La libertà di Nick Mason durò meno di un minuto.
Allora non lo sapeva, ma poi avrebbe ripensato a quel giorno e ricordato quei primi passi liberi fuori dal cancello, dopo cinque anni e ventotto giorni passati dentro. Non c’era nessuno a tenerlo d’occhio, nessuno a sorvegliarlo, nessuno a dirgli dove andare e quando. In quel momento avrebbe potuto imboccare qualunque strada. Scegliere qualunque direzione. Ma la Escalade nera lo aspettava, e appena fatti quei trenta passi e aperta la portiera dal lato del passeggero, la sua libertà svanà un’altra volta.
Mason aveva sostanzialmente firmato un contratto. Di solito, chi lo fa sa che cosa ci si aspetta da lui. Ne legge i termini, capisce di che lavoro si tratta, sa esattamente quel che dovrà fare. Ma Mason non aveva letto niente, perché il contratto non era nero su bianco, e non aveva firmato niente, aveva semplicemente dato la sua parola, senza avere la piú pallida idea di quello che sarebbe successo dopo.
Era pomeriggio inoltrato, il resto della giornata passato a sbrigare le pratiche e cambiarsi d’abito. Il quotidiano rito del rilascio dal penitenziario Terre Haute. Operazioni carcerarie tipiche, sbrigarsi e aspettare, le guardie che traccheggiano fino all’ultimo. C’erano altri due detenuti con lui, ansiosi di uscire. Uno dei due non l’aveva mai visto. Niente di strano, in un carcere con cosà tante unità separate. L’altro gli era vagamente familiare. Veniva dal braccio in cui stava Mason prima di spostarsi.
– Ah, esci oggi, – disse quello, sorpreso. Qui dentro quasi nessuno parla della durata della sua pena, ma d’altra parte non c’è bisogno di farne un gran segreto. Evidentemente, l’uomo aveva preso Mason per un detenuto di lungo corso. O forse l’aveva sentito dire da qualcuno. A Mason non importava. Lo ignorò, e senza dire una parola tornò ai suoi moduli di scarcerazione.
Una volta finito con quelli, l’addetto fece scorrere sotto lo sportello una vaschetta di plastica con gli indumenti che Mason indossava il giorno che era entrato. Sembrava passato un secolo. Era arrivato lÃ, in quella stessa stanza, e gli avevano detto di riporre i vestiti nella vaschetta. I jeans neri e la camicia bianca coi bottoni sulle punte del colletto. Ora era strano togliersi il cachi, come se quel colore fosse parte di lui. Ma i vecchi vestiti gli andavano ancora.
Uscirono tutti e tre insieme. I muri di cemento, le porte d’acciaio, il doppio reticolato col filo spinato in cima: tutto alle spalle, quando si trovarono fuori sul selciato bollente in attesa che il cancello si aprisse con fragore. Ad aspettare c’erano due famiglie. Due mogli, cinque ragazzini, tutti con l’aria di essere là da ore. I bambini portavano cartelli scritti a mano con lettere multicolore, per dare il bentornato a casa ai loro padri.
Non c’era nessuno ad aspettare Nick Mason. Nessun cartello.
Rimase là a battere le palpebre per qualche istante, col sole rovente dell’Indiana che gli martellava sulla nuca. Aveva il viso ben rasato, la pelle chiara, era alto all’incirca un metro e ottanta. Muscoli tonici, ma magro come un peso medio. Una vecchia cicatrice gli copriva tutto l’arco del sopracciglio destro.
Vide la Escalade nera, in folle accanto al marciapiede. Il veicolo non si mosse, quindi gli si avvicinò lui.
I vetri erano oscurati. Mason non vide chi c’era dentro finché non aprà la portiera davanti dal lato del passeggero. A quel punto si rese conto che al posto di guida c’era un ispanico, con gli occhi nascosti dagli occhiali da sole. Un braccio allungato sul volante, l’altro appoggiato sulla leva del cambio. Portava una semplice T-shirt bianca con le maniche tagliate, jeans e scarponcini, una catenina d’oro al collo. I capelli scuri erano tirati indietro e raccolti con una fascia nera, e quando gli occhi di Mason si furono abituati alla penombra, scorse i fili grigi e le rughe sulla faccia. Aveva almeno dieci anni piú di Mason, forse qualcuno di piú. Ma era solido come la roccia. I tatuaggi gli coprivano tutte e due le braccia, fino alle dita, e portava tre anelli all’orecchio destro. Mason non vedeva l’altro orecchio perché l’uomo non si era girato verso di lui.
– Mason, – disse l’uomo. Un’affermazione, non una domanda.
– SÃ, – confermò Mason.
– Sali.
Sono fuori da cinque minuti, si disse Mason, e già sto per infrangere le mie regole. Regola numero uno: Mai lavorare con chi non conosci. Ti mandano in galera o sottoterra. Uno che non conoscevo mi ha già mandato nel primo, di posto. Non ho bisogno di un altro sconosciuto che mi mandi nel secondo.
Quel giorno Mason non aveva scelta. Montò in macchina e chiuse la portiera. Il tipo non si era ancora voltato a guardarlo in faccia. Mise in moto e uscà dal parcheggio della prigione accelerando dolcemente.
