La clausola del padre
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La clausola del padre

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La clausola del padre

Informazioni su questo libro

Un «figlio che è anche un padre» prende un congedo di paternità e resta a casa a occuparsi dei figli mentre la moglie va a lavorare. Quando il «padre che è anche un nonno», due volte all'anno, ritorna a Stoccolma, pretende che il figlio si occupi anche di lui. In mezzo ci sono loro, le donne - sorelle, madri, figlie - che provano a tenere insieme un mondo che sembra sempre piú intenzionato ad andare in pezzi. Raccontando la storia di una famiglia totalmente nevrotica e (quindi) perfettamente normale, Jonas Khemiri scrive il suo romanzo piú imprevedibile, divertente, doloroso e vero. Come ogni anno, un «padre che è anche un nonno» torna in Svezia a curare i suoi interessi e visitare la famiglia che ha abbandonato. Il padre ha cultura e tradizioni che si scontrano con la «svedesità» dei figli. E il suo atteggiamento borioso non facilita di certo i rapporti. Un tacito accordo vincola il figlio a occuparsi di lui a ogni penoso ritorno. Ora che a sua volta ha dei figli, un lavoro che odia e una vita da cui vuole fuggire, vedersi riflesso nel padre è l'ultima delle cose che vorrebbe fare. Anche sua sorella è già madre e incinta di un altro bambino che non è sicura di voler tenere: la sorte del feto sarà affidata a una singola connessione telefonica. Ma dieci giorni possono influenzare in modo inatteso le dinamiche di una famiglia tormentata dai fantasmi del passato e dai non detti del presente. Se per questi buffi personaggi, che potrebbero essere scappati dal set di un film di Wes Anderson, esiste una possibilità di riscatto, può venire solo dall'innocenza e dalla freschezza delle nuove generazioni. Jonas Khemiri è uno scrittore europeo: la contemporaneità dello sguardo, la capacità di raccontare le relazioni delle famiglie moderne, i sentimenti di chi vive sotto i cieli del «vecchio continente», le paure e le inquietudini di una società multietnica e in trasformazione, fanno di Khemiri una delle voci piú importanti da ascoltare per capire chi siamo.«Un romanzo tenero e scintillante allo stesso tempo. Un'iniezione di vitamine per noi lettori».
«M-magasin» «Non ricordo l'ultima volta che ho letto una descrizione cosí vera di cosa vuol dire essere genitori oggi».
«Vårt Land»

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806241834
eBook ISBN
9788858431856
III.

Venerdí

È venerdí mattina e una ragazza che è anche una mamma che lavora come avvocato del sindacato è in ufficio dalle sette e venti. Alle nove, quando arrivano le segretarie, ha già scritto venti mail e preparato un ricorso ed è pronta per il primo appuntamento della mattinata. Visto che la cliente non arriva, chiede alla segretaria di telefonarle. Risponde il padre. Siamo qui fuori, dice. Ma non vuole entrare. Ha cambiato idea. Scendo io, dice l’avvocato che è anche una mamma. La ragazza è seduta china su una panchina, con i capelli davanti al viso. Chi è lei?, chiede il padre. Il vostro rappresentante legale, risponde l’avvocato. Sembrava diversa, al telefono. L’avvocato si siede sulla panchina. Si schiarisce la gola. Dice che capisce che è una brutta situazione. È normale avere paura. Poi si china in avanti e bisbiglia: Ma se non li denunciamo, quegli stronzi continueranno cosí. E non deve succedere. Dobbiamo fermarli. Li massacreremo, capisci? In tribunale sarà un bagno di sangue. Te lo prometto. Fidati di me. La ragazza sembra confusa. Non parla come un avvocato, dice. Lei sorride. Lavoro all’ufficio legale del sindacato. Ma non sono un avvocato come gli altri.
