All’alba di quella domenica c’era mio padre, affacciato alla finestra della cucina, al terzo piano della casa di Lungo Po Antonelli. Guardava il fiume scorrere. Al di là c’erano le case di Madonna del Pilone e dietro ancora la collina, le foglie gialle e rosse degli aceri in attesa del primo sole. Aveva sessantasette anni ed era vedovo da otto mesi, durante i quali aveva scoperto di aver prestato nel corso della vita piú attenzione alle cose urgenti che a quelle importanti; ma a tale proposito, ormai, non c’era molto che potesse fare, se non dimostrare a se stesso e ai figli di saper attraversare il resto del tempo distinguendo con maggiore consapevolezza le une dalle altre.
Stava bevendo il caffè, lo sguardo attratto da un albero che il vento, forte in modo insolito per una città come Torino, aveva abbattuto la settimana precedente e che era crollato verso il fiume; ora gli uccelli ne affollavano i rami secchi, protesi sull’acqua come le dita di uno che ha traversato il deserto.
Si diresse in bagno; svuotò la vescica restando a lungo sulla tazza, poi spremette un ricciolo di dentifricio sullo spazzolino e strofinò con cura osservando allo specchio il viso illuminato di sbieco. Notò con soddisfazione che seppure radi sulla fronte i capelli grigi non stavano perdendo consistenza e che gli occhi segnati dalle occhiaie mantenevano una forza inquieta. Ciò su cui non aveva potere era la qualità della pelle: nell’ultimo anno – soprattutto dalla morte di lei – era diventata secca e fragile e una macchia era apparsa sulla tempia, seguita da altre, piú piccole, dello stesso colore: insieme formavano un disegno che ricordava quello di una costellazione. Si chinò per raggiungere il rubinetto con le labbra, prese un sorso d’acqua, lo frullò in bocca e sputò nel lavandino; lo scarico inghiottà il liquido cremoso che si era tinto di rosso. Colpa delle gengive. Ripeté l’operazione altre due volte, afferrò un asciugamano, aprà la finestrella che dava sul cortile e inspirò l’aria fredda del mattino.
Percorse il corridoio su cui si affacciavano le stanze dell’appartamento. La piú piccola era stata la camera di Alessandro. Adesso era uno studio, o forse un laboratorio, lui ci pasticciava con la colla, le forbici e i materiali di risulta con cui aggiustava oggetti o costruiva modellini. Mia sorella Sonia e io avevamo condiviso per vent’anni quella di fronte, la piú spaziosa. Ai tempi del liceo, per assicurarci maggiore intimità , mio padre l’aveva divisa con una parete in cartongesso che ora non c’era piú, ma che aveva lasciato un’ombra farinosa sul pavimento. Dallo stesso lato c’era la loro camera. Il letto matrimoniale di bambú su cui ognuno di noi era stato concepito con diversi propositi: posa della pietra angolare, verifica strutturale, ancoraggio. L’armadio laccato bianco con le foglie di palma dipinte con lo stencil custodiva ancora i vestiti di entrambi: li darò via, aveva detto, la settimana prossima, appena riesco. E poi: sÃ, ora ci penso.
In soggiorno c’erano il tavolo grande, la libreria, la televisione, le piante che lei curava con passione e ora apparivano sfiancate; le felci traboccavano ingiallite dai vasi e sulla sansevieria, a causa di una malattia batterica, erano spuntate delle macchie simili a lividi. Il tronchetto della felicità stava bene. Glielo avevamo regalato io e Sonia, non ricordo se a Natale o a una festa della mamma. Appese alle pareti c’erano molte foto, soprattutto di ponti, quelli cui papà aveva lavorato in Venezuela, in Libia, in Angola, in Paraguay.
Le porte delle stanze erano spalancate. Tutte. Trovava insopportabile vederle chiuse. Già erano vuote, che almeno respirassero.
(Un giorno, molti anni dopo, prima del ricovero, l’ho visto voltarsi di scatto nel corridoio come per cogliere in fallo un fantasma, e poi, nell’osservare la tenda sventolata dalla corrente, chinare la testa con un imbarazzo infantile.)