Mason si guardò intorno. L’interno dell’auto era pulito. I sedili in pelle, la tappezzeria, i finestrini. Doveva dare atto almeno di questo, al tipo. La macchina sembrava appena uscita dal salone del concessionario.
Guardò meglio i tatuaggi. Non era roba da galera, quella. Niente ragnatele, niente orologi senza lancette. Il tipo aveva speso un bel po’ di tempo e denaro sulla poltrona di un vero professionista, anche se il colore cominciava a sbiadire. C’era un reticolo azteco che gli copriva tutto il braccio destro, con un serpente, un giaguaro, una lapide e certe parole in spagnolo che significavano chissà che. Inconfondibili, però, le tre lettere in verde, bianco e rosso sulla spalla. Lrz. La Raza. La gang messicana numero uno del West Side di Chicago.
Altra regola infranta, pensò Nick. Regola numero nove: Mai lavorare con quelli delle gang. Hanno stretto un patto di sangue. Ma non con te.
Passarono un’ora in silenzio. Il guidatore non lo aveva degnato neanche di uno sguardo di traverso. Mason non poté fare a meno di chiedersi cosa sarebbe successo se avesse acceso la radio. O se si fosse azzardato ad aprire bocca. Qualcosa lo indusse a restarsene zitto. Regola numero tre: Nel dubbio, tieni la bocca chiusa.
Dopo aver superato quasi tutte le uscite della US-41, finalmente ne imboccarono una. Per un attimo Mason si chiese se non fosse tutta una trappola. Era un riflesso inevitabile quando si stava in prigione, essere preparati al peggio in qualsiasi momento. A due ore di distanza dal carcere, da qualche parte nel bel mezzo dell’Indiana occidentale, il guidatore avrebbe potuto prendere un’uscita abbandonata, guidare per qualche chilometro tra i campi e piantare una pallottola in testa al passeggero. Lasciare il suo corpo là nel fosso sul bordo della strada. Ma che bisogno ci sarebbe di scomodarsi tanto per fare una cosa che si poteva benissimo fare prima, un giorno qualsiasi, nel cortile della prigione? Comunque Mason sentà i nervi tendersi, quando l’auto rallentò.
Il guidatore si fermò a un distributore di benzina. Scese e riempà il serbatoio. Mason stava là seduto al posto del passeggero e guardava dal finestrino il piccolo minimarket. Dalla porta a vetri uscà una ragazza. Sui vent’anni, shorts e canottiera, infradito. Erano cinque anni che Mason non vedeva una donna in carne e ossa vestita cosÃ.
Il guidatore tornò al suo posto e mise in moto. Si rinfilò sulla statale, puntò verso nord e il tachimetro schizzò sulle settanta miglia orarie. Si addensavano nuvole scure. Quando raggiunsero il confine dell’Illinois, pioveva. Il guidatore azionò i tergicristalli. Il traffico era aumentato e sulla strada lucida di pioggia si riflettevano i fari delle altre auto.
Gli alti edifici si perdevano tra le nuvole, ma Mason avrebbe riconosciuto il posto anche col cielo molto piú buio e le nubi sospese sopra le vie della città ben piú basse.
Era quasi a casa.
Ma prima il lungo passaggio sul Calumet River, le gru, i ponti levatoi e i cavi elettrici. Il porto era laggiú. Il porto e la notte in cui tutto, nella sua vita, era cambiato. La notte che lo aveva portato fino a Terre Haute e a un uomo di nome Cole. E poi, chissà come, eccolo di nuovo lÃ, molto prima del previsto.
Fece il conto alla rovescia delle strade. Ottantasettesima. Settantunesima. Ora erano nel South Side. La pioggia continuava a cadere, il guidatore continuava a guidare. Garfield Avenue. Cinquantunesima. Se vuoi accendere una discussione, ti basta andare in un qualunque bar della zona e chiedere ai clienti fissi se Canaryville parte dalla Cinquantunesima o dalla Quarantanovesima: fai un passo indietro e guarda come volano le parole. E poi i pugni, se è abbastanza tardi.
Oltrepassarono il grande scalo ferroviario con un migliaio di carri merci in attesa di una locomotiva. Poi i binari che costeggiavano il margine orientale del suo vecchio quartiere. Mason prese fiato mentre superavano la Quarantatreesima. Lo travolse all’improvviso una marea di ricordi di tutta una vita, senza un ordine, belli e brutti: il papà di Eddie che li portava al vecchio stadio Comiskey Park, la prima auto che aveva rubato, l’unica partita in cui aveva visto giocare Michael Jordan, la prima notte passata in galera, la festa dove aveva conosciuto una ragazza di Canaryville di nome Gina Sullivan, il giorno che avevano comprato l’unica casa che avrebbe sempre sentito davvero sua… era tutto lÃ, tutto mischiato insieme, a Chicago. I vicoli e le vie di questa città scorrevano come vene dentro di lui.