Mentre salgono in ascensore l’avvocato che è anche una mamma le racconta delle sue origini: da dove arriva, quanto hanno lottato i suoi per farla studiare e trovare lavoro in quell’ufficio elegante. Appena laureata avevo paura che la gente capisse chi ero, spiega. Ma adesso non piú. Mi dica di nuovo cosa gli farà, dice la ragazza. Li massacrerò, risponde l’avvocato. Nessuna pietà. Devono morire. La ragazza sorride. Il padre sembra preoccupato.
Una volta nello studio, a porte chiuse, la ragazza inizia a raccontare. Era stato suo padre a trovarle quel lavoro, aveva saputo che il ristorante cercava personale ordinando un catering per la sua azienda. Aveva iniziato che aveva solo quindici anni: la prima estate era rimasta al banco, ma in autunno aveva cominciato a dare una mano ai tavoli del buffet. Il locale era gestito da due fratelli. Uno era gentile in senso buono, l’altro in senso piú complicato. Le faceva sempre i complimenti, diceva che era bella come il sole, che era fresca come un prato fiorito, che vederla lo metteva di buon umore, cose del genere. Ma è vero, interviene il padre. Cosa c’è da arrabbiarsi, se uno è gentile? Una sera il capo le si era piazzato davanti chiedendole se le andava di fargli compagnia in ufficio, e quando lei aveva risposto di no si era messo a ridere e aveva detto che stava solo scherzando. Forse scherzava davvero, dice il padre. Ha piú di cinquant’anni, no? Un’altra volta le aveva tolto quella che secondo lui era una macchia di cioccolata all’angolo della bocca con il pollice lucido di saliva. E allora?, chiede il padre. È stato gentile, no? Non voleva che qualcuno ridesse di te. Avevo appena iniziato il turno e non avevo mangiato cioccolata. Quando aveva iniziato a lavorare lí, le avevano parlato della classifica del capo: metteva i dipendenti in ordine di scopabilità, sia i maschi che le femmine, sia le cameriere che i buttafuori. Ah, qualche rospo bisogna pur ingoiarlo, dice il padre senza sembrare convinto. Un sabato sera le aveva proposto di andare a casa sua. La settimana dopo l’aveva chiamata nel suo ufficio e aveva detto chiaro e tondo di averla assunta perché voleva portarsela a letto, di essere innamorato di lei, le aveva promesso privilegi e aumenti di stipendio, aveva detto di non aver mai provato niente del genere, poi aveva chiuso la porta a chiave e abbassato le veneziane. Il padre si alza e si avvicina alla finestra, ma non la apre. Dopo aveva messo in giro voci su lei, raccontando dettagli intimi, sostenendo che era stata lei a saltargli addosso. Il padre torna a sedersi. Guarda a terra. Stringe i braccioli. Quando lei aveva protestato l’aveva licenziata, ma solo adesso, dieci mesi piú tardi, dopo aver saputo che altre ragazze avevano dovuto subire cose ancora piú gravi, ha deciso di contattare il sindacato.
Quando la ragazza finisce di raccontare, l’avvocato le porge un fazzoletto. La figlia scuote la testa, il padre lo accetta. Crede che vinceremo?, chiede le ragazza. Gli daremo una bella lezione, risponde l’avvocato con un sorriso. Non vuole sapere se sono due immigrati?, dice il padre. Non è rilevante, risponde l’avvocato. Per me sí, insiste il padre. Per noi è rilevante. Non è vero, tesoro? La ragazza non risponde. Sono immigrati, dice il padre. Non è vero? La ragazza non dice niente. Il padre sospira. Che Paese di merda. Quand’è che ci sveglieremo e ci renderemo conto di aver rovinato il nostro Paese? L’avvocato del sindacato si morde la lingua. Abbraccia la ragazza e dice che andrà tutto bene. Sei fantastica, sei una regina, ce la farai. Siamo noi due contro il mondo, lo capisci? Noi siamo il sole e loro le nuvole, e le nuvole vanno e vengono, no? Mentre noi continuiamo a brillare. Me lo prometti? La ragazza annuisce, poi padre e figlia se ne vanno.