In cucina accese la radio e la sintonizzò sulle notizie del giorno, quindi osservò il tavolo di legno, i mestoli, le schiumarole, gli utensili di acciaio e silicone appesi ai ganci, la credenza. Aprà il frigorifero e ne studiò il contenuto tenendo ferma la porta con una mano. Sul pavimento c’erano le buste con la spesa del giorno prima. Avete presente un generale sulla collina prima della battaglia? Ecco: lui. Gli mancava solo il cannocchiale, mentre nella schiena c’era la paura di mettere in tavola per la figlia e le nipoti del cibo insipido o troppo salato, di sbagliare le dosi e spadellare una sorta di poltiglia – gli sguardi imbarazzati di Greta e Rachele diretti alla madre: non hanno fame, scusale, abbiamo fatto colazione tardi. Lo immagino distrarsi solo sfiorando con lo sguardo il foglietto di carta azzurra su cui Sonia aveva scritto il mio nuovo numero di cellulare, ancorato al frigo da un magnete a forma di pesca. Sopra ci aveva aggiunto «chiamala», con un punto esclamativo.
Quella domenica mattina papà lo osservò a lungo, cosà mi disse.
Poi, trovando insopportabile averlo lÃ, come una luce puntata in faccia, lo staccò e lo spostò sulla bacheca dell’ingresso; gli rivolse un’ulteriore occhiata, quindi girò sui tacchi e tornò in cucina.
Questa è una cosa che ricordo bene: avevo dieci anni e un pomeriggio, pochi giorni prima di Natale, papà mi portò a pattinare sul ghiaccio. Sonia era a nuoto e Alessandro a una festa a casa di un compagno di classe. L’affitta-pattini ce l’ho davanti agli occhi, un tizio con una barba rossa da vichingo e un cappello da folletto. Me ne diede un paio color melanzana che sembravano appena usciti dalla fabbrica mentre i suoi, quelli di papà , erano azzurri e usurati. L’impianto diffondeva classici natalizi cantati da un coro di bambini.
Io stavo a malapena in piedi. Lui invece era bravo. Come sempre. All’epoca avevo l’impressione che sapesse fare tutto con una naturalezza implacabile.
Mi strinse entrambe le mani e pattinando all’indietro mi trascinò per la pista. Lo guardavo dritto negli occhi e i suoi occhi avevano il colore dei boschi, come i miei. Ho il ricordo che fossimo soli, che non ci fosse altra gente – non era vero, ma la sensazione era quella: che con le dita allacciate stessimo piroettando in silenzio al centro di un gigantesco lago ghiacciato mentre una foschia setosa, profumata di vaniglia, si srotolava attorno a noi, aprendosi al passaggio e separandoci dal mondo. Oggi direi dalla meschinità , dai livori ingiustificati. E quando perdevo l’equilibrio lui mi sosteneva. E quando la lama del pattino s’incagliava nel ghiaccio una pressione lieve delle dita era sufficiente a farmi ritrovare confidenza. Scorgevo ombre sotto di me. Ombre enormi. Avevo l’impressione che oltre la superficie traslucida e brinata nuotassero delle balene. Tutto ciò dietro Torino Esposizioni, a un passo dal traffico e dai venditori di lecca lecca chimici.
Di questo era capace, mio padre.
Cominciò a nevicare. Eravamo all’aperto. Non sarei mai voluta andare via. Sarei rimasta là con lui per sempre a barcollare sul ghiaccio; fossi caduta mi avrebbe dato un bacio sul livido e il male sarebbe svanito d’incanto. C’eravamo solo io, lui e le balene. Ascoltando Last Christmas degli Wham. Cantata da una bambina che, ne ero sicura, portava ai denti il mio stesso apparecchio.
Mio padre aveva trascorso il sabato a predisporre il menu cercando di ricordare quali fossero i piatti preferiti di Sonia, Greta e Rachele. Del genero non si era preoccupato: amava l’Arneis e di quello c’erano sempre un paio di bottiglie in fresco.