Nel nuovo stadio dei Sox le luci erano accese, ma pioveva ancora troppo forte per giocare. L’Escalade attraversò il Chicago River e si addentrò nel centro. La Sears Tower – ora e per sempre Sears Tower, qualunque nome nuovo cerchino di affibbiargli – dominava l’orizzonte e li guardava dall’alto attraverso un improvviso squarcio tra le nubi, con le due antenne come corna di un diavolo.
Il guidatore finalmente lasciò la statale e imboccò North Avenue attraversando tutto il North Side, finché Mason non vide le sponde del lago Michigan. Una distesa infinita di blu e di grigi che si fondevano con le nubi cariche di pioggia. Quando svoltarono su Clark Street, Mason fu sul punto di parlare. «Mi porti qui, fino al fondo del North Side, per cosa, amico? Una partita dei Cubs, magari? Buona fortuna».
Mason odiava i Cubs. Odiava ogni cosa del North Side, e ciò che rappresentava. Quando era ragazzo, il North Side era tutto quello che lui non aveva e non avrebbe mai avuto.
Il guidatore svoltò ancora, per immettersi nell’ultima strada che Mason credeva di poter vedere quel giorno. Lincoln Park West. Quattro isolati di condomini lussuosi affacciati sui giardini, la serra e, piú in là , il lago. Tra le palazzine c’erano anche ville unifamiliari, abbastanza alte da sovrastare la strada e tutti i passanti. Il guidatore rallentò e si fermò di fronte a una di quelle grandi case. Si trovava alla fine dell’isolato; tre piani, un pesante portone d’ingresso e i posti auto coperti, grate di ferro alle finestre dell’ultimo piano. Sul fianco dell’edificio c’era un altro edificio a un piano sormontato da un terrazzo, affacciato sull’incrocio, il parco e il lago. Quanto per questo posto, cinque milioni? Diavolo, probabilmente non bastavano.
Il guidatore ruppe il silenzio. – Io sono Quintero –. Lo pronunciò come se uscisse dal fondo di una bottiglia di tequila. KinTÈIro.
– Lavori per Cole?
– Sentimi bene, – disse Quintero. – Perché tutto quel che ho da dire è importante.
Mason lo guardò.
– Se hai bisogno di qualcosa, – disse Quintero, – mi chiami. Se ti cacci in qualche situazione strana, mi chiami. Non lavorare di fantasia. Non cercare di sistemare le cose da solo. Chiami me. Chiaro fin qui?
Mason annuÃ.
– A parte questo, non mi frega un cazzo di come passi il tempo. Sei stato dentro per cinque anni perciò vai a farti una bevuta, una scopata, non m’interessa. Ricordati solo che devi stare fuori dai guai. Se ti fai beccare per qualunque cosa, ti ritrovi con due problemi: quello per cui ti hanno beccato… e me.
Mason si girò a guardare dal finestrino.
– Perché siamo qui?
– Adesso abiti qui.
– Non sono tipo da abitare a Lincoln Park, – disse Mason.
– Sto per darti un cellulare. Quando ti chiamo, tu rispondi da questo telefono. In qualunque momento. Giorno o notte. Linea occupata, utente non disponibile? Non esiste. Esiste solo che tu rispondi a questo telefono. E che poi fai esattamente quello che ti dico di fare.
Mason rimase là fermo sul suo sedile a riflettere su queste ultime parole.
– Il cellulare è qui dentro, – disse Quintero tirando fuori una grossa busta da dietro il sedile. – Insieme alle chiavi dell’ingresso e del retro, e al codice di sicurezza.
Mason prese la busta. Era piú pesante del previsto.
– Diecimila dollari in contanti e la chiave di una cassetta di sicurezza alla First Chicago sulla Western. Ci troverai altri diecimila ogni primo del mese.
Mason osservò il tipo ancora una volta.
– Nient’altro, – disse Quintero. – Tieni il telefono acceso.
Mason aprà la portiera dal lato del passeggero. Stava per scendere quando Quintero gli afferrò il braccio. Mason si irrigidà – altro riflesso da prigione: se qualcuno ti afferra, la tua prima reazione è decidere che dito spezzargli per primo.
– Ancora una cosa, – fece Quintero stringendo forte. – Questa non è libertà . È mobilità . Non confondere le due cose.
Quintero lo lasciò andare. Mason scese e chiuse la portiera. Non pioveva piú. Mason rimase là sul marciapiede e guardò l’auto di Quintero ripartire e svanire nella notte. Prese la chiave dalla busta, aprà la porta ed entrò.
Nell’ingresso il soffitto era alto e il lampadario appeso sopra la sua testa era un’opera d’arte moderna con mille schegge di vetro. Sul pavimento, grandi piastrelle disegnavano un motivo a rombi. Le scale erano di ciliegio lucidato. Restò là fermo per qualche istante, poi si accorse del segnale acustico. Vide il quadro del sistema d’allarme sulla parete, estrasse il codice dalla busta e lo digitò sul tastierino. Il bip-bip cessò.
La porta alla sua destra dava su un garage a due posti. In uno c’era una Mustang nera. Sapeva esattamente di che si trattava: una 390 GT Fastback del 1968, quella di Steve McQueen in Bulli...