L’avvocato del sindacato che è anche una mamma va a pranzo insieme a Sebastian. Sono sempre i primi ad arrivare in ufficio al mattino, lei perché ha bambini piccoli, lui perché si alza alle cinque e va al lavoro in bicicletta fin da Danderyd. Il cameriere suppone che Sebastian voglia il pesce e lei il piatto del giorno vegetariano. Annuiscono entrambi. Durante il pranzo parlano del vaso di gladioli alla finestra, del terrier che la figlia adolescente di Sebastian ha a casa in prova e che pare si chiamerà Ugolino, di balsamo per capelli, del fatto che tutte, ma proprio tutte le salse migliorano con un pizzico di peperoncino. È Sebastian a pagare il conto. All’inizio cercava di offrire lei una volta sí e una no, o almeno una su tre, ma lui ci restava cosí male che ha smesso di provarci. Quando il cameriere apre loro la porta, la corrente d’aria scompiglia i capelli di Sebastian, che la lascia passare per prima, come sempre. Meno male che è troppo vecchio e felicemente sposato, che ha i capelli radi e non è piú tanto abbronzato, perché una volta, quando era rientrato dalle vacanze con il suo sorriso e le sue mani, si era quasi preoccupata di quanto fosse felice di vederlo.
Tornati in ufficio, riaccende il cellulare e trova cinque messaggi del suo ragazzo. Solo foto, niente testo. Il piccolo e la bambina che si tengono per mano su una scala mobile, i visetti carichi di aspettativa. Si reggono in equilibrio su un tappeto elastico in un orribile parco giochi al coperto. Fanno smorfie davanti a uno specchio deformante. Stringono una pallina appiattita in mano insieme al papà, ridendo come matti. Quei tre adorano stare insieme, si divertono tanto senza di lei. La mamma si scuote di dosso la sensazione di fastidio. Nell’ultima foto sono tutti e quattro in fila in un ingresso dipinto di rosso. Il nonno a sinistra. La bambina al centro. A destra il suo ragazzo con il piccolo in braccio. Tutti sorridono. O meglio: la bambina fa una smorfia, il piccolo ha la testa voltata, il nonno aggrotta la fronte. Ma il suo compagno sorride. O si sforza di sorridere. La persona a cui hanno chiesto di scattare la foto era leggermente troppo lontana: sulla destra si intravedono degli scaffali metallici e a sinistra le schiene di due persone che non dovrebbero esserci.
È venerdí mattina e un figlio che è anche un papà legge la scritta sul cartello: SUONATE una volta, ARRIVIAMO SUBITO. «Una volta» è sottolineato e scritto in grassetto maiuscolo. Il papà suona una volta il campanello. Poi aspettano. Il piccolo ciondola le gambe sul passeggino, la bambina vorrebbe correre avanti ma il cancelletto di plexiglas le blocca la strada. Non si vede nessuno. Il papà prende il cellulare e guarda dimostrativamente l’ora, anche se sa già che sono le dieci e un quarto. Non c’è nessuno, dice la bambina. Gheeeee, biascica il piccolo. Dovrebbero avere già aperto, dice il papà a voce un po’ piú alta del necessario, in modo che il personale seduto nella saletta ristoro con gli occhi fissi sul cellulare capisca che rischia di perdere dei potenziali clienti. Non arriva nessuno. Un secondo cartello sul bancone informa che non sono ammesse scarpe, né passeggini, né cibo. Il papà sa già tutto. Sa anche che ci sono altri sei parchi del genere in città, che il primo ha aperto cinque anni e mezzo fa e l’ultimo l’estate scorsa. Sa che il nome è ispirato al nipote del fondatore canadese, sa che l’ingresso costa 179 corone per bambini sopra i due anni ed è libero per i piú piccoli, a condizione che si iscrivano al club, che è gratuito. Basta mostrare un documento e lasciare i propri dati e l’indirizzo mail. Sa anche che avrebbero dovuto aprire un quarto d’ora fa, perché ha controllato su internet prima di uscire di casa, cosí come ha cercato il percorso piú rapido e fatto scorta di omogeneizzati, biberon e vestiti di ricambio, sia per i bambini che per sé, oltre a riempire la borsa di pannolini e salviette e a prendere il fasciatoio portatile che permette di cambiare un bambino dovunque ci si trovi. Posti in cui ha cambiato pannolini negli ultimi mesi: sul pavimento di una biblioteca, sul sedile anteriore della macchina, sul tetto di un castelletto di legno in un parco, sulle scale di casa di un amico a Kärrtorp, dato che l’amico che stavano andando a trovare era in ritardo.
