora stordita, mi contorsi, portai una coscia sotto il ventre, e mi sollevai sulle ginocchia, con le gambe che tremavano per lo sforzo. In quel momento comparvero nel mio campo visivo due polpacci nudi e bruni, una mano mi afferrò lo chignon, lo torse e lo tirò, provocandomi un dolore folgorante nella testa e costringendomi a strisciare sulla moquette, il piú rapidamente possibile, per ritrovarmi, sempre in ginocchio, sulle piastrelle bianche e fredde del bagno, dove un calcio alla spalla mi rovesciò senza tanti riguardi sulla schiena. Impotente, con il batticuore e un nodo alla gola per l’angoscia, mi dibattevo come una tartaruga capovolta. L’uomo stava in piedi davanti a me, nudo, braccia penzoloni, il ventre abbronzato un po’ sporgente sopra il sesso ora tutto rattrappito. Lo prese fra due dita, scoprà il glande, e mi urinò addosso, aspergendomi la faccia e il collo. Strinsi gli occhi e tentai di girare la testa sputacchiando il liquido caldo e amaro. Quando il flusso cessò sputai ancora e aprii la bocca per dire qualcosa; ma l’uomo si chinò subito, mi afferrò per le ascelle, mi sollevò sul bordo della vasca e mi gettò nell’acqua. Con la faccia verso il fondo, il naso pieno di liquido, divincolai i piedi, sentendo le bolle d’aria sfuggirmi dalla bocca; alla fine riuscii a girarmi e, appoggiando sul fondo le mani bloccate, a far affiorare la bocca per inspirare un po’ d’aria. La sua mano aperta mi coprà la faccia: «Sei sporca, devi lavarti», disse prima di spingermi di nuovo sott’acqua. Con la testa contro il fondo della vasca, battevo i piedi inutilmente; nei polmoni l’aria si viziava, bruciava, ricopriva tutto di un velo rosso che mi faceva ronzare l’interno della faccia. Non capivo che cosa mi stesse succedendo, il panico, animalesco, aveva cancellato tutti i miei pensieri. All’improvviso la pressione si allentò e la testa scattò fuori dall’acqua; tossivo, ansimavo, inghiottivo spasmodicamente l’aria che mi veniva offerta come un dono insperato. In quel momento l’uomo mi cacciò un panno bagnato fra i denti e mi schiaffeggiò di nuovo. Battei le palpebre, scossi la testa: dalla stanza arrivava un rumore, qualcuno bussava alla porta, l’uomo si infilò un accappatoio, mi spinse piú a fondo il panno in bocca e uscÃ, chiudendosi la porta alle spalle. Rimasi seduta nella vasca, con il reggiseno fradicio appiccicato alla pelle, i capelli bagnati, sfuggiti dallo chignon sfatto, incollati alla faccia, inspirando come potevo dal naso, tentando invano di sputare il panno. Poi feci un violento sforzo per calmarmi e tendere l’orecchio....