E venne il tempo dell’Apocalisse,
quando quello stampato sulla porta
mi divenne disegno di dolore,
numero aperto dell’infame attesa,
e la donna che in pianto conclamava
le catene dell’odio aveva fame
della sutura satura di Dio;
venne la veglia ove le cose infami
profanavano bocche virginali,
ed esangui le tenere donzelle
soggiacevano ai maschi incestuosi,
e là, infami dannate sulla pietra
volgevano la testa oltre il desio,
la torcia mi gravò sopra le ciglia,
insanguinava le mie gote appena
sfiorate dal passato.
Se tu sei stato amore mio il mio fiore
ora sei diventato un grande spino,
se sei stata quell’aria benedetta
che cavava da me torsi di mele
ora sei diventato la mia schiava,
bara di sangue cui sto aggrovigliata
in un perenne assurdo tradimento
ma il nitrito scavalca la tua fronte
e raggiunge le veglie del Signore
e sonorizza il tuo peccato appieno,
pescatore di frode maledetta.
Io compiango il tuo alto tradimento,
ché soltanto Caino può parere
amico del demonio, mentre invece
si scava nella pietra le ginocchia
e non preme piú l’erba né si dorme
sopra i cigli del fosso che la neve
lo solca del suo morbido abbandono,
gelo di morte che non ha confine.
Ma lei, la madre che si addormentava
sul ciglio facoltoso del peccato,
giungeva triste a quella sua ruina
e Amleto la vegliava dentro l’erba,
e cosí io ti veglio amore mio,
piena di scabre pietre di perdono,
e perché so, di ira solamente
ho perso la mia era:
non ho spirali dense come pietre
da scagliarti alla fronte maledetta.
Ofelia, che dorava le mie notti
portando al seno il carro verginale,
della rosa portò la dolce chioma
e chiese ove si andasse ad abitare
la divina follia poiché trionfo
aveva dello scavo degli dei;
l’amletica Ofelia domandava
parola di abbandono ed ecco, eccelsa
nel campo adusto davanti la luna,
ogni usignolo che fioriva sul ramo.
Cristo discese nella madreselva
portando un unguento di parole,
fumiga dall’alto il bel destriero
dell’amletico padre e devastato
nella fronte il bel principe chiedeva
novità dall’inferno; ed ecco il dubbio
innamorato del mio divo amore
sopra cui questi zoccoli divini
stampano le foglie: aggrovigliato
al senno della madre, trascinando
Ofelia nei capelli, egli moriva
paggetto dell’amore angoscioso.
Apriti amore e fammi vedere il sesso
dove fiorisce il senso del pudore,
sono Saffo infinita
che vuole annegarsi nel tuo germe pallido:
a me i sussurri delle pietre lontane,
a me il galoppo dei tuoi cavalli!
Orfeo che grondi fiori,
guarda e patisci dei suoi fianchi segreti
e Venere che incalza
sul piedestallo delle memorie giovani;
il cantare mitico diventa musica
dentro i tuoi occhi.
Anche la malattia mentale è presente,
oscuro vaniloquio di metallo,
anche la malattia mentale “ti ama”,
lei ha un voluminoso corpo di amore
eppure è ridondante…
Anche la malattia mentale patisce
della tua tenera discendenza,
ti stende immobile sopra un letto,
ti sussurra parole lente
(è vano il discolparsi),
lei è la protagonista del tuo sangue,
la malattia mentale è l’Arcata Maggiore
e l’Archita divino impervio,
è l’anima della parola.
La tua soavità – un giogo
inavvertito, anzi nascosto,
quasi un ladro nella notte.
Ed eccomi a inutile lotta,
al sequestro di persona
a me piú cara;
e al possibile
riscatto – senz’alcun dubbio
credere in te soave e su
tutto e tutti piú amarti
(e a segno sicuro che sei
in sue mani, un frammento
giunge delle sue ossa).
Non lotta, non evoluzione
progressiva potrà sciogliere
un tale laccio d’amore.
Il tuo primogenito (a cui non si ferma
la genesi – e che trascuriamo),
il prima del pieno, il creato
(dall’increato?) contenitore –
il primo amato che rievochi
amando in ogni creatura,
svuotando dell’amato chi ama –
hai con lui creato il castigo,
la follia del vuoto scavato
dai ricordi dell’amore perduto,
il dirupo senza fine di Satana,
il peccato il peccato.