Perché non arrivano?, chiede la bambina. Non lo so, risponde il papà. Sono morti?, insiste la bambina. Spero di no, risponde il papà. La nonna di Leo è morta, dice la bambina. Poi resta in silenzio. Il papà valuta se sia il caso di suonare un’altra volta, ma il cartello dice specificatamente di farlo una volta sola. Decide di aspettare. Le lumache invece non muoiono, riprende la bambina. Due mamme, o una mamma e un’amica, arrivano con una bambina piccola e si mettono in coda dietro di loro. Lo guardano. Il papà alza le spalle e indica il cartello con un cenno della testa. Una delle donne allunga un braccio e suona il campanello una volta, poi un’altra.
Il ragazzo che viene ad aprire non sembra per niente stressato e li saluta con un sorriso; prende i dati per iscrivere il piccolo al club e dice che ci sono dodici scivoli, nove percorsi a ostacoli, un mare di palline per i piú piccoli e un campetto multifunzione da calcio e basket in fondo a destra. Il papà vorrebbe dire che non è stato lui a suonare tutte quelle volte, ma si trattiene. Il ragazzo alla cassa gli consegna la ricevuta e gli raccomanda di non dimenticare la carta di credito. Grazie, hai fatto bene a ricordarmelo, dice il papà. La lascio sempre in giro. Infila la ricevuta nel portafoglio. Mentre entrano si domanda perché ha detto che dimentica sempre la carta, la usa da quando ha diciotto anni e non ricorda di averla lasciata in giro una sola volta.
Il parco giochi è lilla, giallo e rosso; tutte le superfici dure sono rivestite di gommapiuma, il pavimento è coperto da tappetini antiurto e le pareti sono fatte di rete, perciò quando la bambina si arrampica al piano superiore lei e il papà si vedono attraverso le pareti. La bambina sale una scaletta di corda, salta dei coni morbidi, si lancia aggrappata a una liana, scende attraverso uno scivolo a tubo giallo. Il piccolo è seduto tutto soddisfatto nel mare di palline colorate. Fa il suono simile a un muggito di quando vede qualcuno che mangia mandarini, accende una torcia o riempie una vasca da bagno. Un muuu che vuol dire: ne voglio anch’io, voglio giocare, è quello che ho sognato per tutta la mia breve vita.