Per Sonia aveva deciso di preparare le cipolle ripiene, il budino di Seirass e le tagliatelle di borragine. Per le nipoti pollo in gelatina e soma d’aj. Alla fine zuppa inglese e baci di dama con il caffè. Erano i piatti della tradizione. La nostra. Quelli su cui in famiglia col passare del tempo si erano accumulati aneddoti e memorie, e a parte i baci di dama, confezionati, sapeva che acquistarli in gastronomia sarebbe stata una truffa, un tradimento inaccettabile. Quando aveva deciso di invitarli sapeva che avrebbe dovuto mettersi ai fornelli, cosa che non aveva mai fatto. E sapeva anche che avrebbe dovuto affrontare il quaderno rosso di mamma, quella specie di moleskine gigante che aveva fatto parte della nostra vita da prima della nascita di Alessandro e che da piccoli ci seguiva persino in vacanza.
Sebbene non lo avesse mai aperto – negli ultimi otto mesi non aveva avuto ospiti e per la sopravvivenza si era affidato a sughi confezionati e fette di pollo alla griglia con insalata di pomodori – non c’era stato giorno in cui papà non lo avesse sfiorato con un dito, sentendo una talpa mordergli la punta dei piedi. Quando il giorno prima l’aveva preso in mano e, sfogliandolo in cerca delle ricette che gli servivano, aveva riconosciuto la scrittura di mia madre – quel modo di fare la s con uno svolazzo, una leziosità che non le si addiceva, lei cosà veloce e pragmatica, e le t con la stanghetta piú lunga del necessario – era rimasto senza fiato. Aveva accarezzato le pagine con una meticolosità da cieco per sentire la profondità delle incisioni lasciate dalla penna e gli occhi si erano riempiti di lacrime.
A quel pensiero, già che c’era, strappò la retina in cui erano conservate le cipolle. Guardò oltre la finestra e vide il cielo terso farsi ogni secondo piú luminoso. Si scrollò di dosso il torpore e iniziò ad ammucchiare sul tavolo il necessario seguendo lo schema appuntato su un foglio. Una voce roca, alla radio, parlava di una collettiva a Roma, al Palazzo delle Esposizioni: «ventuno gli artisti selezionati, dieci i designer, settanta le opere scelte spaziando tra diversi materiali, unica esclusa la plastica, in passato legata a una certa ricerca artistica, ma oggi giudicata controversa per le implicazioni ambientali…» Aveva appena tirato fuori dal frigo la carne per il ripieno delle cipolle quando suonarono alla porta. Una voce chioccia sbraitò un «Ciao!» che rimbombò sul pianerottolo, e lo ripeté altre cinque o sei volte, con un tono identico, prima che lui prendesse anche solo in considerazione l’ipotesi di aprire.
Papà aveva girato il mondo per quarant’anni progettando ponti e viadotti. La sua famiglia era di Como. Lui si era laureato in Ingegneria a Milano. Grazie a un amico di famiglia era stato assunto da un’azienda all’epoca piuttosto importante, con discrete entrature politiche e interessi sparsi in una quindicina di nazioni: dighe, impianti idroelettrici, ferrovie. E ponti – ponti ponti ponti. Che amava sopra ogni cosa e di cui aveva scelto di occuparsi. Aveva fatto carriera in fretta, e aveva accolto questo dato senza stupore, piuttosto come il maturare degli eventi: sapeva di essere competente e dava per scontato che il mondo dovesse accorgersene.
Quando non era in viaggio ci parlava del lavoro, dei posti in cui era stato, delle persone che aveva conosciuto, della vita in cantiere – una parte della vita in cantiere – e degli imprevisti che trasformava in appassionanti avventure – quella volta in cui era arrivato un temporale, no no, aspettate, un uragano, o l’altra in cui erano stati invasi dalle cavallette, invasi, ve lo giuro, una cosa biblica. Ci raccontava dei tempi, che considerava mitici, in cui per costruire i ponti si deviavano i fiumi e si aspettava che il fondo asciugasse per predisporre le centine su cui posare i conci sino alla chiusura definitiva delle volte. In quei racconti infarciti di parole difficili e particolari tecnici c’era un momento – c’era sempre – in cui all’improvviso taceva cercandoci con gli occhi, muovendoli rapidi, destra-si...