Ma Cristo per noi non v’è risalito?
(salvi me e chi amo).
Caro, io e te siamo soli,
i nostri profili si stagliano contro il vento
da innumeri anni ormai,
ci teniamo per mano
come andassimo al giudizio di Dio
che tarda troppo a venire;
per anni siamo stati associati alla morte,
per anni ci siamo guardati in viso
confondendo la nostra aspettazione
e io ho raccolto ogni tuo strascico di anima,
me ne son fatta un forte mantello,
perché io e te siamo soli,
nessuno che ci ami profondamente e forte,
nessuno che ci ripari dal destino
e allora abbiamo la pelle bruciata dal vento,
dalle piogge, dal sole,
perché tacendo abbiamo fatto un lungo discorso
con l’Eterno, con Dio,
perché, amor mio, purtroppo
io e te siamo soli
e gli angeli sono distanti.
1981*
Io ti amo nelle cose semplici e pure,
in tutto ciò che è elementare e sacro,
nelle acque vergini, nelle polle sublimi,
ti amo nella madre terra,
e nel mio grembo sconfitto,
ti amo nella mia poesia
e nella mia umiltà mai redenta,
ma soprattutto ti amo perché sei un poeta
come me e mi comprendi
e come due teneri uccelli
ci avvicendiamo sull’albero
pronti per gli sponsali.
Natale 1982
Se lo psicanalista ammalato
smettesse di versare argento
sulle parole infuocate,
smettesse di studiare musica
traendo mutevoli inganni,
allora scoprirebbe l’anima
e la centrale del male.
Forse che lui è obbiettivo
o molto miope è,
forse che trangugia balsami,
sostanze tossiche e male,
per questo non vede le vene,
ma lo psicanalista stregato
ha le somme di tutti i misteri,
è un computer metallizzato
ed io che sto lievitando
sopra il suo letto di attesa,
soffro di innalzamenti
perché inseguo la mia memoria,
e cosí due discorsi diversi
traversano quelle stanze
né lui riesce a capire
quanto sia fuori da Freud.
Hai versato una coppa di olio
e balsami profumati
su un cuore divorato dalle fiamme,
Oreste: sappi che il nome
dell’uomo amato non giunge
oltre la carità,
sappi che l’amore di Pierri
è fiamma dell’alto ingegno,
sappi che una povera donna
piange su mille dracme
il valore infelice della vita.
Pierri ed io eravamo amici
ma suonavamo il flamenco della sua anima.
Pierri amava me
perché amava la sua poesia,
sapeva Pierri che era il nocciolo duro
delle cose che non si contano.
Lui, la mia matrice di sogno,
adesso ha le occhiaie vuote
e geme dentro al sonno,
lui, che era siccome un Albero,
adesso non dà piú frutto
ma ghiande solo di pianto.
Pierri ed io eravamo due divini levrieri,
abbiamo rincorso la morte di Ettore
per poterla atterrare,
ma la selvaggina di Dio
è pur svelta a fuggirci dalle mani.
Come Minerva Jones,
anche io ero assetata di amore,
come Minerva Jones,
anche io morii di putrido parto,
né tu amore potrai mai percepire
cosa sia l’essenza di un bacio.
Tu non hai visto mai il mio lato in fiore!
(dal Diario di Spoon River)
14 febbraio 1983
Ma la morte è pur sempre il segnale delle nostre esistenze,
se guardiamo al pallido andare
dei nostri remoti ricordi
troveremo lo scalpello per la parola Ade
e l’interna paura che il frammento del nostro corpo
vada perduto.
Ma se arretriamo nella nostra canzone
troveremo la tristezza che ci fa morire
anche se è sentimento di amore,
tutto brucia e corrompe.
Oh la morte è il nostro alveolo solo,
quello che non indietreggia davanti a nulla,
è in fondo il nostro scudo mortale
davanti alle perlustrazioni di Dio.
4 maggio 1985
Ma se tu maestro dici che la mia poesia non è etica
sbagli, perché io commetto un errore di sale,
un errore di pronuncia e di zelo
e invece di pronunciare Dio
di...