Il papà è seduto per terra accanto al piccolo. È presente al cento per cento, si gode l’attimo. È davvero lí con i suoi due bambini. Poi prende il cellulare per mandare qualche foto alla sua ragazza. Già che c’è controlla se il papà gli ha risposto. Poi mette via il cellulare ed è presente al cento per cento. Poi lo tira fuori di nuovo e dà un’occhiata ai titoli dei giornali. Poi lo mette via. Poi prende il cellulare e dà un’occhiata ai tabloid. Alle pagine della cultura. Alle pagine scandalistiche. Poi lo mette via. Poi prende il cellulare e controlla Facebook, Instagram e Twitter. Poi lo mette via. È presente. È lí e ora, non da qualche altra parte. La bambina prende due grossi cubi di gommapiuma e cerca di spingerli su per uno scivolo. Il piccolo sbatte due palline una contro l’altra. Il papà si infila con discrezione un auricolare. Richard Pryor prende in giro uno spettatore che cerca di scattare qualche foto (you probably ain’t got no film in the muthafucka either), fa una battuta su un bianco che torna dalla toilette e trova il suo posto occupato da un nero (oh dear), imita il verso delle sue due scimmiette che si accoppiano, dà voce al pastore tedesco che lo consola quando le scimmiette muoiono, sostiene di essersi sniffato da solo l’intero Perú. E anche se conosce le battute a memoria, il papà ride da solo, in silenzio. Si sente un bravo papà. Ad ogni modo un papà mille volte migliore di quello che avrebbe dovuto essere lí alle dieci e ancora non si è visto. È bravo a fare il papà. Anche se nessuno gliel’ha insegnato. E in quel preciso momento, mentre il piccolo sbava e lancia palline e la bambina spinge cubi di gommapiuma su per uno scivolo e Richard Pryor imita il suono delle gomme che si sgonfiano quando spara alla sua stessa macchina per impedire alla sua ex di lasciarlo, si sente davvero realizzato. È per quei momenti che si fa quel che si fa.
Quando i bambini si sono svegliati alle cinque, è stato lui a occuparsi di loro. Ha preparato la colazione, cambiato il pannolino al piccolo, riempito i biberon di silverte, la bevanda preferita di sua nonna, a base di acqua calda, latte e miele. Ma dato che la sua ragazza ha il terrore che i loro figli assumano troppi zuccheri, la ricetta è stata ridotta ad acqua calda e latte, ma dato che la sua ragazza ha sentito dire che il latte vaccino potrebbe essere cancerogeno, la bevanda mattutina dei bambini consiste in un biberon di acqua calda e latte d’avena. La figlia in realtà sarebbe troppo grande per usare il biberon, il figlio in realtà sarebbe troppo piccolo per bere silverte, ma dato che la figlia vuole essere piccola e il figlio grande è cosí che cominciano le loro giornate. Quando la mamma si alza trova i bambini vestiti, la sua acqua e limone pronta cosí come il suo semolino di miglio, la lavastoviglie vuota. Gli piacerebbe credere che lo fa perché è una brava persona, che gli viene naturale, che sono cose che si fanno senza pensarci. Ma lui non ha mai fatto niente in modo naturale. Ogni volta che fa qualcosa pensa a come gli altri la vedranno. Si fa i complimenti da solo per aver svuotato la lavastoviglie e si sforza di scacciare le voci che bisbigliano che odia quella vita, che non si è mai annoiato tanto e che l’unica cosa che vuole davvero è alzarsi e andarsene. Mollare tutto e sparire.
Eppure se ne sta lí seduto nel mare di palline e si sente grato, malgrado tutto. È felice. Sono quelli gli anni d’oro. Quelli che rimpiangerà quando i figli se ne andranno di casa. Anche se il tempo sembra essersi fermato. Sono arrivati lí alle dieci e un quarto e adesso sono le undici e venti. Lancia la pallina. Prendi la pallina. Lancia la pallina. Prendi la pallina. Cambia il pannolino. Asciuga la saliva. Lancia la pallina. Prendi la pallina. Lancia la pallina. Prendi la pallina. L’unica cosa che lo salva è la voce di Pryor che racconta di quando si era dato fuoco per errore, e che non era mai stato cosí bene in vita sua come in quel letto di ospedale, senza dover fare niente.
La bambina si tocca tra le gambe. Ti scappa la pipí, tesoro?, grida il papà. No, grida la bambina in risposta. Il piccolo gattona verso tre grandi specchi deformanti. Si vede riflesso e sorride, con i suoi quattro denti che brillano e la maglietta azzurra, tranne che attorno al collo dove la saliva l’ha resa blu scuro. Sicura che non ti scappa?, chiede il papà. Sicura, risponde la bambina.
Il papà resta seduto nel mare di palline. Le due mamme, o la mamma e l’amica, arrivano con la figlia. Il papà inclina la testa per togliere l’auricolare. Fa un rapido confronto mentale in base a bellezza, sviluppo, denti, abbigliamento. Arriva alla conclusione che l’altra è superiore in bellezza, ma suo figlio ha la testa piú grande, che è segno di futura intelligenza. La bambina ha vestitini piú moderni e ben abbinati, ma quelli di suo figlio sono piú nuovi e funzionali. L’altra avrà pure un bel sorriso, ma il suo ha piú capelli. Lei fa qualche passetto da sola, ma è molto incerta sulle gambe, mentre suo figlio gattona come un fulmine e ha iniziato a camminare con il girello. Alla fine il risultato è un pareggio. Piú o meno. Il papà sorride alle due donne. Loro ricambiano il sorriso. Riconosce quello sguardo. Stanno pensando che è un bravo papà, perché è questo che fanno i bravi papà: si alzano presto, vanno al parco giochi, cambiano i pannolini, raccolgono da terra lego, duplo e playmobil, raccolgono macchinine della polizia e motociclette e mani di plastica e peluche e scatole vuote e borsellini per bambini e carte da memory e tessere di puzzle e guanti e berretti e calze e perline. Stanno chini in avanti o in ginocchio, imprecano a bassa voce per non farsi sentire, insegnano ai propri figli che la cosa piú importante nella vita, la cosa piú importante di tutte è non arrendersi mai. Qualunque cosa succeda, non bisogna mai dire: non ci riesco, non è possibile. Tutto è possibile, tutto si può fare, basta non arrendersi mai mai mai. Hai sentito?, ripete alla bambina una volta dopo l’altra. Sííííí, risponde lei con quella voce che la fa sembrare quasi un’adolescente. Parlo sul serio, dice il papà sfidando la figlia a un incontro di lotta libera. Rotolano di qua e di là per il pavimento, la bambina finisce in una posizione difficile, il papà l’ha immobilizzata con una pericolosissima presa solleticoccolosa, la bacia e le fa il solletico, la bacia e le fa il solletico. Il piccolo osserva prima perplesso poi divertito quell’incontro che sembra non finire mai. Arrenditi, urla il papà. Okay, urla la bambina. No, urla il papà, non bisogna mai arrendersi. Ma mi hai detto di arrendermi, obietta la bambina. Quando ti dico di arrenderti, tu devi rispondere… Te lo ricordi? Ricordi cosa non bisogna mai fare? Breve pausa nell’incontro di lotta solleticoccolosa. La bambina riflette. Cosa ti dico sempre?, chiede il papà. Io non mi arrendo… MAI, urla la figlia. ESATTO, urla il papà, e l’incontro riprende, mentre il piccolo guarda a occhi spalancati la bambina che all’improvviso trova energie da Hulk e atterra il papà sulla schiena, restituisce l’attacco di solletico e gli dice di arrendersi, e il papà: Non mi arrendo! Ma non ha importanza perché ormai la figlia ha vinto, e il papà dice: Brava, bell’incontro, e la bambina dice: Bravo anche tu, bell’incontro, e il piccolo li raggiunge gattonando e sbava in faccia a tutti e due.
Il parco giochi si riempie di bambini. Si formano code per salire sugli scivoli. Arrivano classi di scuola materna, arrivano baby-sitter, arrivano famiglie con sette figli. La bambina corre verso di lui, e il papà capisce dalla voce che è troppo tardi. Papà papà papà! Per fortuna avevamo dei pantaloni di ricambio, dice il papà dopo essere stati in bagno a cambiarsi, mentre il personale asciuga la pozza senza battere ciglio. Vero?, ripete il papà accarezzando la figlia. Che fortuna pazzesca che avevo portato un paio di pantaloni di ricambio. Poi tace. Si rende conto che sta cercando un applauso. Vuole che sua figlia di quattro anni lo guardi e dica: Wow, papà, pazzesco che ti sei ricordato di portare delle mutandine e dei pantaloni di ricambio. Ma la bambina è piú interessata a capire come funziona il rubinetto a fotocellula. In punta di piedi davanti al lavandino, infila una mano sotto il rubinetto e l’acqua inizia a scorrere. Una volta dopo l’altra. È automatico, dice. Proprio automatico!
Il papà ne approfitta per cambiare pannolino al piccolo. È da poco diventato abbastanza grande da capire che può ribellarsi. Non appena è sdraiato sulla schiena si trasforma in una cintura nera di judo in grado di sfuggire a qualsiasi presa, bisogna togliergli il pannolino con una mano e tenerlo fermo con l’altra sulla pancia; basta distogliere un attimo lo sguardo per prendere le salviette e lui non c’è piú: è seduto da solo nel mare di palline, ha preso la metro per tornare a casa per conto suo, oppure si è semplicemente girato sulla pancia e tirato su aggrappandosi alla parete, per poi tentare di lanciarsi giú dal fasciatoio come un paracadutista. Ma il papà è un esperto. Il papà ha visto tutto. Quando la bambina era piccola aveva pazienza e provava a spiegarle che doveva stare ferma finché non aveva finito. Con il piccolo invece si arrabbia. Lo tiene giú, lo lascia strillare, gli mette un panno pulito e costringe la bambina a smettere di allagare il lavandino.
È venerdí e finalmente un papà che è anche un nonno vedrà i suoi nipotini. Lui aveva proposto di incontrarsi al solito posto, al primo piano di Åhléns City, all’ingresso che dà sul reparto profumi. È lí che si vedono sempre. Perché era lí che si preparavano quando il figlio aveva dodici anni, uno scatolone vuoto in una mano e una ventiquattrore nell’altra. La borsa del figlio era uguale a quella del papà, solo un po’ piú piccola. Non appena i poliziotti in uniforme avevano fatto il loro giro, padre e figlio uscivano e si dirigevano verso Drottninggatan. Showtime, bisbigliava il primo, e il figlio sorrideva, perché era grato di poter stare un po’ con il suo adorato papà. Bisognava sbrigarsi per non farsi fregare il posto dal ragazzo che vendeva cagnolini meccanici, o da quello con gli omini di plastica da attaccare ai vetri delle finestre, o dal tipo vestito da indiano che vendeva piccoli fischietti da mettere sotto la lingua, che se usati con la tecnica giusta (piuttosto difficile) permettevano di cinguettare come uccellini. L’unico che aveva la licenza e non se ne andava mai all’arrivo della polizia era il tizio degli hot dog, ma lui non faceva concorrenza a nessuno. Anzi, quando vedeva arrivare una volante fischiava sempre per avvisare, cosí quelli che tenevano la merce esposta su un lenzuolo lo trasformavano al volo in un grosso fagotto, per poi dirigersi a passo svelto verso Åhléns. Quelli che esponevano la merce in una ventiquattrore appoggiata a uno scatolone invece davano un calcio al cartone, chiudevano la valigetta e si incamminavano fischiettando in direzione di Hötorget. Il tizio degli hot dog restava dov’era, chiamava i poliziotti con un cenno e si offriva di mostrare la licenza, anche se tutti sapevano che ce l’aveva. Era lí che padre e figlio andavano a vendere nel fine settimana. Vendevano or...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La clausola del padre
  4. I. Mercoledí
  5. II. Giovedí
  6. III. Venerdí
  7. IV. Sabato
  8. V. Domenica
  9. VI. Lunedí
  10. VII. Martedí
  11. VIII. Mercoledí
  12. IX. Giovedí
  13. X. Venerdí
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Copyright